Il linciaggio di nove siciliani nella New Orleans del 1891
Accusati dell´omicidio di un poliziotto, assolti dai giudici
di Alberto Bonanno
La Repubblica del 28/11/2007
Antonio Abbagnato, James Caruso, Rocco Geraci, Antonio Marchesi, Pietro Monasterio, Emanuele Polizzi, Frank Romero, Antonio Scafidi, Charles Traina. Nomi di immigrati siciliani che negli Stati Uniti oggi non direbbero più nulla a nessuno, ma che appartengono a nove vite sacrificate per affermare il mito americano della libertà nella sua proiezione più estrema e violenta.
Nove siciliani trucidati il 14 marzo 1891 a New Orleans sono caduti nell´oblio riservato a tutte le vittime dei linciaggi, le stragi compiute in nome della giustizia che punteggiano luttuosamente la vicenda americana. Di quel linciaggio, il più grave nella storia degli Usa, c´è traccia ormai solo nella memoria di qualche studioso e nella stampa dell´epoca, che al massacro diede grande rilievo: sebbene le esecuzioni sommarie fossero all´ordine del giorno, quel caso incrinò seriamente, per la prima volta, i rapporti tra l´Italia e l´America. Una crisi risolta qualche anno dopo con un pugno di dollari. E oggi, che i rigurgiti xenofobi fanno la loro ricomparsa anche in Italia, vale la pena riflettere su un episodio che mostra come, poco più di cento anni fa, proprio i siciliani venissero considerati alla stregua dei romeni o dei nordafricani del nostro tempo, come ricorda Gian Antonio Stella nel suo "L´orda" (Rizzoli), unico contributo recente alla memoria di quella strage.
Nel 1890 New Orleans era la quarta città degli Stati Uniti e la prima al mondo per convivenza di razze: nel melting pot si mischiavano francesi, irlandesi, creoli, caraibici, afroamericani. E tanti italiani, quasi tutti del Sud. La città statunitense era collegata con Palermo dalle navi a vapore, che periodicamente rovesciavano sulle banchine del porto migliaia di migranti: da quando la schiavitù era stata ufficialmente abolita, venticinque anni prima, molti di loro avevano finito per sostituire i neri nel massacrante lavoro di raccolta del cotone. Dalle navi non sbarcava solo manodopera: anche le organizzazioni che facevano capo alla mafia siciliana - Mano Nera e associazione degli Stuppagghieri su tutte - la mafia calabrese e la camorra napoletana, in poco tempo si erano profondamente infiltrate negli interessi economici della città. Lo sapeva bene David C. Hennessey, primo sovrintendente della polizia locale: da oltre due anni il giovane sceriffo teneva a bada le famiglie criminali italiane che a New Orleans si contendevano il controllo degli attracchi nel porto commerciale, il più importante e frequentato degli Stati Uniti del Sud. Hennessey non era uno stinco di santo, e ricalcava la fama della polizia di New Orleans, accusata spesso di corruzione e di connivenze: lui stesso era stato processato per omicidio e banditismo, e «aveva abbracciato la fede della legge per non finire in prigione», ricorda Massimo Di Martino nel suo "Joe Petrosino, detective 285" (Flaccovio).
La guerra del porto vedeva da un lato i Matranga, famiglia mafiosa egemone alleata all´oscuro imprenditore Joseph Macheca - diventato in poco tempo il re degli agrumi del french market e ritenuto l´uomo più potente del sottobosco neworleansiano - e la famiglia dei Provenzano, successori del clan mafioso degli Esposito. Il 6 aprile 1890 un agguato commesso dai Provenzano a danno dei Matranga, in cui due uomini legati a questa famiglia avevano perso la vita, aveva messo violentemente fine alla tregua. E poco dopo aver arrestato Macheca e Matranga come mandanti di quell´omicidio, Hennessey aveva annunciato la sua testimonianza nel processo a loro carico a favore dei Provenzano, che di Hennessey erano amici personali. Fu molto probabilmente per questa ragione che la notte del 15 ottobre, intorno alle undici e mezza, mentre Hennessey rientrava a casa dopo un banchetto offerto in suo onore da immigrati siciliani, giunto nei pressi di casa, all´angolo tra Girod e Basin Street, venne colpito dalle fucilate esplose da due uomini. Lo sceriffo rispose al fuoco, ma le pallottole di grosso calibro gli avevano devastato l´addome: si trascinò per qualche metro e all´angolo successivo cadde esanime. Poco prima di morire riuscì a sussurrare un´accusa nelle orecchie del capitano O´Connor, accorso dopo avere udito i colpi: «Dagos did it». Sono stati i dagos, i «latini», nel nomignolo che nello slang del Sud indicava genericamente e beffardamente i meridionali italiani. Fu la scintilla che innescò una carica pronta a esplodere da tempo. Perché sebbene New Orleans avesse fama di città multirazziale, i meridionali italiani non erano affatto ben visti dalla popolazione locale. Non solo perché fossero particolarmente invisi alla comunità dominante degli irlandesi (che li avevano ribattezzati guinies whops, miserabili e spilorci).
