Il
dovere della memoria, lo ricordava due giorni fà il titolo di apertura di un quotidiano.
Ai nostri giorni la Chiesa
cattolica e il popolo ebraico sperimentano un avvicinamento e una comprensione
impensabili appena qualche decennio fa.
Il 27 gennaio, nei paesi Occidentali si
ricorda lo sterminio sistematico che il Nazismo (ed anche il Fascismo) sin dagli anni trenta
del Novecento ha intrapreso ai danni del popolo ebraico.
Il riepilogo di quella inaudita
violenza, a fine guerra, è stato condensato nell’avvenuto assassinio di sei milioni di
persone.
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Il Blog, volendo restare fedele
alla sua missione di aderenza alla storia locale, vuole ricordare un
avvenimento non dissimile da quello nazista di persecuzione ai danni del popolo
ebraico: l’espulsione degli Ebrei dalla Sicilia nel 1492, proprio nel periodo
in cui nell’isola si stabilizzavano le
comunità arbëreshë.
Sul finire del Quattrocento la
Sicilia è un regno, una articolazione, uno dei tanti domini aragonesi in Europa.
Nel 1492 in Sicilia, come nel resto dei domini aragonesi si festeggia la presa
di Granada, l’ultimo caposaldo mussulmano in terra iberica. A Palermo, a
Catania e nei grossi centri si svolgono processioni, le strade sono addobbate,
e musiche e canti si elevano in segno di giubilo per la liberazione di Granata.
In questo contesto festivo arriva dalla
Spagna l’ordine di procedere all’espulsione degli ebrei che non accetteranno di
convertirsi al cattolicesimo.
La comunità ebraica era insediata
in Sicilia da oltre mille anni e faceva parte dell’assetto sociale ed economico
dell’isola. Certo la convivenza con la comunità cristiana avveniva su basi di
minorità (gli ebrei erano tenuti a pagare la tassa detta gizia, avevano l’obbligo di portare come contrassegno la ‘rotella’, nei loro confronti vigeva l’inibizione
ad esercitare certe professioni nei
confronti dei cristiani), ma essi erano conterranei al pari dei cristiani. Essi
erano attivi nel commercio, nell’artigianato, nella finanza, nella professione
medica e godeva di una sorta di
autogoverno comunitario.
Certo, quelli erano tempi di
fanatismo cattolico e spesso essi subivano gli effetti dell’intolleranza indotta
periodicamente dalle predicazioni quaresimali e pasquali in quel modello di
società ancora sostanzialmente violenta. Mai però era esistita una persecuzione
vera e propria promossa dalle Autorità.
Generalmente gli ebrei nelle città
abitavano in quartieri tutti loro, le giudecche, con uno stato giuridico
particolare che inibiva loro la proprietà di immobili, di schiavi cristiani e
il divieto di esercitare pubblici uffici o curare i cristiani.
Il loro autogoverno prevede un
consiglio di dodici notabili coadiuvati da contabili, auditori, esattori etc.
mentre l’autorità rabbinica centrale è rappresentata dal dienchelele.
Il decreto di espulsione giunse
in Sicilia inaspettato e fu diffuso in tutte le 57 comunità locali in cui gli
ebrei erano insediati. Da un giorno all’altro migliaia di persone furono poste
davanti all’alternativa di abbandonare la terra dei loro padri che da oltre un
millennio erano vissuti nell’isola oppure di rinunciare al credo trasmesso e
custodito da sempre.
All’inizio i baroni e le autorità
dell’isola mostrarono solidarietà agli ebrei ma non poterono far nulla rispetto
alla disposizione emessa da Isabella e Ferdinando d’Aragona.
In breve iniziarono i sequestri
dei beni e l’accompagnamento degli ebrei nei porti di imbarco verso terre mai
immaginate.
Furono periodi e circostanze di
umiliazione e di depradazione da parte di tutti coloro che in quella drammatica
situazione si ritennero autorizzati ad inferire su un popolo abbandonato al suo
destino.
Pochi furono gli ebrei che
accettarono, o finsero di accettare, la conversione e quei pochi non furono mai
sottratti all’occhiuta vigilanza dell’Inquisizione.
Tutte le giudecche di Sicilia si
spopolarono, vennero meno tante attività economiche e fu un danno immenso per l’isola
che invece necessitava di uomini e di
energie.
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