Girare, conoscere il territorio su cui si vive, è quanto di più interessante si possa immaginare. Girando per i 13.000 ettari di territorio comunale si percepisce l’antica vivacità della vita contadina (scomparsa da oltre un quarantennio), si scopre la percezione di un territorio che ancora, malgrado i guasti di una pseudo modernità disordinata ed incontrollata, manifesta la sua bellezza paesaggistica e in alcuni tratti la fervente fertilità.
Nel passato i contadini curavano la terra, oggi noi dalla terra esigiamo prodotti per la vita “urbanizzata”.
Il nostro territorio è attraversato e lambito da corsi d’acqua un tempo ben più ricchi sia di acqua che di vita. Degli antichi sistemi molitori abbiamo perso ogni memoria e qualche volta percepiamo attraversi ruderi, più o meno consistenti, la traccia di realtà produttive antiche. Lo stesso recupero del mulino Bagnitelle non ha sortito, invece, nella coscienza comunitaria locale alcuna ricaduta, né culturale, né turistica né, purtroppo, didattico-formativa.
Non intendiamo esplorare il passato quale espressione di desiderio, che alcuni invece coltivano come romantica attitudine, lo facciamo perché la possibile conoscenza del passato ci aiuta a conoscere noi stessi così come siamo oggi. “Studio la Storia per rispondere ai perché di oggi” scriveva Indro Montanelli.
La tutela del patrimonio storico si attua sicuramente attraverso la tutela vera e propria, ma anche con la divulgazione storica.
Un tempo l’acqua non era soltanto indispensabile risorsa per uomini, bestie e piante, ma fonte di energia rinnovabile e non inquinante in grado di sostenere varie attività, fra cui la molitura del grano.
L’acqua è stata forza motrice per far funzionare i primi insediamenti industriali, ossia i mulini di cui le prime indicazioni ci giungono dall’XI secolo.
Uno storico siciliano, per dare il senso dell’importanza dei mulini nella vita dello scorso millennio scrive “Si può dire che come il grano è il protagonista della vita economica siciliana, l’imposta sulla macina lo è per quella finanziaria”. Si, in effetti la finanza pubblica locale ed in seguito anche erariale, l’imposizione tributaria indiretta, in Sicilia nasce proprio con i mulini e, sotto varie vesti, funzionerà fino agli anni della seconda guerra mondiale
Sotto i ruderi del mulino ad acqua di Alvano, sperduti e persi in un piccolo corso d’acqua che quando raggiunge il territorio di Contessa Entellina prende nome di Realbate, si possono intravedere, leggere e percepire tante cose. Ad esempio un lungo cammino, che attraversa un bel po’ di secoli, senza che siano mai intervenuti cambiamenti significativi di tecnologia, tecnica produttiva, ma soprattutto l’intrecciarsi di rapporti umani e materiali che hanno legato il soggetto baronale (l’Abazia di Santa Maria del Bosco) al pulullare di vita costituita da migliaia e migliaia di villani, terragieri, garzoni, maestranze, borgesi, notai e altri ancora.
Attorno ai mulini ruotava, passava, tutta la società dei secoli passati.
Ecco perché edifici, ruderi, ambienti, costituiscono, per chi vuole conoscere, testimoni della nostra storia.
Nella Sicilia Occidentale il mulino ad acqua iniziò la sua comparsa, almeno sui documenti ufficiali, a partire dal Gran Conte Ruggero, all’inizio del secondo millennio. Nelle zone prive di sufficienti risorse idriche, si continuò comunque fino alla fine dell’800 (XIX secolo) ad utilizzare i vecchi sistemi: mulini azionati dagli animali e in vari contesti dalle braccia umane.
I mulini ad acqua erano di due tipi, a ruota verticale e a ruota orizzontale. L’adozione di uno o l’altro tipo era legato alla portata del corso d’acqua. Sul territorio di Contessa, e nelle aree ad esso prossime (ci riferiamo ai mulini di Alvano, Tarucco e Vaccarizzotto in territorio di Bisacquino) data la non grande portata del sistema fluviale sorgevano soltanto mulini a ruota orizzontale, detti anche di tipo greco.
