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sabato 25 dicembre 2021

Un personaggio alla volta

 Col Natale, nel mondo cristiano, ha inizio una nuova era, un nuovo modo di pensare, vivere e persino morire.

 Ci piace riportare il pensiero di un cristiano "anomalo" vissuto in Sicilia, pur essendo triestino, che da anomalo si comportò nei confronti della Chiesa degli anni cinquanta/sessanta retta allora dal Cardinale conservatore Ruffini e da anomalo pure nei confronti della Sinistra di allora Pci/Psi. Ci riferiamo al sociologo Danilo Dolci. Di lui -nella giornata di Natale- ci piace cogliere i suoi aspetti "cristiani", mai valutati nè apprezzati dai cattolici alla Ruffini e nemmeno dai suoi successori meno conservatori. Attingeremo senso e testimonianze da un testo che ci è capitato fra le mani di  Giuseppe Casarrubea, storico e saggista di Partinico che col sociologo ha avuto intensi rapporti di amicizia.

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Scrive Casarrubea: 

 

«Perché il sociologo non era all' interno della Chiesa cattolica, perché la sua analisi dell'Isola non collimava con quella della curia e perché si faceva promotore di un nuovo movimento che si poneva come alternativa sia al comunismo che alla Democrazia cristiana». Su Dolci si è detto di tutto. Qual è la sua opinione di studioso? «Era sicuramente un personaggio complesso, per molti versi originale. Era arrivato negli anni Cinquanta tutto orientato nella ricerca del cambiamento senza condividere il principio della lotta di classe, sostenuta allora dal Pci e dal Psi. Venne per percorre la strada del rinnovamento attraverso la non violenza ponendosi come alternativa ai movimenti marxisti. Questa sua collocazione, diciamo non comunista, gli attirò l'attenzione e il riconoscimento dei Paesi europei, soprattutto del Nord, che finanziarono generosamente la sua attività».

... Quando Cristo entra a Gerusalemme, i farisei lo invitano a far tacere la folla che lo acclama, ma egli ku mette a tacere con una espressione che rappresenta un imperativo della coscienza, raramente accolto: "Se essi tacessero griderebbero le pietre". Certamente si tratta di un paradosso perchè le pietre non possono gridare. Ma detta da Cristo quell'affermazione ha un senso che non possiamo ridurre al solo paradosso. Il paradosso, infatti, è sterile in quanto inapplicabile. Dovremmo dunque pensare ad una lettura che dia senso e prospettiva a quella scena. In questo senso non pare ci possano essere dubbi nell'interpretarla nel suo significato più realistico, che è quello della testimonianza, dell'indicazione di uno stile di vita e di comportamento. E' automatico il ricorso alla scena del Pilato che "si lava le mani". Si può vivere in "silenzio", "lavandosi le mani", standoner a guardare,diventando soggetti più o meno consapevoli del processo che conduce al sacrificio di qualcuno, a rovesciare l'ottica del giudizio, affidandolo allo spontaneismo istintivo delle masse disorientate o che non sanno perchè indotte a scegliere sulla base di un potere non esercitato nella direzione della giustizia, o di un potere che si nega a se stesso.

Rimanendo nell'ambito del Nuovo Testamento Dolci richiama alla mente un'altra scena, quella che si svolge attorno ad un pozzo della Samaria. Gesù vi arriva dopo un faticoso viaggio. Ha sete e chiede alla samaritana, che si era avvicinata, dell'acqua da bere. Come fa a dargli dell'acqua se il pozzo è profondo e per giunta non c'è la corda che possa tirare su neanche un secchio? La donna sarà rimasta incredula anche dopo la risposta dello strano pellegrino: "Se tu sapessi il dono di Dio e chi è che ti dice dàmmi da bere, saresti tu a  chiedergli dell'acqua ed egli ti darebbe un'acqua di vita eterna". Anche qui ricorree il paradosso, ma in mezzo ad un sentire più profondo, l'inapplicabilità del paradosso rinvia alla necessità di dare senso e, direi, materialità alla scena. Non c'è dubbio che se la donna avesse voluto dare da bere all'assetato, piuttosto che interrogarlo si sarebbe attivata per dare una risposta attiva al suo bisogno. Forse entrò in crisi, forse prevalse il dato della razionalità. Certamente non andò oltre la constatazione obiettiva della circostanza. Ma se avesse creduto e voluto, la scena si sarebbe animata e il contesto si sarebbe trasformato. Non credo che si possa legittimamente separare questa considerazione legata all'azione dell'uomo, dal valore trascedentale, che è anche il valore intimo, personalissimo  del "sentire", dell'essere in una qualche sintonia, lungo la filigrana della fede. Da questo punto di vista, e cioè,  dell'essere testimone attivo, pere gli ultimi, con gli ultimi e per soddisfare il loro grido di assetati e di affamati, nella Sicilia dei primi anni '50, Dolci è pietra che grida,  testimone del suo tempo, Fu infatti l'intellettuale italiano più perseguitato del secondo '900. Subì una serie interminabile di accuse, denunce e condanne ed ebbe davanti a sè  un potere che gli fu sempre ostile. Per fortuna ebbe dalla sua parte i massimi rappresentanti della cultura italiana del suo tempo, che gli furono accanto, anche nei momenti più difficili. Si sollevò uno scandalo nazionale quando nel 1956 fu arrestato e portato in galera, insieme al sindacalista Salvatore Termini, per avere messo in opera una formula inconcepibile di sciopero: "lo sciopero alla rovescia". Gli operai avevano insegnato che si scioperava per i diritti e migliori condizioni salariali, ma in un paese come Partinico dove il lavoro mancava e si moriva di fame, si poteva scioperare solo mettendosi a lavorare, senza padroni e senza paga, in attesa della Provvidenza. Perciò Dolci aveva pensato di far lavorare tutti mettendosi con pala e pico a riattivare una vecchia trazzera dove alle prime piogge i contadini che andavano al lavoro con i loro carretti, dovevano fermarsi per le numerose pozzanghere, rischiando quotidianamente di non raggiungere le campagne, C'erano un migliaio di persone con lui. Quando puntualmente arrivò la polizia  lo dovettero prendere di peso e caricarlo su una camionetta, dopo averlo ammanettato. E in manette si presenterà mell'aula di tribunale. A difenderlo ci saranno uomini come Piero Calamandrei, e a testimoniare per lui intellettuali come Elio Vittorini e Carlo Levi. Quest'ultimo dirà ai giudici:

Ho appreso dai giornali che Danilo Dolci sarebbe accusato di avere rivolto a un agente della forza pubblica una frase ingiuriosa che suonerebbe all'incirca: "Chi ci impedisce di lavorare è un assassino". Ora, io credo,  pure senza essere stato presente all'episodio, di potere escludere in modo assoluto, e di poterlo provare con documenti, che il Dolci abbia  pronunciato una simile frase rivolgendola al commissario in modo ingiurioso; e questo non  soltanto per le assicurazioni e le affermazioni che ho fatto prima. Una frase che suona analoga ma che ha tutt'altro significato, dà inizio alla prima pagina del suo libro 'Banditi a Partinico', ed è, direi, quasi il filo conduttore di tutto il suo pensiero, l'idea fondamentale attorno a cui si organizza la sua visione del mondo  e dei problemi sociali e umani. Dice questa frase, che cito qui a memoria: 'noi viviamo in un mondo di condannati a morte da noi', Se fino a quando vivono degli uomini condannati ad essere tali, a vivere in una condizione che è precedente alla stessa esistenza, fino a quando esiste òìesclusione e l'alienazione, noi ne siamo tutti responsabili, noi siasmo tutti degli assassini. Tutti, nessuno escluso. Io sono un assassino, e anche Lei, signor Presidente, è un assassino, e anche Danilo Dolci è un assassino. Questo è il senso della frase che ritorna e domina ogni pagina di quel libro. Come Ella vede, è l'opposto di quanto si pretende che egli abbia detto al commissario. Basta aprire il libro alla prima pagina, e non occorre saper leggere per capire il testo ed il senso della frase pronunciata sulla trazzera, che, anzicchè ingiuriosa, è certo delle più alte e nobili che possa pronunciarew un uomo.

Che i suoi maestri fossero Cristo e Gandhi era dimostrato dalla sua storia e dal suo metodo: la storia di un uomo che si era messo a vivere con gli ultimi per migliorarne le condizioni e il metodo dell'azione non violenta per affrontarle. Gli era stato amico e consigliere Aldo Capitini, l'inverntore della marcia per la pace e la fratellanza tra i popoli da Perugia a Assisi. Questi il 12 gennaio del '58 gli scriveva da Perugia: "Stai attento a non fare la minima concessione a parti politiche. Riafferma che sei indipendente", o ancora: "La tua opera è di condurre i rivoluzionari,  nell'evoluzione attuale della opposizione nel mondo, a riconoscere il valore del metodo non violento". Capitini, come Dolci, pensavano a una rivoluzione nuova, dopo quella che aveva segnato la storia del primo Novecento nel mondo con l'instaurazione dello Stato sovietico. E Dolci era un personaggio tutt'altro che secondario con cui discutere. Giusto i sovietici gli avevano concesso il premio Lenin per la pace nel 1957, e Capitini, come un fratello premuroso, temeva che il suo amico potesse essere catturato dai comunisti e in tal modo compromettere  la missione più generale che egli doveva darsi nei confronti degli uomini, a prescindere dalle apparenze politiche.  In realtà le attenzioni dei due non erano rivolte a dati empirici, ma alla costruzione di un mondo nuovo a partire dall'idea del "villagio gandhiano", della comunità/alveare, dietro la quale si nascondeva una "riserva" non solo sociale, ma anche religiosa.

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