I teorici dell’economia nell’Ottocento
e poi nel Novecento
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Nell'arco di un secolo e mezzo, da Adam Smith a John Maynard Keynes, il pensiero economico ha proposto varie interpretazioni del sistema capitalistico: l'economia politica classica si sviluppò nella sua fase iniziale, e a quell'epoca era importante indagare sull'accumulazione e sullo sviluppo per comprenderne i presupposti e prevederne le linee di tendenza; il marginalismo si trovò di fronte ad un sistema che si "assestava", e ciò consentì agli economisti di concentrarsi su problemi allocativi. Keynes ebbe alle spalle la "grande depressione", e si preoccupò di elaborare una teoria che sostenesse e rinvigorisse il sistema.
Così, secondo l'acuta e originale sistemazione di A. K. Dasgupta, le teorie economiche ci appaiono non come momenti di un unico sentiero di sviluppo del pensiero economico, ma come teorie alternative, tutte attuali, alle quali ci si può di volta in volta rivolgere per interpretare i contesti economici che maggiormente assomigliano a quelli in cui ciascuna teoria è stata concepita.
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Per gli studiosi classici della scienza economica, da Adamo Smith a Carlo Marx a John Maynard Keynes, la ricchezza non è mai stata considerata come fine da perseguire bensì come un mezzo. I grandi personaggi che si sono occupati dell’economia, in quanto disciplina, prima di essere economisti sono stati degli umanisti. Per questo genere di personaggi l’intento per perseguire il sogno, l’ideale, dell’abbondanza per tutti e’ sempre stato il progresso tecnico, ossia sostituire le macchine agli uomini: una intenzione che dagli antichi greci e dai romani veniva prospettata ma che alla fine veniva archiviata considerandola utopistica o, da taluni, dannosa. In proposito ci piace riportare un pensiero di Aristotele: “Se ogni attrezzo potesse eseguire su ordinazione, o per suo proprio conto, il compito che gli è assegnato, l’architetto non avrebbe più bisogno di manovali, ne’ il padrone di schiavi. Se la spola potesse correre da sola sulla trama, l’industria non avrebbe bisogno di operai”.
A pensarla in quel modo fu pure l’Imperatore Diocleziano che arrivò ad ordinare ai suoi inventori di accantonare il marchingegno che permetteva di sollevare meccanicamente le immani colonne dei templi in costruzione, di bruciare il carteggio di quei progetti, che avrebbero provocato disoccupazione e fame “ per i suoi poveri proletari “.
In tempi più recenti l’economista Sismonde de Sismondi (1773-1842) configuro’ l’esito estremo dell’automazione di una metafora del suo tempo: il re d’Inghilterra che, girando una manovella, produce tutto quanto e’ necessario ai suoi sudditi. E si domandava: che ne sarà dei sudditi? E se non ci saranno i sudditi che ne sarà del re?
Marx, di contro aderiva con soddisfazione all’idea, anche perché vi vedeva il traguardo di fare a meno del re. Suo genero, Paul Lafargue, che era meno radicale di Marx, immaginava una progressiva riduzione degli orari di lavoro e una corrispondente espansione dell’orario di riposo (che in quegli anni veniva definito orario dell’ozio).
Ai giorni più recenti John Maynard Keynes formulò una teoria ottimistica: Il progresso tecnico era andato ormai tanto avanti da far prevedere che assai presto gli uomini avrebbero potuto procurarsi tutti i beni necessari alla loro sopravvivenza e al loro confort con due o tre ore di lavoro giornaliere, dedicando il resto al riposo e a cose più serie, come l’amore e la cultura.
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Vedremo in prosieguo come nel Novecento e’ stato gestito il grande beneficio derivante dal progresso tecnico.
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