Essere prete in Sicilia, a Contessa Entellina, oggi, all’inizio del terzo millennio, è diverso da come il sacerdozio era svolto cinquant’anni fa da Papas Janni Di Maggio e/o da Padre Antonino Lala.
La diversità in parte è fisiologica perché negli ultimi cinquant’anni la società è profondamente cambiata, in parte è patologica in quanto abbiamo la sensazione che taluni uomini di Chiesa stentano a cogliere il nucleo della loro missione.
Appena pochi giorni fa il papa teologo ha chiuso l’anno sacerdotale, fra i cui propositi vi era stato anche quello di interrogarsi sull’identità del prete.
Cinquant’anni fa la Chiesa, la Chiesa del dopo Concilio Vaticano II, si apriva al mondo, ai non credenti, ai diversamente credenti, cercava il dialogo ed il confronto a trecentosessanta gradi. Oggi, in linea del tutto teorica, si sostiene che si è ancora su quella linea, ma bisognerebbe essere ciechi per non cogliere la grave metamorfosi avvenuta nella Chiesa. Si torna a guardare indietro, a risvegliare mai sopite supremazie, a operare distinzioni fra uomini ossequiosi (anche se viscidi) e uomini dubbiosi (anche se onesti). Nella Chiesa è ormai venuto meno ogni slancio, ogni apertura, ogni passione evangelica. L’Ecumenismo è stato condotto in un vicolo cieco.
Ci sono, è vero, tanti movimenti di volontariato, tanti uomini di chiesa, tanti missionari che in Africa, in Sud America, in ogni angolo del mondo, donano la loro vita a beneficio di chi stenta a trovare la via della “vita”, a beneficio degli “ultimi”, ma la Chiesa locale, quella siciliana, che fa ?
In tanti, è vero anche questo, dal prete si attendono che sia un buon predicatore, un catechista, un assistente sociale, uno psicologo, un confessore, un amministratore, un organizzatore, un padre spirituale. C’è, sicuramente, l’attesa, l’intento, di sovraesporre il ruolo del prete. Però, bisognerebbe essere ciechi per non accorgersi che ci sono preti contenti della propria missione e preti stanchi, frustrati … che faticano a trovare la fonte, il nucleo del proprio ‘essere’ prete.
Papas Jianni e Padre Lala sapevano di essere parte di una grande famiglia, la Chiesa locale e universale; erano diversi per temperamento e per visione delle cose del mondo, ma si riconoscevano nella gerarchia e nella missione che era unica per entrambi. Esisteva allora, se così si può dire, una percepibile competizione campanilistica, ma a nessuno dei due veniva in mente di allentare platealmente i vincoli ecclesiastici e/o, peggio ancora, di creare sentimenti di ‘scandalo’ fra i fedeli. Esisteva allora, come probabilmente da sempre, la problematica greci-latini, ma era da entrambi catalogata come problematica che aveva trovato una disciplina, una regolamentazione, nei provvedimenti della gerarchia, e secondo la missione sacerdotale che entrambi avevano ricevuto, andava rispettata (ci fosse in loro maggiore o minore convinzione sulla soluzione fissata). Lontanissimo era da loro, uomini di cultura, l’idea dell’insubordinazione alla gerarchia, l'idea che le possibili divergenze potessero venire risolte con la demagogica forma della platealità, che per loro costituiva "scandalo".
(Continua)
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