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APPENDICE DOCUMENTARIA Pubblichiamo in appendice il memoriale (38.). con l’appello degli “Italo greci Albanesi di Calabria” sottoscritto da Stefano Rodotà, indirizzata sempre a papa Clemente XI, nella versione originale in lingua greca con la versione tradotta in lingua italiana.
1
MEMORIALE, parte prima (folia: 28v, 28r, 29v, 30v)
Alla Santità di N[ost]ro Sig[no]re Papa Clemente XI
Per Gl’Italo-greci Albanesi di Calabria
Beatissimo Padre,
Gli Alunni Italo-Albanesi di questo Collegio greco di S. Athanasio prostrati à piedi della
Santità Vostra humilmente gl’ispongono le correnti necessità spirituali delle loro Chiese nazionali, opportunamente cercando il sollievo in tempo che felicemente su l’Apostolico trono
siede la Santità Vostra, che con singolar carità in più contingenze hà mostrato viscere veramente di Padre verso la misera nazione. È ben notissimo alla S.[antità] Sua trovarsi nella
Calabria dà Venticinque terre sotto la giurisdizione di più Vescovi Latini contigui trà sé,
come è quello di Bisignano, Rossano, Cassano, et Anglona, dà quali tutto che vengano con
zelo Apostolico rimirati come loro Figli, e figli obedienti, li medesimi tutto che volentierosi
di fargli ogni bene non possono, attesa la diversità del Rito, in cui per ben regolarli bisognerebbe che havessero tanto di capitale in greco, quanto ne hanno nel latino; Il che non
hanno. Quindi è che nella Santa Visita, che fanno puntualmente ogn’anno, d’altro non si
tratta che di quel Materiale, che è comune alle Chiese latine. Bisognerebbe secondo le Bolle,
et Instruzioni di più Sommi Pontefici, e particolarmente di Leone X e Clemente VII, che
havessero per ogni Diocesi un Vicario: Ma dove trovare tanti Soggetti, quante sono le Diocesi? L’unico dunque non men forte, che stabile rimedio, e per tale conosciuto, e stimato necessario dà più zelanti latini pratici di quei Paesi vi è un Vescovo come quello di Cimarra,
non però Orientale, perché di questi ne vivono quei buoni cattolici molto sospettosi; ma
Italo greco Savio Zelante, il quale come suffraganeo de Sopradetti Vescovi potesse visitare
annualmente le sopradette Chiese, e di conferire gli ordini usque ad Presbyteratum, con tutta quella Subordinazione à detti Vescovi, che stimerà la Santità Vostra. In questa maniera
saranno ben regolati quei miseri ignoranti nella celebrazione delli Divini Ufficij, nelle sacre
Cerimonie, ed in tutto il resto dell’Economia Ecclesiastica, in cui si vede tale, e tanta diversità, che siccome riferiscono Alunni del Collegio greco applicati à quella missione, non
v’è un Paese, che s’accordi con l’altro, ma in tutto quot capita tot sententiae: E poi saranno
liberati quei Miseri dalla gran vessazione di portarsi con tanto pericolo, e dispendio ò in
Roma, ò in altri più lontani Paesi, per ordinarsi, et il Vescovo di S.Atanasio dà un grave
scrupolo, venendo forzato d’ordinarli tutto che ignoranti ut octo per pura compassione.
Tanto basterà à muovere le viscere paterne della Santità Vostra, acciò Dio resti ben servito,
e noi consolati in disinganno ancora degl’Orientali, che si stimano dà Roma odiati quando
questa aborrisce non essi, ma i loro errori. E di tanto Supplicano à V.[ostra] B.[eatitudine]
li sudetti Alunni àa nome di tutta la loro natione. Che della grazia, ut Deus.
2
MEMORIALE, parte seconda (folia: 31r e 31v)
Μακαριώτατε Πάτερ
Οἱ τοῦ Αρβανιτικοῦ γένους, ἄλλωστε Ιταλο=γραικοὶ, οἱ ἐν Καλαβρίᾳ διάγοντες
προσπίπτοντες | τοῖς ἱερωτάτοις ποσὶ, καὶ οἰκτιρμοῖς τῆς Μακαριότητόσσου, ταπεινοφρόνως, ὡς δεῖ, προτί|θενται τῇ σῇ θεοπνεύστῳ ἀγάπῃ τὰς πνευματικὰς
αὐτῶν χρείας, καὶ ἀνάγκας. Τὶ | γάρπω κρεωδέστερον, ἀναγκαιότερόντε ἤ ποιμένα
προβάτοις; τὶ τοῦτο; οὐ ποιμένες | 5
οὐκ ἐπισκόποι ὁ Βισινιανικός τε, καὶ Κασσανικὸς, ὁ τε Ροσσανῶν, καὶ Αγγλονίτης, ὑφ’ὧν οἱ Αρβα|νίται; Ναὶ Πατὲρ Αγιε, καὶ
μάλιστα γρηγορώτατοι. Αλλά τοῖς μὴν λατινοφρονοῦσιν | ἐπικουρότατοι, καὶ χρησιμώτατοι, τοῖς δὲ κατὰ την ἀνατολικὴν βιοῦσι θρησκείαν ἀ|δυνάτως ἔχουσιν εἰς
κυβέρνησιν. Εἰς ποίας γὰρ νομῶν ἐξάξουσιν οἱ μηδεμίαν τού|των ἔχοντες οὐτε
γνῶσιν οὐτε πράξιν; Πῶς ἐπισκοποῦσι τὰ ἡμέτερα, τὰ ἱερὰ, καὶ | 10 τοὺς ἱερεῖς, τὰ
τε θεῖα μυστήρια, καὶ εὐχολόγια, τὰς τε ἄλλας βίβλους; ἐπιπλεῖστον θεῷ | κινούμενοι ζήλῳ ἐπικροτοῦσι συνόδους. Αλλὰ φερέτωσαν εἰς μέσον, καὶ ἴδωμεν εἰ
λόγον | εἰ ῥῆμα, εἰ συλλαβὴ περὶ τὰ ἔθη ἡμῶν, τελετὰς τε, καὶ ἱεροσύνας. Φεῦ τῆς
ἡμετέρας | τύχης! Τὶ δήποτε ὤ θεία, καὶ ἱερὰ κεφαλὴ μέγα καύχημα τοῦ ἡμετέρου
γένους, τὶ | δήποτε ἐγενήθημεν τῆς ποιμαντικῆς ἔξω ἐπικουρίας; Τίνος ἕνεκεν ἀκέφαλοι, ἀ|15κυβέρνητοι; Πῶς μὴ κλαύσειεν ὁ σὸς Αθανάσιος, πῶς μὴ καταβάλοιντο
θρήκους, καὶ | δάκρυα, οἱ θεσπέσιοι πατέρες, ὁ χρυσοῦς τὴν γλῶτταν, καὶ τιμιώτερος τὴν ἀγάπην | Χρυσόστομος, κακεῖνο τὸ βασίλειον ἱεράτευμα μέγας βασίλειος, ὁτε φίλος αὐτοῦ | θεῖος Γρηγ(όριος) καθορῶντες; Καὶ κατοπτεύοντες οὕτω
πεπατημένα τὰ ἐξ’αὐτῶν, καὶ ἡμᾶς | πρὸ καιροῦ μόνον οὐχὶ εἰς ἐξότερον ἐξερριμένους σκότος; καὶ γὰρ πῶς μή, οὐκ ὄντος |20 ἡμῖν ἄρχοντος, οὔτε ἱερατείας; Διὸ
πρὸς σὲ, ὤ ἐλπὶς τῆς λυτρώσεως ἡμῶν ἤραμεν | τοὺς ὀφθαλμοὺς, πρός τε τὰ τὰ σὰ, ὅθεν ἡμῖν ἤξει ἡ βοήθεια τῷ σῷ ὁδηγηθέντες | καλῷ ἀστέρι. Δὸς τοίνην τὸ
φῶς πρὸς τὰ θεῖα, δὸς χεῖρα σώζουσαν μή|10 ὁδὸν πορευομένων. Aλλὰ φοβητέον,
ὡς δοκεῖ, καὶ μάλιστα πάντων τοῖς τὰ ἡμέτερα | ἀμαθῶς ἐπισκοποῦσιν ἐπαπειλοῦντος φοβερὰ, καὶ τρομερῶς τοῦ θεοῦ. ἰδού ἐγὼ | ἐπὶ τοὺς ποιμένας, καὶ ἐκξετήσω τὰ προβατάμου ἐκ τῶν χειρῶν αὐτῶν | καὶ πολλὰ ἔτερα ὅμοια τούτοις, ἄτινα
Πάτερ Ἅγιε ἱκανῶς ἔχοντα καὶ | λὶθους ῥῆξαι, κινήσει τάχαπου τοὺς ἡμετὲρους
ἐπισκόπους εἰς συναίσθησιν τοῦ | 15 ἐρωτηθέντας ὑπὸ τῆς Μακαρρότητος σου
ὑποχωρῆσαι τῷ δικαίῳ, καὶ τῷ | πρέποντι, ὅπερ δὴ ζητοῦμεν ἵνα πνευματικῶς παρακληθῶμεν, καθ’ἑκάστην | βοῶντες ἐξ ὅλης τῆς καρδίας. Κλήμεντι τῷ ἑνδεκάτῳ
| πατρὶ μεγίστῳ ἔτη πολλὰ, καὶ ζωὴ αἰώνια. |
Στέφανος ὁ Ροδοτᾶς
ἐποίησε
TRADUZIONE:
O Padre Beatissimo
Quelli della stirpe albanese, specialmente gli Italo-greci, quelli che risiedono in Calabria,
prostrandosi ai tuoi santissimi piedi, e alla misericordia della tua beatitudine, umilmente,
come è necessario, espongono alla tua carità ispirata da Dio i loro bisogni e necessità spirituali. Che cosa, infatti, può essere più indispensabile, più necessario che il pastore alle pecore?
