Ida Dominijanni, giornalista
NO
Io dico no, per ragioni di merito e di metodo, e per una terza ragione, di valutazione storica. Comincio dalle ragioni di merito. Primo, con la riforma il bicameralismo non finisce ma resta, non più paritario ma in compenso molto confuso. Il senato non sparisce ma non sarà più elettivo. Non diventa affatto un senato delle autonomie, espressione dei governi regionali e con competenze sul bilancio, ma una camera di serie b, composta da consiglieri regionali e sindaci scelti su base partitocratica, i quali tuttavia, pur privi di legittimazione elettorale, avranno competenze su materie cruciali come i rapporti con l’Unione europea e le leggi costituzionali e potranno richiamare le leggi approvate dalla camera per modificarle. Secondo, la riforma del titolo V, invece di correggere quella malfatta nel 2001 dal centrosinistra, la rovescia nel suo contrario: da troppo regionalismo si passa a troppo centralismo, con la clausola di supremazia dell’interesse nazionale che tronca in partenza qualunque opposizione dei comuni e delle regioni a trivelle, inceneritori, grandi opere, centrali a carbone e quant’altro: se il governo li considera “di interesse nazionale” e ce li pianta sotto casa ce li teniamo.
Terzo, combinata con l’Italicum (che è la legge elettorale vigente, e non è affatto detto che cambierà se vince il sì, nonostante le promesse di Renzi in questo senso, prese per buone da una parte della minoranza Pd) la riforma istituisce di fatto (ma senza dichiararlo, come almeno faceva la proposta di riforma Berlusconi del 2005) il premierato assoluto: maggioranza dell’unica camera titolare del voto di fiducia al partito che vince le elezioni, in caso di forte astensione anche con un misero 25 per cento del corpo elettorale; ulteriore incremento del potere legislativo del governo e del capo del governo. E non bastasse, elezione del presidente della repubblica in mano al partito di maggioranza a partire dalla settima votazione, in caso di assenza di una parte dell’opposizione. Detto in sintesi, il cuore della riforma sta in un rafforzamento dell’esecutivo e del premier a spese del parlamento e della rappresentanza, in un accentramento neostatalista a spese delle istituzioni territoriali, in una lesione del diritto di voto dei cittadini: il contrario di quello che una buona riforma dovrebbe fare.
Passo alle ragioni di metodo, per me perfino più decisive di quelle di merito. Questa riforma è nata male e cresciuta peggio. È nata da un’indebita avocazione a sé, da parte del governo, di un potere costituente che non è del governo, ed è stata approvata – a base di minacce di elezioni anticipate, sedute notturne, canguri e dimissionamento dei dissidenti – da una maggioranza parlamentare risicata e figlia, a sua volta, di una legge elettorale dichiarata illegittima dalla corte costituzionale. Dopodiché è stata brandita dal presidente del consiglio come una personale arma di autolegittimazione e di sfida degli “avversari” – “parrucconi”, gufi, “accozzaglie” e quant’altro – sulla base dell’unica benzina che muove la macchina renziana, cioè della parola d’ordine della rottamazione, applicata anche alla carta del 1948. Una riforma profondamente e programmaticamente divisiva del patto fondamentale che dovrebbe unire: è questa la contraddizione stridente che minaccia il cuore stesso del costituzionalismo, e ricorda il sovversivismo delle classi dirigenti di gramsciana memoria. A quanti e quante votano sì tappandosi il naso, per paura delle eventuali conseguenze destabilizzanti di una vittoria del no, vorrei sommessamente chiedere di non sottovalutare la ferita difficilmente cicatrizzabile che potrebbe invece conseguire da una vittoria del sì, ovvero dall’approvazione di una costituzione non di tutti ma di parte.
