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Buongiorno. «Omicidio volontario aggravato dal legame sentimentale e sequestro di persona». È questa, per ora, l’accusa a Filippo Turetta, che aspetta in un carcere tedesco l’estradizione in Italia. Ci vorranno alcuni giorni perché gli inquirenti veneti possano interrogare il giovane che ha rapito e ucciso la ragazza che non lo voleva più. Le domande sono quelle tipiche di questa casistica terribile: la più importante è se il delitto era stato premeditato, e poi quali armi, e quando, e come.
Domande importanti naturalmente, da cui dipenderà l’entità della pena per l’assassino.
La domanda più importante però è un’altra, quella che investe tutti noi:
perché Giulia, perché proprio Giulia Cecchettin?
Ovvero: perché in un Paese in cui una donna viene ammazzata ogni tre giorni — nel 2023 siamo a 105 — e quasi sempre da un partner o un ex, perché proprio stavolta c’è un’enorme ondata di commozione e partecipazione? Perché la reazione non è quella consueta, di raccapriccio sincero ma contingente e quasi rassegnato?
Le risposte possono essere tante: la più probabile e inquietante è che ci siamo immedesimati di più. Perché quelle famiglie sono davvero «quadrate» come tante altre famiglie, non c’è ombra di degrado o marginalità che ce le faccia sembrare distanti dalle nostre vite mediane, e quei ragazzi, la vittima e l’aguzzino, potevano, possono essere nostri figli, nipoti, compagni di studi, amici. Conoscenti.
Quell’ordinarietà senza ombre apparenti — o per usare la parola che nasconde tutto: quella normalità — ci attrae e ci terrorizza, ci fa sentire coinvolti per compassione e indignazione naturali ma anche perché ci sorprendiamo a chiederci se possa succedere anche a noi, alle persone come noi, alle persone intorno a noi. Quell’ordinarietà senza ombre apparenti è la nostra.
Per questo parleremo e scriveremo a lungo di Giulia e del suo assassino. Parlando di loro parleremo di noi.
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