Che cosa dunque? Non sono pastori, non sono custodi, quelli di Bisignano, di Cassano, di
Rossano e di Anglona, sotto la cui cura stanno gli Albanesi? Sì, Padre santo, e soprattutto
sono custodi vigilissimi. Tuttavia, sono i migliori e più servizievoli protettori per coloro che
comprendono il latino, mentre sono incapaci di guidare coloro che vivono secondo il culto
orientale. Infatti, al rispetto di quali leggi potranno condurre coloro che non hanno nessuna
contezza o esperienza delle stesse? Come possono proteggere le nostre tradizioni, i nostri riti
sacri, i nostri ministri di Dio, i nostri misteri divini, i nostri libri di preghiere e gli altri
libri? Per la massima parte, mossi dall’ardore per Dio, fanno risuonare le assemblee. Ma
portino ciò in pubblico e vediamo se riescono a fare un discorso, a dire una parola, se hanno
comprensione delle nostre tradizioni, dei nostri riti, della nostra sacralità. Ahimè, la nostra
sorte! Perché mai, o divina e santa guida, grande vanto della nostra stirpe, perché siamo
nati (o passati?) all’infuori dalla protezione pastorale? Per quale motivo siamo privi di un
capo spirituale, di una guida? Come potrebbe non piangere il tuo Atanasio, come potrebbero
non lasciarsi andare a lamenti e pianti i padri santi, il Crisostomo dalla lingua dorata,
onoratissimo per la carità, e Basilio, grande nel sacerdozio regale, e santo Gregorio a te caro,
guardando dall’alto ed osservando attentamente così calpestate le loro prescrizioni e vedendo
noi così isolati e quasi scagliati prima del tempo nell’oscurità più profonda? E infatti, potrebbe essere altrimenti, non essendoci uno che ci guidi né un ufficio sacerdotale? Perciò, o
speranza della nostra redenzione, verso di te abbiamo innalzato gli occhi, verso di te e verso
le tue altezze spirituali, cosicché arrivi soccorso a noi, che siamo guidati dal tuo bell’astro.
Dona dunque la luce verso le cose divine, dona la mano salvifica procedendo secondo la
strada. Ma bisogna temere, come sembra, e soprattutto per quelli tra tutti che senza sapere
sovrintendono sulle nostre cose, poiché Dio minaccia terribilmente cose spaventose. Ecco, io
ai pastori reclamerò le mie pecore dalle loro mani, e tante altre simili a queste, ognuna che
sia capace, Padre santo, anche solo a spaccare le pietre, indurranno forse i nostri vescovi,
una volta, interrogati dalla Vostra Beatitudine, alla consapevolezza di cedere alla giustizia
e a ciò che è conveniente, che è proprio ciò a cui aspiriamo per essere confortati spiritualmente, pregando ogni giorno con tutto il cuore. Possa Clemente Undicesimo illustrissimo
Padre stare in salute per molti anni ancora e di godere di una vita eterna.
Stefano Rodotà
scrisse
MATTEO MANDALÀ matteo.mandala@unipa.it IL DE ALBANENSIUM DI P. GIORGIO GUZZETTA
E LE ORIGINI DELLA COSTRUZIONE D’IDENTITÀ
IN AMBITO ARBËRESH
1. Il manoscritto del De Albanensium Italiæ rite excolendis
P. Giorgio Guzzetta scrisse un discreto numero di lavori, dei quali soltanto uno
venne alla luce mentre era ancora in vita, l’Apologia istorica (1) [vedi fig. 1],
mentre gli altri hanno conosciuto postumi l’onore del torchio. Tra questi
ultimi, oltre ad alcuni documenti privati che costituiscono il nutrito carteggio pervenuto, va annoverata l’opera storica intitolata Diritto che hanno li serenissimi Re di
Sicilia sopra dell’Albania, onde ben possano intitolarsi ancora Re, e despoti, cioè Signori
di essa, pubblicata a cura di Giovanni D’Angelo, che la inserì integralmente nell’appendice alla sua biografia di Guzzetta (2). Molti altri documenti, invece, sono rimasti
manoscritti e inediti e, tra questi, gran parte del citato ricco e prezioso carteggio, numerosi memoriali e diverse suppliche, le scritture private, tra le quali il testamento,
nonché la seconda sua opera “maggiore”, il De Albanensium Italiæ rite excolendis, che
costituisce l’oggetto di questo saggio.
L’opera in questione per la prima
volta è stata pubblicata in italiano nel
2007 (3) e benché il suo testo fosse stato
consultato e studiato da alcuni allievi
di Guzzetta, per oltre tre secoli si è ritenuto che il manoscritto fosse andato
definitivamente perduto (4). Il suo felice
ritrovamento presso l’Archivio della
Cattedrale di San Demetrio dell’Eparchia di Piana degli Albanesi ha contribuito, come si dirà, a ricostruire il
complesso processo di costruzione
d’identità presso le comunità siculo-albanesi, di cui p. Giorgio Guzzetta
fu, oltre che l’infaticabile promotore,
anche l’ispiratore principale.
Il manoscritto si compone di due
elementi cartacei separati i quali documentano due diverse fasi della storia redazionale. Il primo elemento,
che denomineremo ms. α, ha un formato di cm. 31 × 21. Consta di tre
fascicoli ( 112, 2 – 310) e conta 32 ff.
complessivi, privi di numerazione,
dei quali sono bianchi i ff. 1v, 22v e gli ultimi quattro – 29(r-v), 30(r-v), 31(r-v) e
32(r-v). Il testo, scritto su due colonne, la prima per le note e la seconda per il testo,
documenta l’intervento di più mani e l’uso di almeno due diversi inchiostri: il primo
marrone e l’altro nero. Nel f. 28v si legge il colofone: .
Mancano altri riferimenti cronologici utili alla datazione del ms. e alla ricostruzione
della sua storia redazionale. Non sono numerose le correzioni, ciò che fa ritenere che
il testo sia una redazione copiata da un precedente abbozzo, probabilmente andato perduto. Tra gli interventi correttivi meritano di essere segnalati quelli rilevabili nei ff.
13r-22r, che contengono il Caput quartum dell’opera. Ciò spiega la ragione del secondo
elemento ms., che denomineremo β, il quale, non a caso riportando nel f. 1 esplicitamente l’annotazione , è una redazione ripulita delle cassature presenti
nel ms. α. Il ms. β ha un formato di cm. 31 × 21 e conta 10 ff. dei quali l’ultima, f.
10v, è bianca. Manca la numerazione dei fogli, ma nel f. 1r si legge il n. <205>, ciò
che lascia ritenere che si tratti di un elemento cartaceo proveniente da un volume miscellaneo che lo conteneva e che, con ogni probabilità, al pari di molti altri custoditi
nel Seminario Greco-Albanese di Palermo, è stato smembrato da anonimi.
L’opera, interamente composta in latino, è giunta incompleta in una redazione
manoscritta comprendente il solo primo libro, il cui titolo esteso, riportato nel f. 1r
[vedi fig. 2], è De Albanensium Italiæ rite excolendis ut sibi totique S. Ecclesiæ prosint
(“L’osservanza del rito presso gli Albanesi d’Italia perché giovino a se stessi e a tutta
la Chiesa”). Stando all’idea operis che, occupa la parte inferiore del f. 1r immediatamente dopo il titolo, il De Albanensium avrebbe dovuto comprendere altri due libri,
i cui argomenti furono sintetizzati così da Guzzetta:
«Il secondo libro tratterà dei riti greci allo scopo di promuovere i loro culti presso
gli Albanesi; questo libro farà conoscere, attraverso i vari capitoli, l’antichità, la corrispondenza con i riti della chiesa latina, la dignità e i vantaggi di varia natura che
derivano alla Santa Chiesa dall’osservanza di essi, che sono importanti per illuminare
gli scismatici; e a svolgere questo ruolo sono straordinariamente abili gli albanesi
d’Italia. Il terzo libro indicherà le norme secondo le quali gli italo-albanesi praticano
il rito: la Messa, l’ufficio divino, i digiuni, l’uso dei Testi Sacri e altri riti propri dei
Greci, certamente in modo erudito e secondo i principi della Teologia Morale».