Non è l’unica contraddizione che accompagna questo referendum: ce n’è un’altra, più promettente. Presentata come una svolta radicale, e corredata dal lessico che da mesi ci bombarda incontrastato da tutti i media – innovazione vs conservazione; decisione vs consociazione; velocità vs paralisi; semplificazione vs complessità – la riforma Renzi-Boschi in realtà non innova ma conserva, e non apre ma chiude un ciclo. Sigilla – o ambisce a sigillare – il quarantennio dell’attacco neoliberale alle democrazie costituzionali novecentesche, racchiuso tra il rapporto della Trilateral per la “riduzione della complessità” democratica e l’attacco della JP Morgan contro le costituzioni antifasciste dei paesi dell’Europa meridionale. La storia del revisionismo costituzionale italiano, dalla “grande riforma” vagheggiata da Craxi a quella bocciata di Berlusconi a molte delle stesse ipotesi del centrosinistra, è accompagnata dalla stessa musica: più decisione e meno rappresentanza, più governabilità e meno diritti, più stabilità e meno conflitto. E malgrado le grandi riforme della costituzione siano state fin qui respinte, questi cambiamenti sono già entrati ampiamente, e purtroppo, nella nostra costituzione materiale (nonché in quella formale, come nel caso del pareggio di bilancio).
^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^
MARCO SIMONI Ph.D. Dottorato di Ricerca in Politica Economy,
consigliere di Palazzo Chigi per la politica economica;
è esperto di capitalismo comparato e relazioni industriali
SI
Le ragioni del Sì spiegate a un inglese
Tantissimi
anni fa un grande dirigente socialista ci disse che per essere sicuri di aver
scritto una cosa chiara e eliminare fronzoli inutili bisognava riuscire a
tradurla in inglese, per quanto maccheronico.
Qui ho fatto il contrario e
forse, a tradurre in italiano una cosa scritta in inglese pensando a lettori stranieri, si aggiunge un piccolo punto di vista alle tante
cose già scritte sul referendum.
Perché gli italiani stanno per votare a un
referendum sulla loro Costituzione?
Comincerò col rispondere a questa domanda,
e con un’avvertenza. Già Professore Associato alla London School of Economics,
sono al momento un consigliere economico del Primo Ministro italiano. Spero
comunque che la mia scrittura sia tanto trasparente e oggettiva quanto è capace
di essere: in fondo io ho accettato la mia attuale posizione perché sostengo le
politiche dell’attuale governo, e non il contrario.
La necessità di una riforma costituzionale
Negli ultimi tre anni circa, il governo Italiano ha perseguito un programma di
riforme molto ampio, da nuove leggi su lavoro e banche, ai diritti civili per
cittadini gay e lesbiche, fino a tagli di tasse e un aumento delle assunzioni
di insegnanti nelle scuole pubbliche. Mentre perseguiva il suo programma, il
governo si è anche adoperato per favorire una significativa riforma della
Costituzione Italiana.
Quest’ultima non è arrivata come un fulmine a ciel sereno. Fin dai primi anni
ottanta, ci sono stati quattro tentativi principali di modernizzare la
Costituzione italiana, e numerosi tentativi minori. I primi sono tutti finiti
in nulla, nonostante anni di discussioni, testi, voti in Parlamento e anche un
referendum. Alcuni tentativi minori andarono invece in porto, in particolare
una riforma approvata nel 2001 che aumentò i poteri dei governi regionali senza
allo stesso tempo attribuir loro maggiori responsabilità di imposizione
fiscale, così che negli scorsi 15 anni i governi locali hanno assunto di fatto
potere di veto su qualsiasi decisione di importanza nazionale che fosse
politicamente sensibile a livello locale – una situazione sfruttabile da
politici locali in cerca di affermazione.
In altre parole, le discussioni su come
meglio cambiare la sezione della costituzione che articola la configurazione
istituzionale dell’Italia sono un tema chiave degli ultimi quarant’anni di
democrazia in Italia. Inoltre, e di conseguenza, in Italia i dibattiti
costituzionali non sono stati confinati tra gli specialisti, ma sono discussi
da platee più ampie. Il governo in carica si è impegnato, fin dal primo voto di
fiducia, a contribuire a portare finalmente questa discussione a una
conclusione positiva.
