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domenica 4 luglio 2021

Mondo contadino. Per non dimenticare una realtà umana che fu -4-

Stiamo, mese dopo mese, riportamdo pagine
de L'Almanacco del Contadino Siciliano.

L'Almanacco voleva essere libro per il mondo con­tadino degli anni '20 del Novecento; tanto spazio è dato alla fantasia, e alla folkloristica.
Aveva funzione pedagogica: l'intento era di parlare all’anima del contadino.
Motti, leggende, e canti e vita cotidiana. Tutto era rivolto ed aveva valore poetico. Era quello, in Sicilia, un mondo centrato in assoluto nella realtà latifondista..

ALMANACCO PER IL POPOLO SICILIANO, 1924

 Con stampe di ARDENGO SOFFICI e illustrazioni di CARMELO ALOISI 

ASSOCIAZIONE NAZIONALE PER IL MEZZOGIORNO EDITRICE 

– ROMA – 

1924 

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 Luglio, subbuglio. 

È il mese della trebbiatura e del solleone. Al villano si screpola la pelle, la terra si spacca, e i piedi si cuociono sull'aia. 

Il cielo infocato è pieno di pula, e gli uccelli strapiombano come ammazzati. 

Dalla mattina alla sera le mule girano sopra i covoni, e il frumento tra la paglia balla e canta. E come l’aia è rotta, e San Clemente scioglie i suoi venti, il villano, con la camicia fuor delle brache, si mette a spagliare allegramente. Volano anche motti e canzoni, ché a tutti il sangue s’accende al vedere la grazia del Signore. 

Nei tramonti sereni, dolce è poi guardare il mucchio del frumento e fare i conti per il tempo futuro; e s'incomincia a insaccare nel nome di Dio. 

Spicciati,o villano; dopo il travaglio ti aspetta la festa; ma non scordare che il pane nuovo, mangiato che sia, ha sapore di vecchio. 

Alla vigna, ch'è tutta in rigoglio, si cimano i tralci, e si fanno le solforazioni ai grappoli. Se vedi una vite presa dalla fillossera, scerpala subito, e ricordati che il miglior mezzo per salvare le piante dal tristo morbo è d'innestare viti nostrane su piede di viti americane.

IL PIÚ 

 Non desiderare più di quanto ti basta: il pensiero del più è pensiero che l’anima rode e toglie la pace.

 Anzi, mettiti bene a mente questo: se tu cerchi il più, corri pericolo di non serbarti più onesto, com'è giusto che tu sia, e il Signore comanda. Scrupolo leva scrupolo.

 Contentati del poco, e bacia sempre la terra. 

LE MONTAGNE DELLA SICILIA 

(fine) 

Nel Siracusano non vi sono veri e propri monti. 

Si può parlare soltanto di tavolati, tra cui solo emerge monte Lauro (m. 986). Essi hanno il nome di monti Iblei, più famosi nell’antichità che oggi, perché davano miele in abbondanza, cantato dai poeti, per il sapore squisito. 

La maggior parte di essi sono costituiti da tufi calcarei, ora bianco-giallastri che formano la così detta pietra di Siracusa, ora bituminosi, da cui si estrae l’asfalto, buono per pavimentazioni di strade. 

Gli Iblei hanno un aspetto caratteristico, e sono qua e là solcati da cave, tra cui importante la cava d’Ispica. Vi sono diffuse le culture alboree, specialmente di viti, olivi e carrubbi. 

DAL VANGELO 

1, I giudizi temerari 

Disse ancora Gesù: 

- Non giudicate, affinché non siate giudicati; perché col giudizio col quale giudicate, sarete giudicati; e con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi. 

E perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello, mentre non scorgi la trave che è nell'occhio tuo? Ovvero, come farai a dire al tuo fratello: Lascia che ti cavi dall'occhio la pagliuzza - se, ecco, la trave è nell'occhio tuo? Ipocrita, cava prima la trave dall’occhio tuo, e allora ci vedrai bene per cavare la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello. 

2. La carità reciproca 

- Io altresì vi dico: Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, chi cerca trova, e sarà aperto a chi picchia. Chi è fra voi che, se il figliuolo gli chiede un pane, gli dia una pietra? O, se gli chiede un pesce, gli dia una serpe? 

Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dar buoni doni ai vostri figliuoli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli, darà cose buone a coloro che gliele domandano! 

Tutte le cose dunque che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro; perché in questo si riassumono la legge e i profeti. 

STELLIO 

Non trovando più la figlia, Cerere la cercava per monti e per valli; ma alla sua voce rispondeva soltanto l'eco pietosa. 

Ne domandava notizie a chiunque incontrasse, a ninfe e pastori, ma nessuno sapeva che fosse avvenuto della fanciulla.

Stimandola perduta per sempre, si stracciò i capelli e ululò come una cagna. Tutta la Sicilia tremò del suo dolore. 

Si volgeva come folle alle fiere e alle pietre, malediceva la terra e il sole che restavano muti alle sue domande e non l'avevano avvisata della disgrazia. 