Allo stato attuale delle nostre conoscenze non sappiamo se Guzzetta fosse riuscito
a completare il suo lavoro oppure se, com’è molto probabile e come lascia supporre lo
stato in cui versa il manoscritto rinvenuto, si fosse fermato alla redazione parziale e incompleta del primo libro. Non più certa è la datazione della stesura giacché il manoscritto, come si è detto, non contiene riferimenti utili alla determinazione di eventuali
limiti cronologici, a parte quelli, piuttosto ampi, desumibili dalla data di morte dell’autore (1756) e dai riferimenti contenuti nelle opere di Paolo Maria Parrino (5) [vedi
fig. 3], e del vescovo di Durazzo, il missionario basiliano Giuseppe Schirò (6). Pur citandola indirettamente, i due studiosi siculo-arbëreshë alludevano alla medesima
“dissertazione” di Guzzetta come dimostrano i riferimenti espliciti ai contenuti trattati
nel De Albanensium.
Entrambe le testimonianze rendono plausibile l’ipotesi che la stesura fosse stata
avviata ben prima del 1735 e, quindi, prima della stessa fondazione del Seminario, e
che di certo avesse raggiunto un’avanzata fase redazionale quando il 26 maggio 1742
Benedetto XIV promulgò la sua Bolla Etsi pastoralis. Questo secondo elemento cronologico, pur non essendo decisivo per la determinazione del periodo ante quem, che
segna l’interruzione della stesura dei due libri mancanti, lo è per ciò che concerne le
novità canoniche introdotte dal Papa Lambertini: l’Etsi pastoralis, infatti, poneva numerosi problemi inediti che non solo si aggiungevano, aggravandola decisamente, la
trattazione delle questioni rituali che Guzzetta decise di affrontare nei due libri mancanti, ma richiedevano un più serrato confronto con la letteratura specialistica in
materia liturgica, sacramentale e, più in generale, teologica. Compito questo che
Guzzetta non poteva portare a termine, considerando i suoi acuti problemi fisici (era
ormai cieco), i gravosi impegni amministrativi del Seminario che tanto lo assorbivano,
nonché l’obbiettiva difficoltà che sarebbe scaturita da un progetto così ampio e complesso. Il compito di Guzzetta, tuttavia, non rimase disatteso, giacché fu continuato
e portato a definizione dal suo prediletto allievo Paolo Maria Parrino.
Nell’unico “libro” pervenuto del De Albanensium Guzzetta tratta «degli Albanesi
d’Italia» (“De Albanensibus Italiae”), suddividendo la materia nei seguenti sei capitoli:
«1) Il numero degli Albanesi d’Italia e l’opportunità di scrivere su di essi; 2) L’origine
e i costumi; 3) La lingua locale (il vernacolo); 4) La fede; 5) La pietà; 6) I riti greci e
il motivo per cui gli Albanesi non siano rispettati». In realtà se si considera la reale
successione di capitoli, si noteranno discrepanze rispetto all’idea operis e, precisamente,
la modifica degli ultimi due capitoli che, in origine dedicati, rispettivamente, alla
“pietà” e ai riti, vennero successivamente riuniti nel cap. V del manoscritto recante il
titolo piuttosto illuminante di «Albanensium Fides a Photiano Schismate vindicatur».
2. Un nuovo metodo di indagine
Nel primo capitolo Guzzetta ripercorre sinteticamente la storia della diaspora
albanese successiva all’invasione turca dei Balcani e, dopo aver menzionato e lodato la
figura di Giorgio Kastriota Scanderbeg – «il principe cristiano di tutta l’Albania» –, si
sofferma a illustrare le colonie siculo-albanesi, non dimenticandosi di annotare che esse
costituivano solo una parte di quelle che furono accolte, suppergiù nello stesso periodo,
in Calabria e in Puglia. Riferendosi al periodo della fondazione delle quattro più antiche
comunità siculo-albanesi, Guzzetta polemizza con lo storico siciliano Tommaso Fazzello, che le aveva storicamente collocate in un periodo immediatamente successivo alla
caduta di Costantinopoli (28 maggio 1453) e, quindi, molto tempo prima delle guerre
combattute da Scanderbeg. L’errore rilevato da Guzzetta nell’opera dello storico saccense,
in verità, servì per effettuare un tentativo di recuperare il significato “ideologico” della
diaspora siculo-albanese e, più in generale, di quella arbëreshe, preferendo giustificarla,
non sulla base delle ragioni sociali ed economiche che concorsero a provocarla, bensì
avvalendosi di quelle che accentuavano a dismisura la resistenza militare opposta al dominatore “infedele”. Per il fatto che la più antica comunità siculo-albanese, Contessa
Entellina, fosse stata fondata «a partire nel 1467, anno in cui morì Scanderbeg e fino alla
totale espugnazione di Durazzo», episodio oggi ritenuto un falso storico, lasciava ritenere
a Guzzetta che gli albanesi abbandonarono la loro patria inseguendo il loro desiderio di
salvare la propria identità religiosa e culturale e la loro fisionomia nazionale.
Il concetto, in verità, è appena abbozzato in questo passaggio del primo libro, ma
Guzzetta non nutriva dubbi circa il valore “ideologico” della diaspora quattrocentesca.
Riferendosi alle datazioni riportate nei capitoli di fondazione delle comunità albanesi
di Sicilia, e in particolare a quella posta in calce agli atti di fondazione di Piana degli
Albanesi (1488), concludeva che queste comunità sorsero soltanto dopo la morte del
loro illustre condottiero Scanderbeg e che la diaspora non avvenne nello stesso periodo
né massicciamente, bensì «gradatamente», con singoli «gruppi» che emigravano in Italia
man mano che lo permettevano «il pericolo della guerra e la possibilità di fuga».
L’impostazione data alla ricostruzione storiografica dell’emigrazione albanese in
Italia e il significato a essa attribuita costituivano le coordinate ideologiche dell’opera
di Guzzetta, il cui sforzo mirava a esaltare la «…misericordia di Dio Onnipotente, la
quale, mentre tutto l’Oriente era oppresso dal giogo dei maomettani, liberò dalla loro prigionia soltanto gli albanesi e li accolse nella libertà dei figli della santa Romana Chiesa e,
con una certa particolare previdenza dispose che essi, stabilitisi in Italia, dopo quasi tre
secoli, si conservassero ancora immutati nei costumi patri e nella lingua, cosa che con il
senno umano non avrei creduto che potesse accadere, anche se incontravano resistenza nei
governatori locali e nella quotidiana, seppur familiarissima, convivenza con gente straniera.
Per la qualcosa ho pensato che avrei obbedito alla troppo grande gloria di Dio misericordioso
nell’affrontare questo lavoro sull’osservanza del rito da parte degli albanesi d’Italia per
esercitare la mia speranza generata dalla preziosissima volontà di Dio, e perciò vorrei stimolare i Vescovi alla cui cura sono stati affidati, i Principi sotto il cui dominio vivono, e
la Santissima Chiesa di Roma, madre e maestra di tutti, affinché non solo li rispettino,
ma ne rispettino il rito, esponendo e tramandando le cause, le motivazioni, le tradizioni,
i mezzi di questa realtà in modo che queste terre di Alba siano capaci di dare, in
qualunque tempo, ai loro coloni un grano sceltissimo come raccolto».
Per l’intelligenza di questo passo occorre tenere presenti il contesto storico nel
quale scriveva Guzzetta e, in particolare, le preoccupazioni che si insinuavano nella comunità albanese dopo l’emanazione della Bolla Etsi pastoralis con la quale Benedetto
XIV tentò di disciplinare in senso restrittivo il ruolo del rito greco-bizantino al fine
di ridurre i margini di un confronto con la cultura religiosa scismatica alimentata
dalla Chiesa greco-orientale e ortodossa. Per il fatto che gli Arbëreshë erano cattolici
ma professanti il rito orientale, la Santa Sede nutriva dubbi e perplessità sulla fedele
«osservanza del rito presso gli Albanesi d’Italia», e ciò rese impellente la stesura di
un’opera che apportasse un contributo di chiarezza sulla loro identità religiosa, storica,
linguistica, antropologica, insomma sulla loro identità “nazionale”.