La ragione principale questa centralità del dibattito costituzionale è il
particolare sistema parlamentare dell’Italia per il quale entrambe le camere
hanno esattamente gli stessi poteri, ma sono elette attraverso meccanismi
leggermente diversi. Questo sistema fu pensato nel dopoguerra per rafforzare i
controlli di minoranza e come un forte argine per prevenire una nuova
affermazione del fascismo.
Gli effetti del “bicameralismo perfetto”,
come viene chiamato, sono essenzialmente due. Primo, ha generato un’estrema
instabilità dei governi. L’Italia ha avuto 63 governi negli ultimi 70 anni.
Secondo, ha promosso un estremo correntismo interno alle camere, enfatizzando
piuttosto che mitigando, la frammentazione politica tipica dell’Italia. Ogni
legge deve essere approvata da entrambe le camere usando esattamente lo stesso
testo, e non esistono meccanismi di conciliazione a disposizione per risolvere
le differenze di opinione, e questo crea dunque il potenziale per una serie
infinita di votazioni.
Ciò ha ovviamente generato un forte
incentivo a creare piccoli gruppi d’interesse, anche episodici, con l’effetto
collaterale aggiuntivo di avere troppe leggi e una spesa pubblica fuori
controllo generata in buona parte da piccole misure elettoralistiche
stimolate dal Parlamento. Solamente alcune crisi acute, all’inizio degli anni
’90 e nel 2011-12 hanno consentito dei rimedi, abbastanza improvvisati e
impopolari, per rimettere sotto controllo o diminuire l’altissimo debito
pubblico che si era accumulato durante gli anni ’80, che è rimasto sostanzialmente
inalterato nei decenni seguenti. Infatti, anche dopo l’introduzione di leggi
elettorali quasi-maggioritarie nei primi anni ’90, la configurazione
istituzionale ha impedito che si verificasse la auspicata stabilità dei
governi.
Perché gli italiani dovrebbero approvare
la riforma proposta
La riforma in discussione, che è sospesa in attesa del referendum, ha passato
sei voti in Parlamento, ossia tre in ognuna delle camere. Il prodotto finale
affronta le due questioni principali che ho sottolineato sopra: il
bicameralismo e la distribuzione delle competenze tra le regioni e lo Stato. Se
la riforma sarà ratificata, il Senato sarà radicalmente ridotto a 100
rappresentanti, che comprenderanno membri delle assemblee regionali e sindaci,
e non rientrerà più in suo potere di votare la fiducia al governo, ma sarà
limitato a un piccolo numero di materie (materie costituzionali, sul metodo per
adottare leggi europee, e sulla organizzazione dei governi locali). Il Senato
inoltre potrà esprimere pubblicamente eventuale disaccordo su quanto deciso
dall’altra camera, e suggerire (ma non imporre) cambiamenti legislativi. In
breve, il Senato offrirà solo un controllo sul potere della maggioranza
espressa dalla Camera dei Deputati, mentre quest’ultima manterrà tutte le prerogative
legislative. Inoltre, la riforma chiarifica la distribuzione di poteri tra lo
Stato e le regioni, principalmente ricentralizzando competenze su un numero di
aree strategiche (ad esempio, energia, commercio, e altre).
Oltre ai due cambiamenti principali, la
riforma aggiunge alcuni bilanciamenti e controlli al potere della maggioranza e
fa un po’ di ordinaria manutenzione come ad esempio ponendo un limite definito
agli stipendi dei consiglieri regionali (che sono incredibilmente alti) e
abolendo il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), la cui
funzione è stata poco chiara alla maggior parte degli italiani per gli scorsi
settant’anni. Nel complesso, la riforma renderà le istituzioni più magre,
tagliando 215 senatori elettivi, completando l’eliminazione dei governi
provinciali (mentre si mantengono quelli regionali e comunali) e abolendo il
CNEL. Secondo me, gli effetti collaterali principali saranno probabilmente un
ridotto potere dei singoli gruppi di interesse nel processo legislativo, e una
ridotta influenza dei politici locali in cerca di affermazione.