Le bestie e gli uccelli fuggivano indietro alle sue grida, temendone l'ira, e le spighe e i fiori si curvavano per non farsi vedere. 

Senza posare un solo istante ella vagò giorno e notte per tutta l’isola, rovistando ogni angolo. 

Stanca alfine e arsa dalla sete, bussò ad una capanna, per averne da bere. Le aprì una vecchia di nome Baubo, che vedendola in quello stato pietosamente la fece entrare e sedere. 

- Dammi da bere - disse la Dea – ch’io muoio di sete - e intanto si asciugava la fronte sudata e gli occhi molli di pianto. 

Baubo le porse una brocca piena, ed ella vi si attaccò, come volesse vuotarla d'un fiato. 

In quella un nipotino della vecchia, chiamato Stellio, che osservava la scena, a vedere come la Dea avida beveva, con gli occhi che le schizzavano fuori, scoppiò a ridere, gridando: 

- Ah! ah! l’ingorda! 

Irata la Dea gli buttò sulla testa la brocca con l'acqua, e tosto l’irriverente fanciullo fu mutato in lucertola. 

Lacrimando dai piccoli occhi di rettile, egli vagò qua e là per la stanza in cerca d’un nascondiglio, e la vecchia atterrita gli correva dietro, cercando invano di afferrarlo. 

I TRE RE

I tre re, o come dicono anche il triale, fanno la via della Puddara. 

Sono tre stelle l’una sopra l’altra in linea dritta, grandi lucenti come tre spade d’argento, e rinfrescano gli occhi assonnati. 

Il villano che le guarda sa l’ora, e si regola. 

Le sere d'autunno fioriscono d'un tratto sui monti, e s'innalzano a illuminare il cielo. 

La mattina, d'està, accompagnano la via a chi se ne va al lavoro, finché l'alba non le cancella pian piano dal cielo. 

LE DONNE DI MESSINA 

Re Carlo d’Angiò, saputo del Vespro Siciliano in cui tutti i suoi Francesi erano periti come male bestie, sommamente arse di furore, e ne giurò atroce vendetta. 

- O Sicilia! - gridò alzando il pugno al cielo -la vendetta ch’io ne farò sarà esempio terribile per tutti i tuoi secoli. Io ti ridurrò in polvere sotto il mio pugno, oppure il mio nome si perda! 

Allestita una numerosa flotta, invece di volgere contro Costantinopoli, come aveva in animo di fare, s’imbarcò con tutte le sue truppe alla volta di Messina, a cui pose l’assedio il sei di luglio 1282. 

Prima di ordinare l'assalto, fece gettare fra le truppe questo bando: 

- Soldati della Francia! chi primo entra in Messina sarà ricoperto d'oro. Nessuno usi misericordia! uccidete, bruciate, violentate le donne! La città dev'essere rasa al suolo perché sopra vi spuntino le ortiche. Uccidete gli uomini, i vecchi, i bambini, salvate soltanto le donne per il vostro piacere! A ognuno di voi regalo la sua donna! 

Udito ciò quelli di Messina, conoscendo per prova cosa potevano i francesi, si prepararono a resistere fino all’ultimo sangue. Ma più inferocirono le donne, sentendo il tristo destino che loro era serbato. Tutta la città arse di sdegno e di coraggio: nobili, plebei, ricchi, poveri, bambini, giovani, vecchi, sani e malati, tutti erano sulle mura a combattere il furioso nemico. 

Le donne maneggiavano le armi meglio degli uomini più forti, si esponevano ai maggiori pericoli, non pensavano più alla vita. Chi ancora allattava, col bambino fra le braccia, rincorava gli stanchi e i feriti, porgeva ai combattenti le armi e le vettovaglie, lanciava giù pietre e mattoni. Le vecchie e le fanciulle portavano caldaie di olio bollente e conche di fuoco, e le buttavano con danno immenso addosso agli assalitori. 

Tutte, scapigliate e discinte, senza più riguardo alcuno alla loro bellezza e alla loro fragilità, stavano in prima linea, e gridavano a ogni istante ai francesi atterriti: 

- Noi vogliamo farvi conoscere chi sono le donne di Messina! 

Gli uomini, spinti dall'esempio e dall’amore delle loro donne, si sentivano centuplicare le forze, e pugnavano come leoni, tenendo in iscacco l’esercito di Carlo, finché non venne Re Pietro d’Aragona a portar loro aiuto. 

E così fu salva Messina, per valore principalmente delle sue donne, alle quali dopo fu fatta una canzone che cominciava così: 

Deh com'egli è gran pietate 

delle donne di Messina 

nel vederle iscapegliate

 e portar pietra e calcina!

LA CICALA 

Cicaledda tu t’assetti 

supra un ramu la mattina, 

una pampina ti metti 

a la testa pi curtina, 

e ddà passi la jurnata 

a cantati sfacinnata. 


