Sul finire del Novecento qualcuno pensava che eravamo arrivati alla fine della Storia.
L'autore (Francis Fukuyama) di un noto libro di alcuni decenni trascorsi, nonostante la conferma che le vicende dell'uomo sono rimaste le stesse, guerre comprese, qualche anno fa ha confermato: "Sono sempre convinto che il concetto rimane essenzialmente valido, anche se indubbiamente la fase attuale della politica mondiale non è più la stessa di quando scrivevo il mio articolo. Sarebbe strano che quasi trent’anni non avessero modificato il mio modo di pensare il mondo. Cionondimeno, è importante distinguere tra le critiche ragionevoli e quelle stupide, o fondate su una semplice mancanza di comprensione.
Cominciamo dal titolo dell’articolo originale La fine della storia?, pubblicato dalla rivista statunitense «The National Interest» e in francese da «Commentaire» nell’estate del 1989. Vi si utilizzano altri termini per descrivere il fenomeno che oggi sarebbe definito piuttosto «sviluppo» o «modernizzazione». La «fine» della storia indicava lo scopo o l’obiettivo, più che non la sua conclusione; la «fine della storia» poneva quindi la questione della finalità o del punto terminale dello sviluppo umano o del processo di modernizzazione.
L’espressione «la fine della storia» non era mia; è stata originariamente utilizzata in questo senso dal grande filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Hegel è stato il primo filosofo della storia, nel senso che non credeva possibile penetrare il pensiero o le società umane senza comprendere il contesto storico in cui esse s’inscrivono e il processo evolutivo che le ha prodotte. Karl Marx, autore della versione più celebre della fine della storia, ha ripreso lo stesso quadro storicista. Sosteneva che le società si modernizzano, evolvendo da uno stadio primitivo verso il capitalismo borghese passando per il feudalesimo. Per Marx, la fine della storia era lo stadio finale di tale processo, un’utopia comunista.
Io mi accontentavo di sostenere, nel 1989, che non sembrava che saremmo un giorno pervenuti allo stadio finale del comunismo. Mikhail Gorbaciov, che aveva lanciato la perestrojka e la glasnost, stava trasformando l’Unione Sovietica in qualcosa di sempre più simile a una democrazia. In conseguenza, se fine della storia doveva esserci, avrebbe somigliato piuttosto a una democrazia liberale collegata a un’economia di mercato.
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L'autore del libro, su un articolo pubblicato sul Corriere della Sera (30.06.2018), prosegue e conclude:
Ho passato in rassegna un buon numero di ragioni per le quali il processo di modernizzazione può non sfociare nella democrazia liberale: ci sono Paesi che possono rimanere poveri e instabili, trovarsi in balia dell’autocrazia o di una democrazia illiberale, o anche tornare indietro, a stadi precedenti dello sviluppo. Tutto questo può sembrare pessimista rispetto all’ottimismo dell’articolo iniziale, quello del 1989. È inevitabile, viste le tendenze più recenti della politica mondiale: esse non vanno più nella stessa direzione delle tendenze del 1992, quando la «terza ondata» di Huntington conosceva un’accelerazione.
Ciononostante, è facile individuare delle costanti facendo delle estrapolazioni a partire dalle tendenze a breve termine. Uno sguardo gettato sullo stato del mondo nel suo insieme restituirà un quadro di un’importanza non trascurabile: nel corso delle ultime due generazioni, e in particolare durante il periodo trascorso dopo che scrissi La fine della storia, l’umanità ha conosciuto un progresso considerevole. La globalizzazione e l’ordine internazionale liberale, creato a partire dal 1945, hanno avuto per conseguenza il quadruplicamento dell’economia mondiale e l’uscita di centinaia di milioni di persone dalla povertà estrema. Non è vero solo per la Cina ma anche per l’Africa subsahariana, l’Asia del Sud e l’America Latina. Un miglioramento che non ha riguardato solo il reddito; hanno fatto passi in avanti anche altri criteri del ben-essere, come la mortalità infantile, l’accesso all’educazione e lo statuto delle donne e delle ragazze. In molti Paesi sono emersi nuovi ceti medi ed è nettamente aumentato il numero delle democrazie, malgrado alcune retromarce recenti.
La migliore indicazione che la storia va chiaramente nel senso del progresso sta forse nel fatto che, ogni anno, milioni di persone di Paesi poveri, caotici o repressivi, cercano di raggiungere con le loro famiglie Paesi situati «alla fine della storia» — ossia ricchi, stabili e democratici —, che offrono loro delle possibilità di sviluppo individuale. Quasi nessuno imbocca volontariamente la direzione contraria. Anche supponendo che la Cina, con la sua ricchezza e con il suo successo, volesse accoglierli, i poveri e gli oppressi non hanno voglia di andarci. Un tale movimento, naturalmente, ha innescato una crisi nelle democrazie stabili, dove assistiamo a reazioni violente contro i migranti e i rifugiati. Ma coloro che pensano che la storia non abbia un senso, o che non vedono con chiarezza quale esso possa essere, dovrebbero dare una spiegazione di questo semplice fenomeno che vede tutti questi uomini «votare con i piedi».
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