La conferma di questa finalità si riscontra già nel secondo capitolo e, precisamente,
nell’apodittica affermazione con la quale si intendeva «confutare la diffusa opinione di
coloro che confondono questa gente [albanese] con quella greca». Sarcastico e piuttosto
reciso fu il giudizio di Guzzetta, che senza mezzi termini sanzionò che «gli Albanesi
non sono Greci anche se hanno in comune con i Greci i santissimi riti ma non la lingua,
non l’amore per la vita non i comportamenti umani, infine non la stessa foggia dell’abito
che in particolare le donne albanesi mantengono fino a questo momento in territorio
italiano». Si trattava di differenze che Guzzetta non esitò a dichiarare ben radicate
negli «animi» dei due popoli a tal punto che se «grande è l’odio direi quasi, e naturale
l’antipatia degli Albanesi verso i Greci», nessun’altra argomentazione avrebbe ottenuto
la credibilità necessaria per perseverare nell’errore di confondere gli albanesi con i
greci. E a conferma di tale assunto a marcare ulteriormente la diversità tra greci e
albanesi erano le più intime inclinazioni sociali e antropologiche: gli albanesi erano
votati all’uso delle armi ed era perciò che essi «deridono la gente greca effeminata, parlano
male dei suoi costumi» e, inoltre, l’accusa secondo cui i discendenti di Scanderbeg erano
«rudi e illetterati» era falsa come testimonia «lo Stagirita (Aristotele), principe dei filosofi,
l’unico tra gli altri albanesi che si dedicarono alle lettere anche in mezzo alle armi».
La necessità di distinguere gli Albanesi dai Greci muoveva indubbiamente dal
fermo proposito di rigettare la superficialità con la quale in diversi ambienti ecclesiastici
si attribuiva agli albanesi un’appartenenza “nazionale” diversa da quella propria sulla
base della comune professione dei “santissimi riti” da parte albanese e greca. Giudicando
infondato e falso quest’assunto, Guzzetta elaborò un’innovativa visione dell’identità
albanese, prefigurando una metodologia di ricerca del tutto inedita e dai forti caratteri
moderni. Sarà quest’impostazione che darà i suoi migliori frutti grazie al lavoro dei
suoi allievi, i quali a partire dalla distinzione introdotta da Guzzetta, non solo spinsero
le loro indagini ben oltre la sfera religiosa, ma ne allargarono gli orizzonti sino a
includere i diversi disciplinari che trattavano direttamente gli elementi distintivi che,
già nella seconda metà del XVIII secolo, iniziavano a delimitare più rigorosamente il
moderno concetto di “nazione”. Mettendo sullo stesso piano della ricerca la moltitudine
di aspetti che conferivano una distinzione identitaria di un popolo, e cioè la lingua, il
senso della vita, il passato, la cultura, i comportamenti, i costumi, insomma il complesso universo antropologico, all’interno del Seminario greco-albanese di Palermo si sviluppò
una vera e propria scuola di pensiero che elaborò il paradigma “etnico” sul quale si sarebbe definitivamente infranto la “diffusa opinione di coloro” che sostenevano la supposta promiscuità tra “albanesi” e “greci”. Per la prima volta nella storia culturologica
albanese, dunque, per indubbio merito delle speculazioni abbozzate da Guzzetta,
venne inaugurato un nuovo approccio alla questione della identità degli albanesi, lo
stesso che nel De Albanensium trovò specifiche e illuminanti applicazioni grazie
all’analisi di due settori in cui il suo Autore diede prova di possedere una cultura piuttosto avanza per l’epoca in cui scriveva: la storia e la lingua degli albanesi.
3. Le “radici storiche” dell’identità albanese
Una volta distinta sul piano generale la facies del popolo albanese da quello greco,
Guzzetta rafforzò il nuovo concetto di ethnos elaborando un’interpretazione della
storia che gli permise di ricondurre la discendenza degli Albanesi a popoli diversi da
quello greco. L’assunto era alquanto originale giacché si ipotizzò un collegamento geneticamente con i Romani e, dunque, una derivazione dalla cultura occidentale. Secondo Guzzetta, infatti, «lo stesso nome Albano era una traccia non trascurabile della
discendenza latina e per ferma opinione degli storici gli albanesi trassero il nome e l’origine
dagli antichi Albani, nobili popoli d’Italia, discendenti da stirpe troiana (da cui si
potrebbe credere che sia derivato negli albanesi l’eccessivo odio contro di Greci)».
Lo sforzo di rintracciare le origini degli Albanesi spinge la ricerca di Guzzetta sino
negli anfratti piuttosto remoti della storia antica e giunge a setacciare le fitte e
complesse trame della mitologia classica e, in particolare, di quella che avvolge nel
mistero la storia balcanica. Citando Pompeo Trogo, Plinio il Vecchio e Agostino,
l’Autore delineò il primo tentativo di rintracciare nella cultura romana le prove della
duplice “consanguineità” che gli Albanesi vantavano, in primo luogo, con i Macedoni
e gli Epiroti, che fuggitivi da Troia, fondarono la Roma primitiva e, di conseguenza,
con gli eredi dell’Impero romano. Il filo rosso che congiungeva sul piano della storia
mitica gli antichi popoli della penisola balcanica con quelli albanesi non solo valeva
a dimostrazione dell’antichità dell’origine di quest’ultimi, ma non richiedeva di recare
ulteriori prove a dimostrazione del fatto che gli Albanesi non solo erano i diretti discendenti di Pirro, di Alessandro Magno, di Aristotele, ma che erano genti balcaniche
autoctone e che in quei territori erano giunte molto tempo prima dell’arrivo delle
stesse popolazioni di lingua e cultura greca.
La storia veniva piegata alla dimostrazione di un assunto – la distinzione tra Greci
e Albanesi – che, per quanto oggettivamente vero, tuttavia aveva bisogno di essere
confortato da fatti accertati dalla storiografia classica e coeva e, soprattutto, convalidati da quei caratteri “nazionali” che sarebbero dovuti sopravvivere negli epigoni; si
riteneva necessario insomma prestabilire e, ovviamente, dimostrare una continuità
storica che oggettivamente collegava gli antichi progenitori ai loro discendenti, e la
prova di questa continuità non poteva che essere ricavata dalla storia delle principali
città albanesi (quali Lisio, oggi Alessio; Epidauro, l’odierna Durazzo; Apollonia,
ovvero Valona; Nicopoli, divenuta Prevesa; infine di Scodra e di Drivasto) e delle
principali famiglie albanesi – dai Kastriota ai Topia, ai Basta (dal cui ceppo discendeva
il «celeberrimo Giorgio Basta, albanese di Calabria, maestro di campo generalissimo delle
falangi cesaree imperiali») –, i cui nomi Guzzetta rapidamente menzionò al fine di ribadire che «gli argomenti fin qui trattati dimostrano una cosa sola e cioè che gli Albanesi
appunto non sono greci in senso proprio, ma sicuramente latini».
Non è qui il caso di entrare nel merito delle singolari argomentazioni storiche, per
le quali va osservato, tuttavia, che pur basate su dati storicamente verosimili, quali ad
esempio la dominazione romana della Penisola Balcanica e il contatto che ne seguì tra
la civiltà e la lingua latine e le civiltà e le lingue balcaniche, erano piuttosto lontane
dal vero storico. Ciò che a Guzzetta importava era di stabilire il nesso di “consanguineità”
tra Albanesi e Romani, ovvero con la cultura occidentale, e per raggiungere il suo
scopo affronta il tema che avrebbe conferito ulteriore fascino intellettuale alla sua
opera. Non è un caso che, proprio nella conclusione cui perviene il secondo capitolo,
viene data un’anticipazione dell’argomento che informa il terzo, nel quale si discuterà
la complessa formazione della “lingua degli Albanesi” da un punto di vista non meno
innovativo: dimostrare con l’esistenza di connessioni tra latino e albanese l’esistenza
degli antichi e non estemporanei vincoli di parentela genetica con i Romani.
4. La “diversità” linguistica degli albanesi
Dopo aver chiarito che tra i vernacoli arbëreshë e l’albanese balcanico non vi era
differenza, talché «gli Italo-albanesi di casa nostra si intendono perfettamente con gli
Epiroti e con i Macedoni», Guzzetta tentò di «esporre con chiarezza gli aspetti più importanti» dell’albanese cominciando a precisare che essa «consta di suoni monosillabici che,
per lo più, sono tenuti uniti da una sola vocale inserita (chiusa) in un gran numero di consonanti. Perciò risulta troppo dura e giustamente inseribile tra le lingue barbare, propria
della natura (carattere) di un popolo più portato alla guerra che al foro». La lingua veniva
assunta a specchio del carattere antropologico del popolo che la parlava, riflesso di un
comportamento sociale e di un’attitudine speciale che permettevano di intravedere
negli Albanesi quei “bilingui” della penisola balcanica di cui parlò Strabone.