Tenendo in considerazione l’ultimo
capoverso che ho scritto, non è una sorpresa che questa riforma sia stata
capace di attrarre una considerevole opposizione, anche tenendo in considerazione
che essa è sostenuta da un governo che negli ultimi anni ha riformato alcune
vacche sacre, solo per menzionare le più grasse: lavoro, banche, diritti di gay
e lesbiche.
Ad ogni modo, vorrei prendere sul serio quello che considero essere
l’argomento principale contro la riforma (anche se è uno dei meno usati) e
offrire una diversa argomentazione per spiegare perché invece sarebbe uno
sviluppo positivo per l’Italia. Infine, concluderò descrivendo i due campi
opposti a favore e contro la riforma.
È probabile che la riforma, se approvata,
renderà i governi più stabili e più efficaci. I governi potranno essere
sfiduciati ed essere sostituiti prima dello scadere della legislatura, come
avviene nella maggior parte dei sistemi parlamentari, ma questo sarà meno probabile
che accada rispetto a oggi. Si potrebbe anche sostenere che, anche se il potere
dei ministri e del primo ministro è lasciato invariato, la riforma
indirettamente rafforzi i governi. Alcuni italiani considerano quest’ultima
come una cosa indesiderabile. Alcuni suggeriscono che abbiamo un maggior, non
minore, bisogno di contro-poteri nei confronti dei governi, in tempi come
questi nei quali i populisti tendono a dominare il dibattito pubblico. Nel suo
argomento contro la riforma, Valentino Larcinese esplicitamente
lamenta il fatto che “noi abbiamo più che mai bisogno di quelle restrizioni al
potere esecutivo” come per esempio il bicameralismo perfetto, come un freno al
potere della maggioranza.
Questa tesi è basata su una concezione
errata dei sistemi parlamentari – ad esempio nel Regno Unito, Germania o
Spagna, il governo è sempre un’espressione della maggioranza parlamentare, e il
potere dei capi partito di far eleggere in parlamento deputati fedeli è ovunque
significativo, sia in sistemi maggioritari che proporzionali. Ma lasciamo
perdere le tecnicalità e concentriamoci invece sull’idea, che è centrale a
questa tesi in Italia, che il parlamento debba agire come un contropotere
rispetto al governo, rendendo le sue azioni più accorte e dunque migliori. Al
contrario, io credo che vi sia una tesi più convincente da sostenere secondo la
quale è esattamente la debolezza dei governi, in Italia e altrove – la loro
incapacità di rispondere alle domande dei cittadini in una maniera efficiente,
efficace e trasparente – che ha dato carburante alla crescita dei populisti e
della politica della “post-verità”.
In altre parole, io credo che alla fonte
della attuale mancanza di fiducia nelle istituzioni pubbliche che sta montando
nelle democrazie occidentali, vi sia l’incapacità dei governi di affrontare le
ragioni di disagio pubblico e offrire soluzioni a temi che sono profondamente
sentiti. Questa incapacità di offrire risposte – ad esempio la lentezza della
UE nell’affrontare la crisi economica o la crisi dei migranti, o l’incapacità
dei governi italiani di perseguire qualsiasi significativo cambiamento nei
quindici anni che hanno preceduto il governo attuale – ha anche radici di tipo
istituzionale. Questo sicuramente riguarda l’Italia, dove piccoli gruppi
possono bloccare legislazioni per anni, ma probabilmente riguarda anche altri
paesi. Uno può avere la visione politica più trasformativa e illuminata che
vuole, ma il fallimento delle istituzioni di tradurla in fatti finirà per
nutrire la sfiducia nella democrazia. Secondo me, l’argomento principale a
favore della riforma, e dunque per votare Sì, si trova nella importanza del
legame tra una democrazia efficace, il rafforzamento del principio di
responsabilità, e la fiducia nel sistema politico.
