Questo, come tutti i post che seguiranno, è parte di un più ampio studio in corso sulla storia umana nel territorio dell’attuale Contessa Entellina. Ci occuperemo assieme ai pochi lettori, quindi, di volta in volta, di Elimi, Romani, Bizantini, Arabi, Normanni, Aragonesi e così via, oltre che ovviamente di Arbreshe.
L’edificio che adesso ospita gli uffici del comune fino agli anni cinquanta del Novecento conservava i caratteri originari dell’impianto, costruito probabilmente nel seicento. Lì era la sede dei Signori feudali; non aveva tuttavia nulla di solenne né di architettonicamente apprezzabile. Mancava, non sussisteva perchè ancora non realizzato, quello che attualmente è l’ultimo piano, dove sono ospitati gli uffici demografici e l’aula consiliare. L’edificio non si distingueva per nulla dai fabbricati adiacenti. Segno che i Signori, lì, non ci vennero a vivere mai, nemmeno per trascorrervi una settimana; esso serviva quindi ai suoi rappresentanti, che in sua vece, gestivano la vita pubblica della comunità, dal secreto al maestro notaro ai giurati, al capitano, figure queste che andremo interpretando nelle loro funzioni con appositi ‘post’.
L’ingresso dell’edificio era situato, originaria -mente, sia sulla via Scanderbergh, dove una larga scalinata avviava l’ascesa pressappoco dall’attuale porta d’ingresso dell’ex biblioteca e si fermava dove oggi si trova l’ufficio del sindaco, sia in corrispondenza di quello che oggi è divenuto il principale accesso al palazzo (via Municipio); da qui si doveva comunque scendere al livello inferiore poiché, lo abbiamo già detto, non esisteva l’attuale ultimo piano.
Nulla resta oggi del vecchio impianto dell’edificio, che è stato peraltro ampliato con una nuova ala nel corso degli anni settanta del secolo scorso. L’area interessata da quest’ultimo intervento prima di allora era libera ed ospitava un verde giardinetto privato.
Entrando dalla via Scanderbergh nei locali della ex biblioteca balza subito agli occhi un locale, un vano buio, oscuro ed umido. Non ci vuole molto a capire che lì era ospitata la tristemente nota fossa sacrilega, la cella buia ed isolata che caratterizzava il destino di chiunque, nel regime feudale, non avesse rispettato l’Autorità del Signore feudale. Sì, la concezione medievale della società era essenzialmente teocratica; “il principio di autorità veniva a costituire un tessuto connettivo continuo che legava tra loro tutti gli aspetti del mondo contadino feudale e che aveva alla propria base il rapporto di subordinazione diretta, giuridica-politica-militare-religiosa, del lavoratore al suo Signore” dice Dario Meloni nelle sue “Istituzioni di controllo sociale …” a pag. 295. In quest’ottica tutti i signori feudali dell'isola rivendicavano a sé, ed ottennero tutti anche comprandolo, l’esercizio del potere giudiziario all’interno della propria baronia.
Il diritto di amministrare la giustizia sui propri sudditi era, in termini politici e sociali, il privilegio sicuramente più rilevante di cui godeva la maggior parte dei feudatari siciliani. Arrivava a loro dalla concessione regia, che menzionava la clausola nei documenti dell’investitura, del mero e misto imperio: il misto imperio era la ‘bassa giustizia’ (possibilità di comminare lievi pene corporali previo arresto), il merio impero consisteva nella potestà di punire i ‘facinorosi’ con la morte, l’esilio e la mutilazione.
I Cardona prima (che la ottennero dopo che i nuovi arrivati arbreshe ebbero sottoscritto i capitoli che regolavano il loro insediamento) ed i Colonna dopo con l’esercizio della giurisdizione civile e criminale esercitarono nello Stato di la Cuntissa un forte controllo sul territorio e sulla popolazione. Non lo fecero direttamente perché essi verosimilmente non misero mai piede in questa loro baronia, ma mediante rappresentanti che in parte venivano dalla sede della contea, Calatafimi prima e Chiusa Sclafani dopo, ed in parte erano locali. Ma di questa suddivisione ci occuperemo in altra occasione.