L’albanese, secondo Guzzetta, era una lingua «antichissima», «non diversamente che
la gente» che la parlava, e per dimostrare «che essa non sia recente o che sia nata invano dopo la sottomissione della Grecia da parte dei Macedoni», fece ricorso alle diverse fonti
che l’attestavano. La prima fonte adoperata fu quella toponomastica, che permise a
Guzzetta di dare vita all’interpretazione etimologica del nome della città simbolo della
dinastia macedone, Pella, che era «sicuramente albana» – l’albanese pelë, infatti, vale
‘giumenta’ – e che «in latino si traduce Equa, cioè cavalla». La dimostrazione dell’origine
del toponimo conferiva all’analisi di Guzzetta il pregio di abbozzare un metodo della
ricostruzione linguistica che, basandosi sulle fonti classiche e utilizzando i dati antropologici, permetteva di superare la difficoltà causata dall’assenza di documenti linguistici
antichi: era sufficiente, infatti, disporre di indizi come quello appena discusso, per
conferire all’albanese un’antichità ben più remota di quella che gli eruditi del passato
e, persino, quelli coevi di Guzzetta tendevano erroneamente a riconoscerle.
Un’altra fonte utile per studiare l’albanese e per comprenderne le peculiarità linguistiche era costituita dalle pubblicazioni in quella lingua, soprattutto dai libri liturgici
e catechetici, che Guzzetta dimostrò di averli consultati, persino in modo piuttosto
approfondito. E ciò si evince in particolar modo dal fatto che delinea una discussione,
invero molto critica, dei sistemi alfabetici e delle diverse modalità adottate dai vari
scrittori per risolvere il problema della rappresentazione grafica dei suoni dell’albanese.
Nell’ultimo paragrafo si tornerà più diffusamente sulle osservazioni dedicate alla “questione alfabetica”; vale però precisare che se è vero che lo scopo di Guzzetta consisteva
nell’indicare alcune soluzioni all’immediato problema del modo migliore di scrivere
l’albanese, è senz’altro preponderante dal punto di vista teoretico il duplice assunto
che, nel contempo, il Nostro intendeva dimostrare: da un lato, che questa lingua era
imparentata con il latino persino nell’uso del medesimo sistema di scrittura e, dall’altro,
che le convinzioni tanto di quella «moltitudine di persone» che «considera greca» la
lingua albanese, quanto quella di «alcuni» che «la immaginano illirica» – oggi diremmo
croato-slava –, infine quella di «altri» che la ritengono persino «turca», risultavano
profondamente errate, perché non tenevano conto dei dati storici che Guzzetta, come
si è notato, ricavava mediante le dimostrazioni di improbabili parentele con i Romani
e la loro lingua, il latino. Questo oggi possiamo asserire forti dei risultati assicurato sia
dal metodo della ricostruzione basata sulla linguistica comparata, scienza che si
affermerà soltanto verso la fine del XVIII secolo, sia dalla prospettiva di indagine che
il suo fondatore, K. Sandfeld, rese celebre con la definizione di “linguistica balcanica”.
In altri termini, il tentativo compiuto da Guzzetta di dare una definizione al problema relativo all’origine della lingua albanese («ricercare se sia propria della gente
albana, o se sia dipendente e prodotta da un’altra»), lo obbligava ad adottare un approccio
più “scientifico” e rigoroso: sgomberare il campo di indagine dai pregiudizi che ostacolavano la ricerca e affrontare la questione sulla base dei dati a disposizione e, precisamente, da quei dati che la documentazione storica offriva. Il principale di essi era
costituito dall’attestazione di Strabone circa l’esistenza di popoli balcanici “bilingui”, che permetteva a Guzzetta di dedurre che se «gli albanesi non hanno nulla in comune
con i greci sia nel modo di vivere sia nel modo di vestirsi», di conseguenza non potevano
condividere l’uso della stessa lingua. I “bilingui” di Strabone perciò non potevano
essere «che le popolazioni albanesi che abbiamo dato per scontato che siano emigrate dall’Italia verso quelle regioni; e non altra lingua che quella latina, diversa da quella macedonica». L’albanese era dunque una lingua diversa dalla greca, ma anche dalla macedonica
e dall’epirotica, una lingua che ebbe intensi contatti col latino, come «… fanno capire
le parole latine, quanto mai numerose, di cui l’odierna lingua albanese è ricca […]; infatti
è possibile credere che queste (voci), non ora per la prima volta, ma dai tempi antichi, passarono dall’uso della lingua latina nell’idioma e nella comunità albana e siano rimaste
presso questa gente, come ruderi dell’antica latinità, fino ai nostri tempi. […] Stando così
le cose, una sì grande varietà di voci, sia latine sia barbare di cui è ricca l’odierna lingua
vernacola degli albanesi, si andò componendo a tal punto che noi diciamo che essa non è
del tutto latina, ma un misto di latino e di macedonico antico».
Non è il caso di rimarcare i punti deboli della fantasiosa ricostruzione delle “emigrazioni” cui si fa cenno nel precedente brano; semmai è da segnalare il notevole
intuito con il quale Guzzetta non solo valorizzò l’apporto lessicale dell’elemento latino
in albanese, ma giunse a riconoscere all’albanese quel carattere di Mischsprache che soltanto verso la fine dell’Ottocento sarà individuato dal glottologo e albanologo austriaco
Gustav Meyer. Di non minore importanza è l’altra annotazione, che di seguito riportiamo per esteso, con la quale Guzzetta spiega il profilarsi di quella lingua che, originatasi
dal contatto tra latino e antico macedonico, diverrà la lingua degli Albanesi:
«Infatti pensiamo che le voci barbare del tipo Pella, dialetto, flessioni che abbiamo
visto che si trovano in essa, siano tutte proprie dell’antica lingua macedonica dal momento
che non sono uguali o simili a nessuna delle altre lingue sia Orientali sia Occidentali che
io ho conosciuto. E poiché lì le voci latine non seguono la lingua latina, ma il dialetto macedonico, più correttamente diremo che assolutamente (predomina) la lingua macedonica
con una notevole mescolanza di voci latine. Penso che ciò sia avvenuto in questo modo:
cioè, poiché gli antichi Albani fra l’Epiro e la Macedonia usavano due lingue, la macedonica
e la latina, con il passare del tempo queste due lingue dovettero mescolarsi tra loro in modo
tale che alla fine, essendo stata la latina come assorbita e adattata alla Macedonica che
esercitava l’egemonia su di essa, essi infine dalla fusione delle due, formarono una sola
lingua, mista dell’una e dell’altra, quale oggi la vediamo prosperare in Albania, cioè
l’Epiro, e dappertutto in Macedonia. Essendo stata tramandata, sulla base di tutte queste
interpretazioni, la storia dell’origine latina della primitiva lingua degli Albanesi non c’è
nessuno che non veda, che essa sia rafforzata abbastanza bene, dalla stessa lingua vernacola
degli Albanesi, per cui abbiamo qui assunto l’impegno di illustrarne le peculiarità. Il problema più difficile da superare è quello di convincere sulla etimologia delle voci latine, che
abbiamo detto si trovano nella lingua albanese. Ci sarà mai qualcuno che crederà a quanto abbiamo capito ascoltando, dal momento che neppure noi abbiamo udito le parole latine,
e forse per primi abbiamo destato l’attenzione su questa questione? Tutta la difficoltà di intendere ascoltando deve essere attribuita sia alla rozzezza della primitiva lingua latina
sia, particolarmente, alla scorretta pronuncia di questa gente. Perché gli albanesi, in particolare, nel pronunciare le parole latine, elidono tutte le vocali per cui le espressioni albane
sono generalmente monosillabiche, e se mantengono qualcuna di esse (vocali) o la emettono
con il naso o la trasformano in un altro suono; spesso troncano anche intere sillabe, specialmente quelle finali: tacciono alcune tra le consonanti trasformando altre in altre affini ad
esse o invertendole. Non diversamente dalla lingua italiana, gallica, spagnola, derivate
dalla lingua latina con simili varianti, con le quali talvolta la lingua albanese concorda
sicché dà l’impressione che contenga intere voci che si direbbero prese propriamente dagli
italici, dai galli, dagli spagnoli. Quindi non sarebbe difficile credere che queste genti, una
volta introdotte in Albania, come dicevamo, vi abbiano lasciato i segni del proprio idioma».
La formazione dell’albanese “moderno” dunque sarebbe stata l’immediata conseguenza dell’intenso e intimo contatto tra le due lingue, la latina e la “macedonica
antica”, con netta prevalenza di quest’ultima sulla prima: si trattava di un’ipotesi davvero
brillante e originale per quei tempi – non a caso Guzzetta dichiarava, non senza immodestia, di essere stato il primo a essere pervenuto a questa conclusione –, un’ipotesi che
peraltro non appare, nella sua sostanza concettuale, molto lontana da quelle formulate
in tempi più recenti da illustri studiosi della storia della lingua albanese. Ma la vera
novità è data dal fatto che Guzzetta non si limitò alla dichiarazione della sua ipotesi,
ma tentò di dimostrarla recando una serie di esempi che, a suo avviso, convaliderebbero
quei fenomeni fonetici (aferesi, nasalità, rotacismo, assimilazioni consonantiche, riduzioni
e troncamenti) che caratterizzarono il trattamento dei latinismi in albanese.