Nove siciliani trucidati il 14 marzo 1891 a New Orleans sono caduti nell´oblio riservato a tutte le vittime dei linciaggi, le stragi compiute in nome della giustizia che punteggiano luttuosamente la vicenda americana. Di quel linciaggio, il più grave nella storia degli Usa, c´è traccia ormai solo nella memoria di qualche studioso e nella stampa dell´epoca, che al massacro diede grande rilievo: sebbene le esecuzioni sommarie fossero all´ordine del giorno, quel caso incrinò seriamente, per la prima volta, i rapporti tra l´Italia e l´America. Una crisi risolta qualche anno dopo con un pugno di dollari. E oggi, che i rigurgiti xenofobi fanno la loro ricomparsa anche in Italia, vale la pena riflettere su un episodio che mostra come, poco più di cento anni fa, proprio i siciliani venissero considerati alla stregua dei romeni o dei nordafricani del nostro tempo, come ricorda Gian Antonio Stella nel suo "L´orda" (Rizzoli), unico contributo recente alla memoria di quella strage.
Nel 1890 New Orleans era la quarta città degli Stati Uniti e la prima al mondo per convivenza di razze: nel melting pot si mischiavano francesi, irlandesi, creoli, caraibici, afroamericani. E tanti italiani, quasi tutti del Sud. La città statunitense era collegata con Palermo dalle navi a vapore, che periodicamente rovesciavano sulle banchine del porto migliaia di migranti: da quando la schiavitù era stata ufficialmente abolita, venticinque anni prima, molti di loro avevano finito per sostituire i neri nel massacrante lavoro di raccolta del cotone. Dalle navi non sbarcava solo manodopera: anche le organizzazioni che facevano capo alla mafia siciliana - Mano Nera e associazione degli Stuppagghieri su tutte - la mafia calabrese e la camorra napoletana, in poco tempo si erano profondamente infiltrate negli interessi economici della città. Lo sapeva bene David C. Hennessey, primo sovrintendente della polizia locale: da oltre due anni il giovane sceriffo teneva a bada le famiglie criminali italiane che a New Orleans si contendevano il controllo degli attracchi nel porto commerciale, il più importante e frequentato degli Stati Uniti del Sud. Hennessey non era uno stinco di santo, e ricalcava la fama della polizia di New Orleans, accusata spesso di corruzione e di connivenze: lui stesso era stato processato per omicidio e banditismo, e «aveva abbracciato la fede della legge per non finire in prigione», ricorda Massimo Di Martino nel suo "Joe Petrosino, detective 285" (Flaccovio).
La guerra del porto vedeva da un lato i Matranga, famiglia mafiosa egemone alleata all´oscuro imprenditore Joseph Macheca - diventato in poco tempo il re degli agrumi del french market e ritenuto l´uomo più potente del sottobosco neworleansiano - e la famiglia dei Provenzano, successori del clan mafioso degli Esposito. Il 6 aprile 1890 un agguato commesso dai Provenzano a danno dei Matranga, in cui due uomini legati a questa famiglia avevano perso la vita, aveva messo violentemente fine alla tregua. E poco dopo aver arrestato Macheca e Matranga come mandanti di quell´omicidio, Hennessey aveva annunciato la sua testimonianza nel processo a loro carico a favore dei Provenzano, che di Hennessey erano amici personali. Fu molto probabilmente per questa ragione che la notte del 15 ottobre, intorno alle undici e mezza, mentre Hennessey rientrava a casa dopo un banchetto offerto in suo onore da immigrati siciliani, giunto nei pressi di casa, all´angolo tra Girod e Basin Street, venne colpito dalle fucilate esplose da due uomini. Lo sceriffo rispose al fuoco, ma le pallottole di grosso calibro gli avevano devastato l´addome: si trascinò per qualche metro e all´angolo successivo cadde esanime. Poco prima di morire riuscì a sussurrare un´accusa nelle orecchie del capitano O´Connor, accorso dopo avere udito i colpi: «Dagos did it». Sono stati i dagos, i «latini», nel nomignolo che nello slang del Sud indicava genericamente e beffardamente i meridionali italiani. Fu la scintilla che innescò una carica pronta a esplodere da tempo. Perché sebbene New Orleans avesse fama di città multirazziale, i meridionali italiani non erano affatto ben visti dalla popolazione locale. Non solo perché fossero particolarmente invisi alla comunità dominante degli irlandesi (che li avevano ribattezzati guinies whops, miserabili e spilorci).