In quel tempo il metodo di indagine era segreto, si indagava nel silenzio per scoprire la verità. Lo scopo del processo inquisitorio era quello di ottenere la confessione del reo e non importa con quali mezzi. Da qui a legittimare l’uso della tortura per estorcere ammissioni di colpa il passo fu breve. Ogni crimine non veniva valutato in base alla sua gravità, quanto in base alla persona che lo aveva commesso; questa sarebbe stata infatti trattata con maggiore severità se fosse stata di “basso lignaggio” o delle classi inferiori. Tramite la ‘penance’, o il perdono ecclesiastico, era possibile commutare la pena corporale o addirittura la morte in una condanna alternativa. Esisteva, dunque, un principio di differenziazione del trattamento. Chi poteva pagare, o aveva conoscenze altolocate, fruiva di una pena incruenta, mediata dall’assoluzione o dal denaro; chi non possedeva privilegi, viceversa, soccombeva. Nel periodo dei Cardona e dei Colonna, signori del nostro territorio, nasce in embrione, nell'isola, la cultura odierna del clientelismo, dell’amicizia finalizzata, ed anche della mafia. Dal XV secolo la pena di morte e di mutilazione divennero misure più comuni rispetto ad altre e venivano applicate ogni volta che l’imputato fosse ritenuto un pericolo per la pace sociale; con questo termine si comprendevano non solo i delinquenti ma anche chi pensasse ad un mondo diverso e migliore. Il carcere nel periodo che stiamo esaminando non era comunque una punizione; lì, nelle celle, come in quella che ritroviamo nel palazzo municipale, la prigionia era luogo di reclusione in attesa del processo, ove gli accusati erano costretti a passare parecchi mesi o anni prima di vedere il loro caso risolto. Il carcere inteso come pena non esisteva infatti. La pena, quando sarebbe arrivata, avrebbe deciso della vita, dell’integrità fisica, del denaro. Il tutto in un contesto di spettacolarità e di crudeltà.
L’edificio che adesso ospita gli uffici del comune fino agli anni cinquanta del Novecento conservava i caratteri originari dell’impianto, costruito probabilmente nel seicento. Lì era la sede dei Signori feudali; non aveva tuttavia nulla di solenne né di architettonicamente apprezzabile. Mancava, non sussisteva perchè ancora non realizzato, quello che attualmente è l’ultimo piano, dove sono ospitati gli uffici demografici e l’aula consiliare. L’edificio non si distingueva per nulla dai fabbricati adiacenti. Segno che i Signori, lì, non ci vennero a vivere mai, nemmeno per trascorrervi una settimana; esso serviva quindi ai suoi rappresentanti, che in sua vece, gestivano la vita pubblica della comunità, dal secreto al maestro notaro ai giurati, al capitano, figure queste che andremo interpretando nelle loro funzioni con appositi ‘post’.
L’ingresso dell’edificio era situato, originaria -mente, sia sulla via Scanderbergh, dove una larga scalinata avviava l’ascesa pressappoco dall’attuale porta d’ingresso dell’ex biblioteca e si fermava dove oggi si trova l’ufficio del sindaco, sia in corrispondenza di quello che oggi è divenuto il principale accesso al palazzo (via Municipio); da qui si doveva comunque scendere al livello inferiore poiché, lo abbiamo già detto, non esisteva l’attuale ultimo piano.
Nulla resta oggi del vecchio impianto dell’edificio, che è stato peraltro ampliato con una nuova ala nel corso degli anni settanta del secolo scorso. L’area interessata da quest’ultimo intervento prima di allora era libera ed ospitava un verde giardinetto privato.
Entrando dalla via Scanderbergh nei locali della ex biblioteca balza subito agli occhi un locale, un vano buio, oscuro ed umido. Non ci vuole molto a capire che lì era ospitata la tristemente nota fossa sacrilega, la cella buia ed isolata che caratterizzava il destino di chiunque, nel regime feudale, non avesse rispettato l’Autorità del Signore feudale. Sì, la concezione medievale della società era essenzialmente teocratica; “il principio di autorità veniva a costituire un tessuto connettivo continuo che legava tra loro tutti gli aspetti del mondo contadino feudale e che aveva alla propria base il rapporto di subordinazione diretta, giuridica-politica-militare-religiosa, del lavoratore al suo Signore” dice Dario Meloni nelle sue “Istituzioni di controllo sociale …” a pag. 295. In quest’ottica tutti i signori feudali dell'isola rivendicavano a sé, ed ottennero tutti anche comprandolo, l’esercizio del potere giudiziario all’interno della propria baronia.