Il “prospetto” delle voci “latino-albane” [vedi fig. 4], va ben oltre la mera elencazione
di casuali assonanze o, com’era costume nelle ricerche linguistiche della fine del Seicento e la prima metà del Settecento, di irrilevanti somiglianze grafematiche. Fatti
salvi i casi di manifesta arbitrarietà interpretativa, il prospetto documenta e, persino,
spiega le origini storiche di alcuni fenomeni fonetici dell’albanese – tra questi menzioniamo il più noto: il rotacismo – che non solo mai erano stati rilevati precedentemente ma che non lo saranno per molti decenni ancora e, precisamente, sino quando
non sarà fondata la scienza glottologica. Non è da trascurare di notare come Guzzetta
abbia riportato, accanto a quelle tosche e arbëreshe, forme linguistiche gheghe – per
tutte, si cfr. ‘i nalt’ –, le quali non solo confermano esplicitamente la sua conoscenza delle fonti linguistiche ‘balcaniche’ di cui si era avvalso, ma anche la sua
“naturale” predisposizione ad assumere i tratti dialettali a sostegno delle sue ipotesi
etimologiche. Sarà sulla base di questa visione ‘sovradialettale’ che si innesterà il più
geniale degli allievi di Guzzetta, Nicolò Chetta, il quale tenterà per primo di elaborare
una lingua ‘letteraria’ fondata sui tre principali vernacoli albanesi.
5. La questione alfabetica
Nel precedente paragrafo si è menzionato l’interesse di Guzzetta per la “questione
alfabetica” – intesa nel duplice significato di prassi scrittoria e di problema “etimologico” – e si è rilevato il fatto che le sue osservazioni erano una conseguenza dell’assunto
secondo il quale l’albanese era imparentata con il latino persino nel modo di rappresentare graficamente i suoni. Collocandosi nella prospettiva di una ricerca a tutto
campo della storia della lingua albanese, il Nostro non poteva trascurare questo
aspetto decisivo e ciò in ragione del fatto che le soluzioni grafiche documentate nei
libri in albanese fino ad allora pubblicati non gli erano parse soddisfacenti. I testi in
albanese che Guzzetta ebbe modo di studiare erano quelli della tradizione ghega,
composti dai cosiddetti «moderni Macedoni», che «ben istruiti nelle lettere latine nel
Collegio di Propaganda fide, presero l’iniziativa di scrivere in questo idioma piissimi
libri ad uso della loro gente e di consegnarli ai nostri tempi nei caratteri tipografici noti».
Si trattava dei libri di Budi, di Bardhi e di Bogdani che Guzzetta, pur non citandoli
singolarmente, valutò tuttavia in modo negativo per il modo in cui erano stati scritti,
avendo i loro autori preferito «l’uso della scrittura gallicana», che obbligava a scrivere
«le parole in modo diverso da come le pronunciano», e avendo rinunciato a utilizzare
l’alfabeto greco che avrebbe potuto supplire adeguatamente il lacunoso sistema alfabetico latino. Da qui la necessità di alcune puntualizzazioni di ordine ortografico e
grammaticale – Guzzetta suggeriva, ad esempio, che «gli articoli siano scritti, che le
preposizioni siano anteposte ora ai nomi ora alle parole al posto della varietà dei casi e i
tempi devono esprimere il senso dei modi affinché le voci radicali non siano nascoste
molto e non siano soffocate dall’aggiunta di desinenze» –, e di ordine alfabetico, le stesse
che consentirono a Guzzetta di utilizzare sì l’alfabeto latino, ma di manifestare la sua
“irritazione” per l’atteggiamento di rifiuto aprioristico, che perciò non esitò a definire
“superstizioso”, dei succitati scrittori albanesi quando decisero di non usare le lettere
greche e quando, in alternativa, scelsero di introdurre «nel nuovo tipo di scrittura»
«nuovi caratteri e sostituirli a quelli greci».
Invero, una volta stabilita la diversità tra greco e albanese sul piano della rispettiva
origine, la eventuale mutazione di grafemi dall’alfabeto greco che si sarebbe resa necessaria
per colmare le lacune dell’alfabeto latino, da Guzzetta scelto per la “naturale” affinità di
quella lingua con l’albanese, non solo era legittimato sul piano dell’uso pratico, ma risultava persino più efficace e adeguato su quello della coerenza alfabetica. Guzzetta affrontò e risolse, dal suo punto di vista, il problema dell’alfabeto albanese predisponendo
un’analisi critica che gli permise di elaborare un originale sistema di scrittura interamente
basato su “una giustificazione razionale”. Senza entrare in minuziose discussioni sulle
soluzioni grafiche introdotte da Guzzetta, ci si limita a segnalare la scelta che ebbe straordinaria fortuna nei secoli a venire. Si tratta dei “due puntini” da cui prenderà forma grafica il grafema <ë> che oggi distingue la vocale muta nel moderno alfabeto albanese:
dopo essere stato adoperato nelle loro opere manoscritte dagli allievi e collaboratori di
Guzzetta (Paolo Maria Parrino, Giorgio Nicolò Brancato e Nicolò Chetta), la <ë> verrà
utilizzata da Giuseppe Crispi nelle sue pubblicazioni ottocentesche e, più tardi, assunta
da Girolamo De Rada nelle sue opere della maturità. Fu per rendere omaggio alla
figura del padre del romanticismo albanese che il Congresso di Monastir decise nel
1908 di includere quel grafema nell’attuale alfabeto moderno albanese.
La disamina del sistema di scrittura della lingua albanese e le soluzioni proposte
da Guzzetta costituiscono il primo tentativo di pervenire alla definizione di un
modello alfabetico omogeneo, coerente e razionale, e rappresentano una prova dell’elaborazione raggiunta nella prima metà del Settecento sulla tormentosa “questione
alfabetica”, che accompagnerà la storia della scripta albanese sino ai primi del Novecento. Il De Albanensium, da questo punto di vista, ha confermato ulteriormente il
valore delle speculazioni linguistiche effettuate nel Seminario greco-albanese di Palermo, rivelando l’origine di quell’alfabeto misto, latino-italiano e greco, che per
oltre un secolo sarebbe stato utilizzato dagli arbëreshë. E per avere una conferma di
ciò, è sufficiente una comparazione tra l’alfabeto coniato da Guzzetta con quelli attestati nelle opere de suoi epigoni.
Le intuizioni linguistiche di Guzzetta, come si è notato, discendevano da un’errata
concezione della cosiddetta “discendenza” degli albanesi, e ciò tuttavia non preclusero
la possibilità di pervenire ad alcuni risultati che oggi sono unanimemente condivisi e
accettati. Se soltanto avesse potuto coronare di successo, così come auspicava nelle
note conclusive al terzo capitolo, il suo proposito di «produrre, un giorno, un dizionario
completo di questo tipo con una grammatica albanese, con il quale più facilmente possiamo
condurre quasi per mano i bambini albani ad imparare la lingua latina e i missionari
latini la lingua albanese a favore delle regioni d’Albania», non soltanto avrebbe offerto
in dono una «cosa gradita agli studiosi dell’antichità e a coloro ai quali, assieme agli
uomini più eruditi, piace fare ricerche sulle genealogie delle lingue», ma ci avrebbe consegnato altri materiali importanti per la storia della lingua albanese del XVIII secolo e –
probabilmente – anche un quadro più ricco e completo delle sue osservazioni linguistiche, ciò che avrebbe esaltato ulteriormente il suo già notevole contributo alla
nascente albanologia. Quest’ultima non sarebbe nemmeno sorta con così largo anticipo
rispetto alla esaltante esperienza romantica se almeno quattro delle idee principali di
Guzzetta non avessero trovato, nel corso del Settecento e in Sicilia, immediata risonanza
nella nutrita schiera di qualificati intellettuali che seguirono le orme del Maestro.