Le guerre interne per il dominio avevano minato il campo degli affari ai commercianti e agli imprenditori del luogo, che si ritrovavano a che fare con una «concorrenza» con la quale scendere a patti o ingaggiare lotte armate. Il sindaco di New Orleans, Joseph Shakespeare, dopo l´omicidio Hennessey sparò nel mucchio degli emigrati, additando i meridionali italiani come i responsabili dell´agguato: «Il clima mite, la facilità con la quale ci si può assicurare il necessario per vivere e la natura poliglotta dei suoi abitanti - scrisse il primo cittadino sui giornali del luogo - hanno fatto sì che, sfortunatamente, questa parte del Paese sia stata scelta dai disoccupati e dagli emigranti appartenenti alla peggiore specie di europei, i meridionali italiani». Genia che Shakespeare definì come formata dagli «individui più abietti, più pigri, più depravati, più violenti e più indegni che esistono al mondo, peggiori dei negri e più indesiderabili dei polacchi». «Dobbiamo dare a questa gente - fu la chiosa - una lezione che dovranno ricordare per sempre». E così fu. La reazione della polizia fu immediata: un massiccio rastrellamento mandò ai ceppi una cinquantina di siciliani, undici dei quali finirono tra i diciannove imputati nel processo per l´omicidio Hennessey. «Tra essi - ricorda Roberto Ciuni nell´Enciclopedia della Sicilia - c´erano il boss della famiglia Matranga, Carmelo, che la sera del 15 ottobre stava giocando a carte, i malavitosi Rocco Geraci e Antonio Scafidi, e tale Emanuele Polizzi, considerato attaccabrighe di professione». Polizzi, si sarebbe scoperto dopo, che in realtà soffriva solo di una precaria salute mentale.
Ma tra esse c´erano anche Pietro Monasterio, il calzolaio la cui bottega si trovava di fronte al luogo dell´agguato, il latitante Bastiano Incardona e Gaspare, suo figlio quattordicenne, accusato di aver dato ai killer il segnale di arrivo di Hennessey la sera dell´agguato. C´erano i fruttivendoli Antonio Marchesi e Antonio Abbagnato, palermitano, che non aveva mai riportato neppure una contravvenzione, colpevoli di lavorare in un mondo in cui Macheca dettava legge. Ci vollero dieci giorni e ottocento audizioni prima che il tribunale di New Orleans riuscisse a formare la giuria, che alla fine di un dibattimento con prove esili e costruite a tavolino (i giudici ricorsero perfino alle ricostruzioni di un detective privato), e ben sessantasette testimoni d´accusa, nel marzo del 1891 emise un verdetto di non colpevolezza per otto degli undici imputati, e non riuscì a raggiungere un accordo per tutti gli altri. Con una forzatura giuridica tutti gli arrestati vennero riportati in carcere, in attesa di aprire un secondo processo dal quale potessero uscire condannati grazie a prove più solide. Ma quel verdetto non andò giù al popolo di New Orleans, che si sentì tradito dai magistrati.
Appreso dalla stampa l´esito della sentenza, lo sceriffo Gabriel Villère emise un agghiacciante bando pubblico: «Tutti i bravi cittadini sono invitati a partecipare all´assemblea convocata sabato 14 marzo alle 10 alla Clay Statue, per prendere provvedimenti rispetto al fallimento della giustizia nel caso Hennessy. Arrivare pronti all´azione». Si ritrovarono in tremila - ventimila secondo il settimanale "Harper´s Weekly" - armati di pistole, fucili, asce e bastoni. A guidare la protesta era un influente avvocato, W. S. Parkerson, che dalla statua aveva arringato la folla con frasi come «Quale protezione, quale garanzia di protezione ci viene assicurata quando il vertice della nostra polizia viene assassinato dalla mafia, e i suoi assassini tornano a confondersi nella nostra comunità?» E mentre il console italiano, Pasquale Corte, seguiva la vicenda con il fiato sospeso, la Parish Prison, dove erano rinchiusi i siciliani, venne presa d´assalto. La folla chiese le chiavi al capitano Davis, capo del corpo di guardia, che rifiutò di consegnarle. Allora furono abbattute a colpi d´ascia le porte laterali su Treme Street e i rivoltosi entrarono nel carcere. Il primo a cadere sotto i colpi di fucile fu Scafidi. Poi il branco incontrò il minorenne, che fu graziato solo per la giovane età, ma fu travolto ugualmente dalla folla inferocita. Il gruppo raggiunse il terzo piano, dove i detenuti erano fuggiti nel tentativo di confondersi con le donne. Il secondo a cadere fu Macheca.
