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giovedì 14 novembre 2024

Riflettiamo sulla mafia di ieri e di oggi

L’inchiesta in Sicilia del 1876,

Leopoldo Franchetti (1) sostiene che la classe dirigente siciliana è per intero l’erede del trascorso sistema feudale, e che perciò essa risultava essere abituata a considerare le istituzioni strumento di sopraffazione, incapace di innalzarsi fino alla concezione moderna della legge impersonale e uguale per tutti. Se i feudatari possedevano questa visione comportamentale prettamente mafiosa era ovvio che le classi subalterne ricorressero alla violenza quale percorso di affermazione.

  Franchetti aggiungeva ancora,  c’è anche una mafia popolare, dei contadini o degli operai delle zolfare, e ci sono anche facinorosi delle classi medie, i quali fanno della sopraffazione un mezzo di ascesa sociale.

 In buona sostanza per Franchetti il comportamento mafioso rappresentava la “maniera di essere” della società siciliana, a tutti i livelli, in un impasto perverso nel quale gli elementi tradizionali prevalevano su quelli moderni e li deformavano.

 Il Sud era effettivamente arretrato ed esprimeva uno strisciante razzismo ed anche una non perfetta acquisizione dei valori liberali. Su questa presunta  “barbarie” della società meridionale le autorità di Polizia non mancarono, da parte loro, di adottare provvedimenti più che restrittivi della libertà personale trascurando di passare attraverso la magistratura, trascurando di formulare le precise accuse, approfittando, peraltro della diffusa ignoranza fra le masse (che tanto non avevano diritto di voto).

(Segue)

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(1)(Livorno, 31 maggio 1847 – Roma, 4 novembre 1917) è stato un intellettuale meridionalista e politico italiano, prima deputato e poi senatore del Regno d’Italia, noto per la sua inchiesta sulla Sicilia pubblicata nel  1877 con cui analizzò per la prima volta il fenomeno mafioso.

Fra i suoi giudizi ci è dato leggere: [...] La massa della popolazione ammette, riconosce e giustifica l’esistenza di quelle forze che altrove sarebbero giudicate illegittime.

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