Le due campagne
Per concludere, vale la pena descrivere brevemente i due campi che al momento
sono impegnati nel dibattito in Italia. Il governo e la sua maggioranza
parlamentare sono a favore della riforma. Questo comprende il Partito
Democratico e il suo leader Matteo Renzi, e due partiti centristi minori.
Alcune figure politiche molto stimate, come Emma Bonino, ex Commissario Europeo
e attivista per i diritti civili, o Walter Veltroni, ex sindaco di Roma, hanno
appoggiato la riforma. La principale federazione degli industriali, la
principale associazione degli agricoltori e la seconda più grande
confederazione sindacale, sono anche a favore. Un ampio numero di figure
pubbliche, per esempio il premio Oscar Roberto Benigni o il CEO di
Fiat-Chrysler Sergio Marchionne, si è anche espresso pubblicamente a favore
della riforma.
In prima linea contro la riforma sono un
piccolo numero di coloro i quali hanno votato a favore della riforma nel loro
ruolo di membri del parlamento, ma hanno ora cambiato idea e deciso di votare
No al referendum. Questa lista comprende l’ex primo ministro Silvio Berlusconi
e il suo partito di centro-destra, che ha deciso di cambiare idea sulla riforma
perché l’attuale Presidente della Repubblica (che è eletto indirettamente dal
Parlamento) non era la sua prima scelta. Anche Mario Monti, l’ex Primo Ministro
tecnocratico, nonché senatore a vita, ha deciso di votare No nonostante abbia
precedentemente votato Si al Senato, perché considera che la più recente legge
di bilancio non è abbastanza austera. Terzo, una piccola minoranza del PD,
compreso l’ex leader del PD Pierluigi Bersani, voterà No perché non è convinta
della combinazione tra la riforma costituzionale e la legge elettorale per
paura che possa ulteriormente dare potere alla maggioranza di turno. Val la
pena notare che la legge elettorale non è parte della riforma, che era già
stata approvata quando questa fazione del PD ha votato “Si” in parlamento e che
è probabile che essa venga comunque cambiata dopo il referendum. Queste
motivazioni da me riassunte sembrano in effetti poco consequenziali, e lontane
dal contenuto del referendum, ma desidero sottolineare che si tratta di un riassunto
di motivazioni espresse, non una mia interpretazione.
In opposizione alla riforma, fin dal
principio, c’è il principale partito populista di opposizione, il Movimento
Cinque Stelle, che ha gioito alla vittoria di Trump assieme al partito anti-europeista della
Lega Nord (anch’essa decisamente opposta alla riforma costituzionale). Inoltre,
sono contro la riforma: la più grande confederazione sindacale, CGIL, orientata
a sinistra; il piccolo partito della Sinistra Italiana e tutti i movimentini
minoritari di estrema destra e estrema sinistra. Una parte di questa
opposizione è motivata dalla disapprovazione nei confronti del Primo Ministro –
da un punto di vista di sinistra, o di destra, a seconda – altre motivazioni
sono meno coerenti. Infine, anche una maggioranza relativa della vecchia
leadership politica degli anni ’80, ’90 e dei primi anni 2000 è contro la
riforma.
Un buon riassunto delle critiche di questo
gruppo di ex politici si può trovare in un postpubblicato
da EUROPP, uno degli autori del quale è il professor Emerito Gianfranco
Pasquino dell’Università di Bologna, che è stato membro del parlamento Italiano
tre volte negli anni ’80 e ’90. L’articolo conclude sostenendo che una volta
che questa riforma sarà fallita (dopo tre anni di discussioni e deliberazioni,
che sono seguiti a 40 anni di tentativi falliti di riformare la costituzione)
si aprirà un nuovo spazio per riforme che siano meglio congegnate e più utili.
Secondo me, gli italiani non dovrebbero
perdere questa opportunità per una vera riforma, che affronta alcune importanti
debolezze istituzionali dell’Italia, piuttosto che affidarsi a un atto di fede
che qualcosa di molto meglio arriverà, un giorno, per magia.