Ma tra esse c´erano anche Pietro Monasterio, il calzolaio la cui bottega si trovava di fronte al luogo dell´agguato, il latitante Bastiano Incardona e Gaspare, suo figlio quattordicenne, accusato di aver dato ai killer il segnale di arrivo di Hennessey la sera dell´agguato. C´erano i fruttivendoli Antonio Marchesi e Antonio Abbagnato, palermitano, che non aveva mai riportato neppure una contravvenzione, colpevoli di lavorare in un mondo in cui Macheca dettava legge. Ci vollero dieci giorni e ottocento audizioni prima che il tribunale di New Orleans riuscisse a formare la giuria, che alla fine di un dibattimento con prove esili e costruite a tavolino (i giudici ricorsero perfino alle ricostruzioni di un detective privato), e ben sessantasette testimoni d´accusa, nel marzo del 1891 emise un verdetto di non colpevolezza per otto degli undici imputati, e non riuscì a raggiungere un accordo per tutti gli altri. Con una forzatura giuridica tutti gli arrestati vennero riportati in carcere, in attesa di aprire un secondo processo dal quale potessero uscire condannati grazie a prove più solide. Ma quel verdetto non andò giù al popolo di New Orleans, che si sentì tradito dai magistrati.
Appreso dalla stampa l´esito della sentenza, lo sceriffo Gabriel Villère emise un agghiacciante bando pubblico: «Tutti i bravi cittadini sono invitati a partecipare all´assemblea convocata sabato 14 marzo alle 10 alla Clay Statue, per prendere provvedimenti rispetto al fallimento della giustizia nel caso Hennessy. Arrivare pronti all´azione». Si ritrovarono in tremila - ventimila secondo il settimanale "Harper´s Weekly" - armati di pistole, fucili, asce e bastoni. A guidare la protesta era un influente avvocato, W. S. Parkerson, che dalla statua aveva arringato la folla con frasi come «Quale protezione, quale garanzia di protezione ci viene assicurata quando il vertice della nostra polizia viene assassinato dalla mafia, e i suoi assassini tornano a confondersi nella nostra comunità?» E mentre il console italiano, Pasquale Corte, seguiva la vicenda con il fiato sospeso, la Parish Prison, dove erano rinchiusi i siciliani, venne presa d´assalto. La folla chiese le chiavi al capitano Davis, capo del corpo di guardia, che rifiutò di consegnarle. Allora furono abbattute a colpi d´ascia le porte laterali su Treme Street e i rivoltosi entrarono nel carcere. Il primo a cadere sotto i colpi di fucile fu Scafidi. Poi il branco incontrò il minorenne, che fu graziato solo per la giovane età, ma fu travolto ugualmente dalla folla inferocita. Il gruppo raggiunse il terzo piano, dove i detenuti erano fuggiti nel tentativo di confondersi con le donne. Il secondo a cadere fu Macheca.
Sei prigionieri che avevano provato a scappare da una scala di servizio furono raggiunti e portati in un cortile interno, dove furono uccisi a fucilate. Tra loro c´era Monasterio, che ferito a morte supplicò i suoi carnefici di sparargli il colpo di grazia. Abbagnato fu impiccato a un albero dopo essere stato ferito. Polizzi fu trovato in un sottoscala a balbettare frasi sconnesse: gli fu passata una corda al collo, e il disgraziato venne issato su un lampione. L´uomo riuscì ad arrampicarsi con le sue mani, ma la folla lo finì a colpi di pistola in un macabro tiro al bersaglio. Si salvarono solo Matranga e Incardona. Secondo l´American Heritage Review, Parkerson alla fine della rivolta congedò il popolo con la frase: «Vi ho chiamato per compiere tutti insieme un dovere, e questo dovere è stato compiuto. Ora tornate a casa e Dio vi benedica». La crisi internazionale tra Italia e Stati Uniti che seguì alla rivolta fu una delle più lunghe e complesse della storia. L´ambasciatore italiano, Francesco Saverio Fava, venne richiamato in patria dal presidente del Consiglio Antonio Starrabba di Rudinì, e il gelo tra i due Paesi durò anni. I processi ai rivoltosi si chiusero senza neppure un colpevole, i commenti della stampa e della politica giustificarono ampiamente il massacro. Il presidente Benjamin Harrison si prese la briga di risolvere personalmente il caso, dichiarando al Congresso che la strage era stata «un´offesa alla legge ed un crimine contro l´umanità», e proponendo di indennizzare le famiglie delle vittime con 2 mila 500 dollari cadauna. La proposta venne accolta a suon di fischi e qualche deputato propose persino di porre Harrison in stato di impeachement perché offendeva l´America. A pagare per quella strage, alla fine, fu solo la Casa Bianca, con i fondi a disposizione del presidente. E il conto non fu neanche troppo salato.
(28 novembre 2007)
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