Generalmente i mulini sorgevano ad una discreta distanza dal corso dell’acqua per non interferire nell’ordinario scorrere delle acque e per evitare di andare in rovina durante le non infrequenti piene. Questo era il caso dei mulini Alvano, Vaccarizzotto e Bagnitelle.
Venivano pertanto eseguiti, per ovviare, dei canali che portavano l’acqua dal fiume al mulino; questa circostanza attenuava la forza motrice dell’acqua per far girare la ruota, cosicchè era inevitabile realizzare un “salto idraulico” –dislivello- per permettere all’acqua di acquistare la forza necessaria ad attivare la mola collegata alla ruota.
Alla fine del canale si realizzava, pertanto, una condotta in pressione oppure (circostanza prevalente) una vasca (‘buti’ in arbrëschë ) che serviva da riserva idrica e polmone di compensazione.
Il luogo su cui sorgeva il mulino doveva rispondere a particolari requisiti, il salto geometrico, la possibilità che potesse essere realizzato il canale di derivazione e, ovviamente, il possesso del diritto giuridico di poter disporre a proprio piacimento del corso d’acqua e del terreno su cui edificare l’impianto. Questi requisiti sino a fine Settecento erano nell’esclusiva possibilità dei baroni, laici o ecclesiastici; macinare il grano era monopolio legale dei baroni, che ovviamente ne affidavano la conduzione ai mugnai, con contratti di vario tipo, dall'affitto all'enfiteusi.
La ricostruzione storica di ciascun mulino passa, oggi, anche attraverso il carteggio delle infinite controversie giudiziarie che vedono, per quanto riguarda le nostre zone, i Cardona intentare azioni giudiziarie ora ai monasteri ed ora alle “Università” (=comuni) estranee alla loro giurisdizioni; motivi del contendere erano le “prese d’acqua” di quei mulini, esterni alla propria baronia, che sottraevano acqua agli opifici baronali.
Non mancano i ricorsi davanti al Real Patrimonio che esigeva il “diritto di salto” dell’acqua: un tributo annuo che si versava alle casse regie per l’impianto e l’esercizio del mulino. Nel 1820, dopo un censimento di tutti i mulini ad acqua in esercizio dal 1787, su un totale esistente in Sicilia di 58, solamente 10 erano in regola col “diritto di salto”.
Normalmente l’acqua in uscita da un mulino azionava quello successivo e così accadeva nell’ordine per i mulini di Vaccarizzotto, Alvano, Tarucco ma anche per i mulini di Bagnitelle. La disposizione, a volte, determinava il nome dei mulini: mulino soprano, o di susu o di sopra, mulino di mezzo o di immezzu, mulino di sotto o di iusu.
Per arrivare ai mulini si realizzavano nuove strade. Se questi come spesso accadeva, erano lontani dai centri abitati la rete viaria veniva adattata, realizzando nuovi percorsi e nuove direttrici di sviluppo; nei mulini, indipendentemente dalla funzione molitoria, si sostava, si trascorreva la notte, per proseguire quindi i lunghi viaggi.
I contratti per realizzare le strade di penetrazione verso i mulini prevedevano:
-selciato largo almeno una canna,
-realizzato a schina di pesce,
-il laterale del giacato nella catena deve essere profondo un palmo, alto un palmo,
-il giacato deve essere stipato di mazzacani,
-il giacato deve ammassarisi di arena rossa che sia once quattro.
Come tutte le maestranze medievali e del periodo baronale quella dei mugnai era generalmente una corporazione a base familiare; sul territorio di Contessa, e in vari periodi anche dei paesi limitrofi, la gestione è stata per lungo tempo, già dal ‘400, della famiglia patriarcale dei Clesi. Il monastero di Santa Maria del Bosco, in base alle proprie regole interne, era tenuto a bandire periodicamente l’appalto per la gestione dei suoi mulini fra tutti gli operatori presenti a Giuliana, Bisacquino e Contessa Entellina. Soltanto dall’Ottocento in poi è venuto meno il monopolio baronale sui mulini ed il mercato dei mulini è divenuto pertanto libero; soltanto da allora un gran numero di mulini della zona diventeranno proprietà dei Clesi (mulinara), i quali continueranno a gestirne altri in affitto.
Il ruolo dei mugnai di agenti incaricati della riscossione dell’imposta sul macinato fino alla prima metà del Novecento non è venuto meno. Ma questa è un’altra storia.
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