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mercoledì 15 dicembre 2010

Con l'arrivo dei Normanni in Sicilia gli antichi "casali" dell'interno dell'isola furono abbandonati: fra essi pure quello di Contessa

LE CENTO CITTÀ DELL'ISOLA SORTE TRA IL '500 E IL '700
Repubblica — 11 dicembre 2010 pagina 13 sezione: PALERMO

Con l'arrivo dei Normanni e l'affermarsi del feudalesimo, gli abitanti della Sicilia vengono raggruppati in grossi borghi rurali e molti piccoli agglomerati decadono, sino a sparire. Poi, come avviene in altre parti d'Europa, anche la Sicilia vive una lunga «colonizzazione interna»: una fase particolarmente vivace fra la fine del Cinquecento e l'inizio del Settecento, quando vengono fondati un centinaio di nuovi centri abitati distribuiti soprattutto nell'entroterra palermitano e nell'Agrigentino. L'aspetto del territorio e della società ne risultano trasformati. Masse di individui si spostano da un luogo all'altro, ingenti capitali vengono spesi per edificare le nuove città. Abati, principi e baroni assoldano ingegneri e architetti di grido, che alla testa di uno stuolo di manovali e muratori tracciano strade, edificano chiese, palazzi padronali che cominciano a stagliarsi sovrastando le modeste abitazioni. Le nuove città vengono progettate seguendo rigorosi modelli urbanistici: strade rettilinee, piazze rettangolari, sviluppo di ogni possibile applicazione delle figure geometriche.
Ad Avola e a Grammichele - due luoghi-simbolo delle città nuove di Sicilia - ogni angolo è parte di una forma simmetrica, e la città si presenta come una colossale costruzione architettonica: ricca di dettagli, ma unitaria. Il modo in cui una popolazione è concentrata o dispersa in un territorio riflette l'organizzazione della società, ma ancora non è stata definita un'analisi storica del sistema urbano isolano. E dall'esigenza di mettere a punto una comune metodologia di studio, da applicare alle diverse aree europee, deriva il convegno internazionale Città nuove fondate in Italia e in Europa dal Medioevo al Novecento che - organizzato dal Dipartimento Città e territorio dell'Università di Palermo, con la cura scientifica di Aldo Casamento - per tre giorni ha riunito allo Steri studiosi italiani e di sei diversi Paesi europei (iniziato giovedì, il convegno si conclude oggi). La Sicilia sembra la sede naturale per gli studi sulle città di nuova fondazione, considerato che quasi la metà dei suoi centri abitati è frutto di un'attività pianificata ancora operante negli anni Trenta del Novecento: quando il fascismo prova a colonizzare il latifondo, e fonda paesi rurali - come Borgo Schirò, vicino Corleone - destinati a essere abbandonati. La messa a coltura del latifondo è l'esigenza più immedata e visibile anche nel Seicento, quando i baroni richiedono al Tribunale del Real Patrimonio la licentia populandi: un gesto importante, carico di significati. In Sicilia il prestigio e il potere derivano dal possesso della terra, la licentia assolve due funzioni all'apparenza contraddittorie: permette di allargare i ranghi della nobiltà, e nel contempo di mantenere intatta l'egemonia baronale.
Ai mercanti stranieri o ai banchieri, che da poco hanno comprato un titolo nobiliare da una corona spagnola sempre a caccia di soldi, viene offerta la possibilità di completare con nuove acquisizioni il loro status nobiliare. Il barone compra un "pacchetto" che lo rende Signore di uno Stato feudale: come un piccolo re, avrà il diritto ad amministrare la giustizia civile e penale nel nuovo borgo. E una città con almeno ottanta famiglie gli darà il diritto di sedere in parlamento, o di avere un voto aggiuntivo per ogni insediamento urbano. Dal punto di vista economico le nuove città possono anche non essere un buon investimento, ma offrono sempre al loro fondatore la garanzia di una sicura scalata sociale.
Ogni nuova fondazione ha bisogno di abitanti, che - in una Sicilia dove la manodopera scarseggia - vengono attirati con vistosi incentivi: il più importante è la cancellazione dei debiti pregressi, associato alla possibilità di usufruire di alcuni vantaggi. In genere i coloni sottoscrivono i «capitoli di fondazione», veri patti agrari che fissano diritti e doveri: devono versare un censo annuo, sono obbligati a lavorare le terre del barone. Ma in cambio avranno un lotto edificabile e qualche volta un piccolo terreno, dove impiantare un orto. Nelle colonie greco-albanesi, tutte in provincia di Palermo - da Piana degli Albanesi a Contessa Entellina, da Palazzo Adriano a Mezzojuso - gli abitanti si impegnano a costruirsi una casa in muratura entro tre anni; ma la varietà delle situazioni suggerisce proposte diverse, che riflettono i diversi rapporti di forza: i coloni vengono sempre attirati a spese di nuclei già consolidati, e il barone concede quello che non può negare.
Le nuove città presentano una grande varietà di soluzioni urbane, derivanti da un territorio poco uniforme. Il disegno è spesso imperniato su una scacchiera disegnata attorno alla piazza centrale, ma ad Avola, Trabia, Altavillao Aliminusa le soluzioni presentano un ventaglio di sfumature che ancora raccontano la bravura di tecnici e maestranze locali. Solo raramente si ha notizia di interventi esterni, come avviene a Paceco: dove, nel 1607, Placido Fardella chiama un architetto spagnolo a disegnare l'impianto urbano. Spesso troviamo la ripetizione di motivi palermitani, come la "croce di strade": ci si richiama al modello dei Quattro Canti che consacra il centro di Palermo, ma la piazza centrale si allarga e rimodula. Sino a diventare la piazza ottagona di Ramacca, o la piazza radiale di Campofelice di Roccella. Siamo di fronte a un fenomeno storico di lunga durata, ancora in buona parte da studiare. Magari tenendo presente un'intuizione di Leonardo Benevolo, uno dei padri nobili dell'urbanistica, che notava come le fondazioni siciliane largamente risentano delle esperienze, della normativa e degli strumenti con cui si era popolato il Nuovo mondo. Del resto, per i gesuiti tutto il Meridione coincideva con «le nostre Indie».
- AMELIA CRISANTINO

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