Il nonno voleva che ricordassi le sue esperienze di guerra, di vita da mulinaro, di allevatore di api, di agricoltore.
La Bainsizza e gli assalti alla baionetta.
L'attacco consisteva nell'avanzare a corpo a corpo contro il nemico austriaco, spesso con il fucile e la baionetta in canna, e urlando "Savoia!”. Le truppe dovevano affrontare il filo spinato e le mitragliatrici nemiche, che falciavano molti soldati durante l'avanzata. La carneficina era altissima. Chi veniva colpito dal filo spinato spesso restava ferito e urlava, e gli scontri corpo a corpo erano cruenti.
Quella della Bainsizza, raccontava il nonno, fu l'undicesima delle undici battaglie offensive sull'Isonzo, preceduta da una preparazione accurata e dall'impiego di grandi risorse e però la battaglia causò perdite enormi (circa 40.000 morti e 108.000 feriti italiani) per guadagni territoriali niente affatto significativi. L'entusiasmo iniziale lasciò presto spazio alla disillusione e alla stanchezza, con la consapevolezza dell'inutilità del sacrificio dei tanti morti, come testimoniano le lettere pubblicate su più libri e come il nonno non cessò mai di testimoniare.
La vittoria -semplicemente tattica- italiana sull'altopiano della Bainsizza convinse l'Austria-Ungheria a chiedere aiuto alla Germania, che rispose con un massiccio intervento che portò alla disastrosa disfatta di Caporetto poco dopo. Nell’agosto 1917, proprio mentre infuriava la battaglia della Bainsizza, a Torino ci fu una rivolta per il pane repressa nel sangue, con decine di morti. Dopo questi racconti, il nonno ripeteva che egli, padre di cinque figli tutti minorenni non doveva trovarsi lì dove più forte infuriava la battaglia contro gli austro-ungarici. E alludeva alla cattiveria di qualcuno. Un qualcuno che egli riferì a me, per nome e cognome, e che originava da motivazioni politiche; ma ovviamente -in quel contesto- di cattiveria umana si trattò.

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