In primo luogo, l’indagine sull’identità nazionale intesa come indagine “globale”
– secondo la felice definizione che Eqrem Çabej volle attribuire al metodo applicato
da Nicolò Chetta ma, che come si è potuto notare, ebbe in Guzzetta il suo primo e
originale teorico e in Paolo Mario Parrino il geniale e dotto continuatore – avrebbe dovuto comprendere la storia civile e religiosa degli albanesi e, nel contempo, allargarsi
allo studio e alla conoscenza delle fonti (storiche, documentarie, etno-storiche, antropologiche, linguistiche). A rendere compiuto questo disegno intervennero le opere,
giunteci manoscritte, dei citati Parrino e Chetta, le stesse alle quali dedicheremo due
capitoli – precisamente il terzo e il quinto – di questo libro. Lo scopo principale era
naturalmente quello di dimostrare che gli Albanesi appartenevano a quella cultura
occidentale che nel Settecento si identificava pienamente con il cattolicesimo di
Roma, piuttosto che con le incertezze dottrinarie degli eredi di Bisanzio (7) . Nell’ambito
di questa certezza “ideologica” trovavano adeguato spazio le gesta dei grandi uomini
che avevano contribuito a “costruire” l’identità nazionale albanese, a partire da Giorgio
Kastriota Skanderbeg, la cui figura, non a caso sin dall’opera di Guzzetta, viene gradualmente trasferita dal piano meramente storico e storiografico a quello della mitologia storica. La “costruzione d’identità”, operata da Guzzetta e continuata da Parrino
e da Chetta, costituirà l’avvio di quella “invenzione della tradizione” a partire dalla
quale gli albanesi della diaspora, prima, e quelli della madrepatria, poi, al pari dei
grandi popoli europei – è il caso di citare per tutti i sudditi della Corona inglese –
poterono rivendicare antichità e nobiltà di origini al fine di reclamare il loro diritto
“naturale” a consacrarsi a Nazione. Da questo assunto ideologico scaturirono quelle
mitologiche asserzioni intorno alle origini “macedoni” e/o “pelasgiche” degli albanesi,
della loro lingua, dei loro costumi e delle loro consuetudini, che tanta eco avrebbero
avuto nel secolo successivo.
In secondo luogo, la raccolta dei documenti scritti e orali relativi alle consuetudini
sociali e antropologiche, in particolare del patrimonio poetico popolare trasmesso
oralmente: anche se è soltanto un’ipotesi plausibile quella secondo cui Francesco
Avati abbia inviato la sua raccolta di canti tradizionali al fondatore del Seminario
Greco-Albanese di Palermo, forse perché a conoscenza delle ricerche promosse – per
dirla con le parole di Paolo Maria Parrino – da «colui che sembra essere nato quale
sostegno della nostra gente», è certo invece che fu merito di Nicolò Figlia, amico e collaboratore di Guzzetta, la prima raccolta pervenuta dei Canti della Vecchiaia, costituenti
105 il nucleo principale dei cosiddetti canti tradizionali e risalente al 1736-39 (cfr. il capitolo ottavo). L’avvio di una letteratura d’arte, tuttavia, non fu soltanto il risultato
immediato di questo impulso a favore del folklore letterario. Non è un caso se
saranno queste raccolte di poesia popolare ad alimentare nel corso del Settecento,
prima, e dell’Ottocento, poi, grazie alle numerose e non sempre valorizzate riproduzioni amanuensi di cui oggi scopriamo i testimoni più preziosi, quel gusto artistico e
quella fonte di ispirazione che durante il secolo del romanticismo costituirà il modello
estetico dei grandi romantici arbëreshë. Per questi ultimi, infatti, si trattò di una vera
e propria “rivelazione” la scoperta di una tradizione letteraria che dava sostegno e
forza al loro disegno di competere con le più robuste e longeve tradizioni letterarie
europee nel momento in cui si poneva la questione cruciale delle identità nazionali.
In terzo luogo, lo studio dell’albanese, sia della sua storia che delle sue evoluzioni
dialettali e della sua grammatica, non doveva essere disgiunto dal suo uso scritto, e
quindi dalla sua corretta applicazione in sede ortografica e grammaticale, nonché
dalla assunzione di un sistema alfabetico in sé coerente e razionale. Non fu un caso
se gli insegnamenti di Guzzetta sortirono risultati così brillanti. Dopo oltre un secolo
di silenzio dalla pubblicazione della traduzione di Luca Matranga, infatti, la lingua
albanese veniva elevata sia al rango di lingua “poetica” attraverso la sua consacrazione
alla creazione artistica – celebri e niente affatto casuali sono i testi, persino le parafrasi,
di Giorgio Nicolò Brancato, di Nicolò Figlia, di Nicolò Chetta – sia a quello di
lingua “ufficiale” – il citato mons. Giuseppe Schirò redasse in albanese e in latino le
suppliche dirette al Pontefice per esortarlo ad accogliere quattro cause di beatificazione.
Si aggiunga a ciò i risultati fruttuosi prodotti dall’esempio di Guzzetta di utilizzare la
lingua albanese quale strumento “veicolare” della comunicazione pubblica attraverso
il suo esercizio nelle divine liturgie e nelle diffuse pratiche paraliturgiche e, persino,
nelle astruse controversie teologiche e dottrinarie – come dimostrano i testi paradigmatici redatti da Nicolò Chetta. Nel corso di questo intenso periodo l’elaborazione
di una lingua “letteraria” albanese, improntata a un modello “puristico” scevra dalle
imperfezioni dialettali e dalle interferenze con l’italiano e i suoi dialetti, raggiunge
un livello sovradialettale mediante l’inclusione di tratti toschi, gheghi e toschiarbëreshë e, proponendosi quale koiné della comunicazione scritta, regge il confronto
con l’analogo tentativo esperito contestualmente in altre realtà nazionali.
L’ultima idea propugnata da Guzzetta è anche la più attuale: la costruzione di una
fitta rete di relazioni tra le varie comunità albanesi disperse a causa della diaspora
successiva all’invasione ottomana avrebbe potuto costituire la premessa per il riscatto
“culturale” di quelle popolazioni che, “misere e ignoranti”, avevano abbandonato i
Balcani per trovare “riparo” e “ospitalità” in terra straniera. Da qui i suoi incessanti
sforzi di fondare istituzioni deputate alla formazione culturale delle popolazioni albanesi di Sicilia (l’Oratorio Filippino per i preti celibi di rito greco-bizantino, i Collegi di Maria che sorsero numerosi in Sicilia, il Seminario greco-albanese di Palermo) e della maturazione di una folta schiera di intellettuali dediti allo studio e alla
promozione della cultura albanese in Italia. A questo riscatto, secondo Guzzetta,
avrebbe dovuto seguire il generoso progetto di aiutare quei “fratelli” condannati dalle
avverse condizioni storiche a una promiscuità culturale inaccettabile e da respingere.
Con questo spirito “ecumenico” Guzzetta intendeva costruire e sviluppare relazioni
con l’Albania occupata dall’Islam e promuovere missioni da affidare ai giovani sacerdoti
arbëreshë formatisi nei due sullodati istituti greco-bizantini di Palermo e di San Benedetto Ullano. I suoi sforzi non furono sempre fruttuosi e, tuttavia, se consideriamo
l’indiscussa stima che lo circondava presso le più alte autorità ecclesiali di lingua e
cultura albanese – tra tutti menzioniamo i sentimenti di affettuosa amicizia che gli
manifestò Giovan Battista Kazazi – non si può certo dire che la sua idea non abbia
avuto una significativa eco nel corso dei decenni successivi alla sua morte.
In conclusione, se non è azzardato riconoscere all’opera di Guzzetta una posizione
di assoluta importanza nel panorama dello sviluppo della storia della cultura albanese
del secolo XVIII, ma in considerazione degli evidenti riflessi che essa ebbe nel corso
del secolo successivo, nemmeno lo è affermare che, solo grazie al solco tracciato da
Guzzetta, altri intellettuali siculo-arbëreshë riuscirono a sviluppare, integrare e, talora,
perfezionare le primigenie intuizioni del loro Maestro, componendo opere che,
seppur rimaste inedite, hanno avuto il profondo merito di anticipare un’articolata
idea di ciò che sarebbe stata l’albanologia, cioè di quella speciale “sfera della conoscenza
dell’identità nazionale” che la storia della cultura albanese abbia conosciuto prima
del periodo del romanticismo.
Note
(1) Cfr. Apologia istorica dell’uso della crocetta d’argento, che portano pendente sul petto, le monache basiliane del Real Monastero del Santissimo Salvatore della città di Palermo scritta, e presentata alle medesime reverende madri dal signor Ellenio Agricola, nella stamperia di Felice Mosca, in Napoli, 1722. Del testo a stampa è stata rinvenuta anche la redazione manoscritta, pubblicata in Benedetto Rocco, “De habitu monalium basilianarum in Monasterio panormitano SS. Salvatoris: manoscritto inedito del P. Giorgio Guzzetta con introduzione e note” in Demetrio Camarda e la linguistica albanese, Atti dell’XI Congresso Internazionale di Studi Albanesi, Palermo, 2022 aprile 1983, a cura di Antonino Guzzetta, Palermo 1984, pp. 139149. Sul codice cfr. Benedetto Rocco, “Rituale di professione delle basiliane del Monastero del SS. Salvatore in Palermo”, estratto del “Bollettino del Centro di Studi filologici e linguistici siciliani”, XIV, Palermo 1980, pp. 3-13.