Il diritto di amministrare la giustizia sui propri sudditi era, in termini politici e sociali, il privilegio sicuramente più rilevante di cui godeva la maggior parte dei feudatari siciliani. Arrivava a loro dalla concessione regia, che menzionava la clausola nei documenti dell’investitura, del mero e misto imperio: il misto imperio era la ‘bassa giustizia’ (possibilità di comminare lievi pene corporali previo arresto), il merio impero consisteva nella potestà di punire i ‘facinorosi’ con la morte, l’esilio e la mutilazione.
I Cardona prima (che la ottennero dopo che i nuovi arrivati arbreshe ebbero sottoscritto i capitoli che regolavano il loro insediamento) ed i Colonna dopo con l’esercizio della giurisdizione civile e criminale esercitarono nello Stato di la Cuntissa un forte controllo sul territorio e sulla popolazione. Non lo fecero direttamente perché essi verosimilmente non misero mai piede in questa loro baronia, ma mediante rappresentanti che in parte venivano dalla sede della contea, Calatafimi prima e Chiusa Sclafani dopo, ed in parte erano locali. Ma di questa suddivisione ci occuperemo in altra occasione.
In quel tempo il metodo di indagine era segreto, si indagava nel silenzio per scoprire la verità. Lo scopo del processo inquisitorio era quello di ottenere la confessione del reo e non importa con quali mezzi. Da qui a legittimare l’uso della tortura per estorcere ammissioni di colpa il passo fu breve. Ogni crimine non veniva valutato in base alla sua gravità, quanto in base alla persona che lo aveva commesso; questa sarebbe stata infatti trattata con maggiore severità se fosse stata di “basso lignaggio” o delle classi inferiori. Tramite la ‘penance’, o il perdono ecclesiastico, era possibile commutare la pena corporale o addirittura la morte in una condanna alternativa. Esisteva, dunque, un principio di differenziazione del trattamento. Chi poteva pagare, o aveva conoscenze altolocate, fruiva di una pena incruenta, mediata dall’assoluzione o dal denaro; chi non possedeva privilegi, viceversa, soccombeva. Nel periodo dei Cardona e dei Colonna, signori del nostro territorio, nasce in embrione, nell'isola, la cultura odierna del clientelismo, dell’amicizia finalizzata, ed anche della mafia. Dal XV secolo la pena di morte e di mutilazione divennero misure più comuni rispetto ad altre e venivano applicate ogni volta che l’imputato fosse ritenuto un pericolo per la pace sociale; con questo termine si comprendevano non solo i delinquenti ma anche chi pensasse ad un mondo diverso e migliore. Il carcere nel periodo che stiamo esaminando non era comunque una punizione; lì, nelle celle, come in quella che ritroviamo nel palazzo municipale, la prigionia era luogo di reclusione in attesa del processo, ove gli accusati erano costretti a passare parecchi mesi o anni prima di vedere il loro caso risolto. Il carcere inteso come pena non esisteva infatti. La pena, quando sarebbe arrivata, avrebbe deciso della vita, dell’integrità fisica, del denaro. Il tutto in un contesto di spettacolarità e di crudeltà.
Non abbiamo notizia, o meglio documentazione, su quante persone siano state ospiti della "cella" del nostro palazzo signorile, tuttavia quel locale avrà sicuramente assolto alla funzione per la quale è stata costruita.
La cella che risulta in buono stato di conservazione nel palazzo municipale, se fosse rinvenuta in Franciao in Germania sarebbe luogo di attrazione e di interesse per studiosi e per turismo culturale. A Contessa Entellina, invece, pochi ne conoscono l’esistenza.
Il Contessioto
La cella che risulta in buono stato di conservazione nel palazzo municipale, se fosse rinvenuta in Franciao in Germania sarebbe luogo di attrazione e di interesse per studiosi e per turismo culturale. A Contessa Entellina, invece, pochi ne conoscono l’esistenza.
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