   Binchí piccula si' tantu, 

   ti fai granni e quasi immenza 

   prupagannu cu lu cantu 

   la tò fragili esistenza, 

   e o t’allarghi, o ti rannicchi, 

   t’havi ognunu ‘ntra l’oricchi. 


A tia cedinu l’oceddi 

di l'està li forti vampi, 

e li grati vinticeddi 

pri rigina di li campi 

ti salutanu giulivi, 

pirchí tu li campi avvivi. 

   Quannu è ‘n suli a lu miriu, 

   li to’ noti su a lu stancu 

   passeggeri di arricriu: 

   posa all'umbri lu sò ciancu, 

   e a lu sonu di tua vuci 

   si addurmisci duci duci. 

Giovanni Meli 

I MOTTI 

Annata di paglia, annata d’imbrogli. 

Chi miete lascia spighe. 

Dio fece la terra per il villano. 

Il buon mietitore miete con una costola di cavallo. 

Se vuole il Padr’Eterno si semina a luglio e si miete in inverno. 

Vuoi un orto senz’acqua? ogni settimana zappa. 

La collera della sera lasciala per la mattina. 

Chi ha pane ha cane.

 L'asino è la ricchezza del villano. 

LA MALARIA 

Una delle piaghe della Sicilia è la malaria. 

Campagne infinite ne sono infestate. Nella calura d’està, quando il sole spacca le pietre, dalle gore e dai pantani, si producono a miriadi le zanzare malefiche, le quali pungendo il povero agricoltore, gli attossicano il sangue e gli rendono il pane più amaro e più nero. Ai triboli s'aggiungono le spine. La malaria ti coglie a tradimento nel meglio dell’opera, quando più hai bisogno delle braccia, e ti lascia col danno e il malanno. 

Fuggire la terra, per scansarla, è impossibile: ché la terra dà il pane. 

La malaria è il male della povera gente, di quelli che sudano e penano dal principio dell’anno alla fine, e riposano soltanto il dì della morte. 

Anticamente i nostri padri la rappresentavano come un terribile mostro a cui gli stessi Dei davano la caccia, senza poterlo mai vincere. 

Ma oggi contro di essa c’è un rimedio infallibile: il chinino. Tu usalo assiduamente, e prima e durante. Se sei sano ti fa più sano. Non sprezzarlo, vantandoti d'essere invulnerabile come Orlando, perché quando meno te l'aspetti la trista nemica ti coglie alle spalle e ti strugge. 

Fuggi i rimedi delle donnicciuole, filtri e beveraggi; e così la credenza di malie e scongiuri. 

All'alba e al tramonto, brucia sull’aia un mucchio di paglia: il fumo sperde le zanzare che portano il male e te l'iniettano pungendoti. 

La notte copriti tutto, volto e mani; e il giorno non cadere a dormire, e non dormire all’impiedi.

 MICHELE AMARI E GIUSEPPE PITRÉ 

Tra i suoi più grandi figli la Sicilia ricorda Michele Amari e Giuseppe Pitrè, che con le loro opere accrebbero lo splendore della patria. 

Giuseppe Pitrè

Il primo fece riudire all'Italia schiava le campane dei Vespri, terrore agli sfacciati tiranni e ai superbi oppressori; e dopo amorose ricerche e studi pazienti rivelò all’ammirazione di tutti gli orrori e i tesori della dominazione dei Musulmani in Sicilia. 

Il secondo innamoratosi del popolo da cui veniva, dedicò tutta la sua vita a studiarne gli usi e i costumi; a raccoglierne i motti, i canti, le leggende, le storie, le feste, i proverbi, le pratiche religiose e le superstiziose. Chi oggi vuol conoscere la Sicilia e l'anima del popolo siciliano, deve ricorrere ai libri di Giuseppe Pitrè: in essi c'è tutta la vita, la miseria, le tristezze, le gioie, la santità, la grandezza dei nostri lavoratori. 

Pitrè è il padre spirituale di quanti lavorano al benessere della nostra isola; degli operosi che spendono le loro energie per il miglioramento morale e materiale del nostro popolo. 

L’Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia, che tanto bene ha fatto per la Sicilia, è un po’ anche opera sua. 

In questo libro che tu leggi, molto c'è di Lui: ci sono motti, leggende, storie, canzoni; c’è soprattutto l'infinito amore per te. Da Michele Amari abbiamo riassunto il racconto dei Vespri che tu già hai letto.

LA FESTA DEL SANTO PATRONO 

Gioia e devozione d’ogni paese, dal più grande al più piccolo, è la festa del Santo Patrono, o della Santa. 

Il villano lascia la vanga e si veste di gala, e le donne incignano i vestiti nuovi a bei colori, e ridono dalla faccia lucente. Le strade diventano terse, le case si adornano di fiori, e in cucina c'è festa come in chiesa, ché un giorno simile capita una volta l'anno.

 E gioia per tutti: in piazza ricchi e poveri son tutti gli stessi. Di fronte ai Santi e di fronte alla morte, non c’è né prima né dopo. 




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