(2) Giovanni D’Angelo, Vita del servo di Dio P. Giorgio Guzzetta greco-albanese della Piana, Prete della Congregazione dell’Oratorio di Palermo, ricavata da alcuni mss. del P. Luca Matranga proposito della Piana, e da altre Memorie, Palermo 1798, pp. 342-351. Da questo momento il riferimento alle citazioni tratte dalla biografia di D’Angelo sarà riportato tra parentesi nel testo.
(3) Cfr. P. Giorgio Guzzetta, L’osservanza del rito presso gli Albanesi d’Italia perché giovino a se stessi e a tutta la Chiesa, introduzione di Matteo Mandalà, traduzione di Pina Ortaggio, Quaderni di Biblos, Piana degli AlbanesiPalermo, 2007.
(4) Pur ritenuto perduto, il De Albanensium è stato ricordato tuttavia da studiosi arbëreshë del sec. XIX. Con il titolo di Etimologico della lingua albanese, è stato menzionato da Vincenzo Dorsa e da Giuseppe Schirò: cfr. Vincenzo Dorsa, Agli Albanesi. Ricerche e pensieri, Dalla Tipografia Trani, Napoli, 1847, p. 90 e Giuseppe Schirò, Canti tradizionali ed altri saggi sulle colonie albanesi di Sicilia, Stab. Tip. Luigi Pierro & Figlio, Napoli, 1923, p. CVI.
(5) "E poiché il volgo ignaro, considerandoci Greci, ci fa partecipi degli errori dei Greci, bisognerà dimostrare quanta sia la distanza tra questi e gli Albanesi per stirpe, lingua e costumi. Poi affrontando più da vicino l’argomento, bisognerà vedere con quali parole, con quali scritti respingere e combattere quei cinque errori dei Greci confrontandoli con la nostra religione, con questi studi, se non erro, saremo di rovina per gli scismatici, faremo onore a noi stessi e in ultimo faremo vergognare il volgo. Del resto non ci sarebbe motivo di aggiungere molte parole su questo argomento se colui che sembra essere nato quale sostegno della nostra gente finalmente portasse a termine quell’opera già da tempo fe licemente iniziata. Così infatti avremmo posto al sicuro in un luogo ottimo la parte più dif¬ficile dei nostri studi: Paolo Maria Parrino, De studiis necesariis ad recte instituendos siculo-albanensis Collegii candidatos. Oratio Ad rerum albanarum studiosos, trascrizione dell'originale in latino e tradizione italiana a cura di Giorgia Guidera, in Biblos. Servizio di informazione culturale e bibliografica della Biblioteca comunale “G. Schirò” di Piana degli Albanesi, a. XIII, n. 27, Palermo, p. 122.
(6) L’idioma Epirotico ossia Albanese è totalmente differente, non solo dal Greco, ma ancora da tutti li altri linguaggi, che sono in Europa e nelle altre parti del Mondo talmente che non si avrebbe difficoltà a dire la lingua Albanese lingua Madre, ed indipendente da tutte le altre a noi note, se due personaggi dotti ed eruditi oggi viventi non sostenessero in due separate dissertazioni su tal particolare, i popoli dell’Albania esser Colonie delli Antichi Albani del Lazio, e la lingua Albanese derivata dalla Latina: Notizia distinta i degl’Italo Greci, e degl’Italo Albanesi esposta da Mons. Giuseppe Schirò, Arcivescovo di Durazzo, già Vicario Apostolico di Cimarra nell’Epiro, in occasione di dover rispondere i ad alcuni quesiti proposti da un Personaggio, in Roma l’anno 1742, f. 13, pubblicata in “Roma e l’Oriente. Rivista criptoferratense per l’unione delle Chiese”, Anno IV, vol. VII, gennaio-giungo 1914, p. 346.
( 7) Gli ultimi due capitoli pervenuti del De Albanensium, che affrontano due distinti periodi della storia religiosa degli Albanesi, trattano argomenti legati alle questioni dei riti e della presunta appartenenza degli Arbëreshë alla chiesa scismatica d’Oriente. Non è qui il caso di ripercorrerne analiticamente il filo logico, anche perché spesso si tratta di interpretazioni arbitrarie e fantasiose. È sufficiente ricordare che lo scopo della ricostruzione è quello di confutare l’opinione di coloro i quali giudicavano gli italo-albanesi di rito greco-bizantino seguaci delle dottrine scismatiche di Fozio e, quindi, di ribadire con maggiore veemenza il concetto più volte illustrato nei capitoli precedenti, e cioè che gli Albanesi nulla avevano da condividere con i Greci e che, semmai, la loro storia, la loro lingua, i loro costumi e, infine, il loro credo religioso erano stret tamente affini a quelli dei loro supposti antichi progenitori, i macedoni, ai quali si erano uniti i romani, anch’essi discendenti dei macedoni che Virgilio volle scampati dalla distruzione di Troia.
VINCENZO COSENTINO donenzocosentino@gmail.com
RICCO PROGRAMMA DI FESTEGGIAMENTI
IN ONORE DEL VENERABILE
P. GIORGIO GUZZETTA
È stata sollecitudine di tutti i Vescovi di Piana degli Albanesi, avviare la causa
storica del Servo di Dio P. Giorgio Guzetta. Nel 1906 per opera di Mons.
Paolo Schirò Vescovo ordinante e Rettore del Seminario greco-albanese di Palermo, sono state ritrovate le spoglie mortali mummificate di P. Giorgio Guzzetta
nella cripta della chiesa di San Ignazio all’Olivella di Palermo. Il 30 novembre 1952
dopo la ricognizione, i resti mortali del Servo di Dio sono stati traslati nella cattedrale
San Demetrio Megalomartire di Piana degli Albanesi.
Dopo alterne vicende mons. Giorgio
Demetrio Gallaro, Eparca di Piana degli
Albanesi, con la ferma volontà di portare
a termine l’inchiesta diocesana iniziata
da tempo, nel 2015 ha riavviato tutto
l’iter burocratico, che si è felicemente
concluso il 25 novembre scorso, quando
la Congregazione per le Cause dei Santi
ha emesso il Decreto sulle virtù del Servo
di Dio P. Giorgio Guzzetta con il quale
si dichiara “venerabile”.
La lieta notizia è stata celebrata in tutte
le comunità dell’Eparchia ed in modo particolare a Piana degli Albanesi nella Cattedrale di San Demetrio M. Le celebrazioni sono iniziate sabato 27 novembre
con la solenne ufficiatura del vespro e la
benedizione del nuovo sarcofago che contiene le spoglie mortali del venerabile.
La domenica mattina, i presbiteri si
sono ritrovati presso la curia eparchiale nella “Sala Guzzetta” per formare il
corteo ed avviarsi in processione
presso la Chiesa Cattedrale, preceduti
dalla rappresentanza dei Cavalieri e
delle Dame Costantiniane. La celebrazione preceduta dall’arcivescovo
Giorgio Demetrio Gallaro è stata concelebrata da tutti i presbiteri, dopo la
proclamazione del Vangelo, all’omelia, P. Salvatore Alberti dell’Oratorio
filippino di Acireale, ha presentato a
tutti i presenti alcuni spunti di riflessione sulla vita del venerabile P. Giorgio Guzzetta, in seguito il nostro arcivescovo ha dato lettura del decreto
di venerabilità promulgato dalla Congregazione delle Cause dei Santi. Il
servizio all’altare è stato espletato dai
nostri seminaristi.
Immediatamente dopo la celebrazione liturgica in chiesa ci si è recati processionalmente verso la piazza centrale di Piana
degli Albanesi, dove ha avuto luogo la dedicazione e benedizione di una lapide commemorativa dell’evento e lo svelamento di una grande maiolica, opera dell’artista palazzese Gigi Vaiana raffigurante il Padre Giorgio Guzzetta tra le chiese (San Demetrio M,
San Giorgio M, Madonna del Carmine, e Sant’Ignazio all’Olivella) a lui molto care.
Dinanzi la Chiesa dell’Odigitria, il Sindaco di Piana degli Albanesi, Rosario Petta, a
nome dell’Amministrazione comunale, ha dato lettura della Delibera di Giunta Comunale n° 105 del 26/11/2021, con la quale si deliberava di intitolare la Piazza
Vittorio Emanuele del Comune di Piana degli Albanesi al venerabile “Padre Giorgio
Guzzetta” Apostolo degli Arbereshe di Sicilia.
Il suono a distesa di tutte le campane ha accompagnato l’inno di lode e di ringraziamento al Signore della vita, dai fedeli presenti, per il dono del venerabile P. Giorgio
Guzzetta Padre e Custode di tutta l’Eparchia.
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