Interrogazioni sul Cristianesimo
di Gianni Vattimo (Filosofo)
Pietrangelo Sequeri(Teologo, scrittore, musicista)
Giovanni Ruggeri (Giornalista)
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Gianni Vattimo, Filosofo
Fino a qualche tempo fa, mi tenevo a una certa distanza dalla Chiesa, non frequentavo. Ricordo, però, che quando ero un cattolico molto impegnato, per lungo tempo ho favorito anch'io la traduzione in italiano delle preghiere, della Messa, e via dicendo. Negli ultimi tempi, ho riaperto e ritrovato - nelle forme che ho raccontato un pò anche in Credere di credere - il mio rapporto col Cristianesimo, ma devo dire che l'ho ritrovato accettando piuttosto la fede delle vecchiette che la fede dei teologi. E ciò non tanto nel senso più tradizionalmente spirituale del "Se non diventerete come bambini ...", ma riflettendo sul fatto che il vero linguaggio del cristianesimo, ormai, era quello della tradizione vissuta e necessariamente consumata, avviluppata con la storicità, piuttosto che il linguaggio scientifico, o comunque rigoroso, della teologia.
Questo mi sembra molto importante per la mia esperienza. Ad esempio, se parlo di Dio, non mi sforzo di parlarne in termini che non siano profondamente legati alla mia situazione storica, essendo consapevole del fatto che in fondo non c'è una lingua autentica per farlo. Questa ricerca di una pretesa "lingua autentica" per la teologia e per il discorso su Dio mi mette infatti sempre nella condizione di pensare a Dio come un oggetto definitivo, collocato da qualche parte, che io posso nominare più o meno adeguatamente. In tal senso, forse persino il comandamento di "non nominare Dio" poteva significare questo; certo, il comandamento dice che non lo si deve nominare "invano" (e non so bene come suoni il testo ebraico a proposito di ciò che viene abitualmente reso con l'avverbio "invano"), ma forse non lo si deve nominare proprio. Noi abbiamo pensato che questo comandamento esprimesse una forma di rispetto per un'entità, mentre forse Dio non è nominabile in maniera appropriata , non c'è un nome appropriato per Lui.
Ciò mi induce a ritenere che non dobbiamo collocare le nostre definizioni storiche, i nostri modi storici di vederlo, su un piano necessariamente inferiore rispetto ad un altro preteso superiore (e con cui dovrebbe poi misurarsi) , bensì cercare la logica di queste nominazioni storiche, l'eventuale filo conduttore provvidenziale nelle trasformazioni del nome di Dio -anche nel suo degradarsi (lo dico facendo riferimento a un'idea di incarnazione come accettazione di una decadenza, di una diminuzione).
Questo mio modo di vedere è legato a una riflessione sul linguaggio svolta dalla filosofia contemporanea, o da una parte di essa a me familiare, che da un lato riconosce al linguaggio una portata ontologica, ma dall'altro, proprio nel linguaggio in quanto storico, in quanto diveniente storicamente, riconosce lo svelarsi di qualcosa dell'essere , non soltanto delle difficoltà dei parlanti. Non c'è un mondo "là" , che noi non sapremmo bene come chiamare, piuttosto l'andamento del nostro linguaggio è storia del mondo, e forse anche storia di Dio, in qualche senso.
Se quindi dovessi definire quella che mi sembra la situazione attuale del parlare di Dio, mi sembra difficile ormai poter nominare Dio come identico all'essere, perché identificarlo come un ente determinato, sia pure il supremo. Da questa identificazione, peraltro, deriverebbero come a cascata tutte le difficoltà del rapporto di ciascuno con Dio, compresa la predestinazione: se infatti Dio si identifica con l'essere, tutto è già prescritto, noi non sappiamo più che cos'è la storia, neanche la storia della salvezza, la storia della nostra libertà, e così via.
Mi sembra fondamentale per la mia esperienza religiosa -o comunque filosofica della religione- accettare che il nome di Dio sia multivoco, vago, sfuggente, in qualche modo positivamente legato anche alla quotidianità più inautentica , perché non c'è altro dominio più vero, più oggettivo, più rigoroso dentro cui potrei nominarlo. La storia della rivelazione, la storia della Sacra Scrittura è anch'essa una storia di testi, considerati sacri e difesi nella loro letteralità, ma che d'altra parte risultano profondamente mescolati e intrecciati con le interpretazioni che di essi sono stati date; soprattutto, essi stessi erano già in origine interpretazione di uno scrittore, di una comunità che metteva per iscritto la propria fede del momento. E' un problema estremamente importante questo, perché ha da fare con tutta la questione di che cosa significhi la storicità della rivelazione divina, la storicità della salvezza , e che cosa significhi eventualmente anche l'autorità della Chiesa -perché l'autorità della Chiesa ha sempre preteso, o voluto positivamente fissare un'espressione autentica, canonizzata, della rivelazione, in un modo peraltro stranamente , basicamente contraddittorio. Infatti, una volta che si stabilisce che gli scritti biblici non sono scritti direttamente da Dio, ma sono la fissazione della fede condivisa dalla comunità dell'epoca, non si sa poi bene dove la rivelazione si fermi: ad esempio, perché uno scritto del IV secolo non è più canonico, mentre lo sarebbe uno della fine del I ? Probabilmente i teologi hanno una soluzione anche a questa domanda ; ma, in generale, poiché i libri sacri sono stati scritti direttamente da Dio , mi domando perché mai gli scrittori ispirati abbiano cessato ad un certo punto di essere tali, e perché la comunità ecclesiale non possa presentarsi come rivelazione in corso, o comunque come forma di ascolto autentico di quella parola.
Per riprendere il punto da cui partiamo nella nostra discussione, direi quindi che "Dio", il nome di Dio mi sembra positivamente vago e che ogni epoca lo nomina interpretativamente e non descrittivamente. Non c'è, pertanto, un suo nome autentico : l'unica autenticità del nome di Dio è la storia delle nominazioni prodottesi in una certa tradizione (si tratterà poi di vedere perchè nella nostra tradizione piuttosto che in altre). L'autenticità del senso del nome di Dio è la storia, il filo conduttore (se si riesce ad individuarlo) della storia delle sue false nominazioni, dei suoi falsi nomi, del suo nominarlo sempre inadeguatamente. E questa consapevolezza -ribadisco- mi sembra oggi particolarmente presente in certe posizioni filosofiche che ci hanno aiutato a considerare il rapporto tra essere e linguaggio come un rapporto costitutivo, non già però dal punto di vista di un essere pensato in termini oggettivi, definitivi, dati una volta per tutti.
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