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mercoledì 12 novembre 2025

Il Sud non decolla per sue colpe


Il Sud Italia "non decolla" a
causa di un divario storico
 ed economico con il
 Centro-Nord,
 aggravato da cause
strutturali come infrastrutture
 carenti, fuga di cervelli,
spopolamento e un peso
minore sul PIL nazionale
.
Questo squilibrio, radicato
 nella storia fin dall'unità
d'Italia, si manifesta con
persistente fragilità
economica e alti tassi di
 rischio povertà in alcune
regioni, come evidenziato
 da dati recenti.










Riflessioni di economia e sociologia
La storia politica-economica del meridione

 Dal 1720 alla Seconda guerra mondiale i nostri libri di Storia ci riferiscono di re, generali e politici. Il popolo, nelle sue articolazioni in classi sociali, appare solo quando si rivolta e viene represso (per esempio il dettagliato racconto della repressione del brigantaggio post-unitario). Secondo più storici questo approccio dall’alto predomina anche quando viene trattato il secondo dopoguerra, ossia il periodo repubblicano. 

La gente meridionale quando si reca ai seggi elettorali  o quando ricorrono le occasioni elettorali si astiene e si mostra quasi sempre schifata oppure esprime solo voti di protesta (esempio relativamente recente: il voto populista al M5S). Non possiamo e non dobbiamo scordarci il grande successo del Movimento Cinque Stelle nelle elezioni del 2013 e 2018. 

In materia di storia economica e di divario Nord-Sud l’approccio è sempre lo stesso, la gente assume implicitamente che l’andamento dell’economia (reddito, investimenti, infrastrutture, benessere…) dipenda dalle decisioni dei politici. Manca -nei nostri politicanti- del tutto il riferimento ai risultati e agli studi della ricerca accademica. In un simile contesto culturale non è  difficile capire perché il Sud e’ rimasto e continuerà ancora per lungo tempo a rimanere indietro. Oltre al populismo sterile c'è da mettere in conto la rapacità dei politici cuffariani e non.

È certo comunque che il divario si e’ accorciato ed ha fatto passi da gigante dall’Unità a oggi. Il reddito del 1871 era paragonabile a quello attuale dei Paesi africani più poveri. All’Unità solo il 21% dei bambini meridionali frequentava la scuola elementare (contro il 96% del Centro-Nord) e la speranza di vita era di 33 anni (ora oltre gli ottanta). Certa stampa mette in evidenza «rabbia, astio e frustrazione» per un calo del reddito relativo dal 58,7% del 1969 al 56,3% del 1999, mentre dal 1971 al 2001 il reddito pro capite a prezzi costanti del Sud è quasi raddoppiato. 

Come in tutta Italia, la crescita si è arrestata nel XXI secolo, nei decenni del populismo trionfante. Il nostro Mezzogiorno secondo più  studi è ovviamente penalizzato da fattori ambientali: clima e regime idrico storicamente rendevano possibile, con le tecniche tradizionali, solo un’agricoltura estensiva (il latifondo) e aumentavano i costi della forza motrice in un Paese senza carbone. 

Piu’ storici minimizzano l’importanza dei fattori ambientali e rigettano  giustamente le spiegazioni etnico-razziste sulla pretesa inferiorità dei meridionali. Attribuiscono alla maniera gramsciani, l’arretratezza relativa del Mezzogiorno al comportamento delle classi dirigenti meridionali. I proprietari terrieri (i latifondisti) si opposero alla riforma agraria, che comunque avrebbe richiesto ingenti investimenti in irrigazione, probabilmente fuori delle possibilità tecniche ed economiche dell’Italia post-unitaria. La riforma fu poi effettuata dalla (relativamente) più ricca Italia del secondo dopoguerra. 

Altro atto di accusa sulla realtà meridionale, rispetto al nord dinamico, riguarda lo scarso investimento in capitale umano. Il regime borbonico aveva totalmente trascurato l’istruzione primaria, affidata alla sola benevolenza della Chiesa. La legge Casati (1859) rese obbligatoria l’istruzione primaria per maschi e femmine, ma delegò il suo finanziamento ai Comuni, fino alla legge Daneo-Credaro del 1911. I Comuni meridionali investirono in maniera insufficiente, tanto che nel 1911 solo due terzi dei bambini frequentava la scuola nel Sud. Lo storico De Felice spiega il sottofinanziamento della scuola con l’egoismo dei proprietari terrieri meridionali, che si rifiutavano di pagare tasse più alte per istruire i figli dei contadini. È però possibile che l’insufficiente gettito fiscale sia stato anche determinato dalla povertà della regione, che riduceva drasticamente la base imponibile.

Dal 1951 lo Stato si è posto come obiettivo una riduzione permanente del divario Nord-Sud, istituendo la Cassa per il Mezzogiorno, piuttosto che lo sviluppo di specifiche aree del Sud come nei decenni precedenti, dalla legge per Napoli del 1904 in poi. In effetti il divario si è ridotto considerevolmente, fino al 61% nel 1971. 

Per quanto attiene la politica nazionale dopo la chiusura della Cassa per il Mezzogiorno (1984) non è affatto vero che sia venuto meno il sostegno pubblico. Sono seguite le politiche nazionali  (Agensud, contratti d’area, fondi di coesione) con la contribuzione dei fondi di coesione europei. 

 Dal 2007 al 2020 l’Italia ha stanziato cento miliardi di euro, l’Europa settantacinque, ma il divario Nord-Sud è rimasto sostanzialmente stabile (66% nel 2022). Lo storico Felice accusa le classi dirigenti meridionali per l’incapacità di spendere i fondi e per l’uso clientelare delle risorse per mantenere il potere. Da qui la crescente polarizzazione della società italiana attorno alla questione settentrionale e la critica alla riforma Calderoli per l’autonomia. Si vorrebbe una politica «meno egoista e più lungimirante» perché il Mezzogiorno «indebolito e privo di una strategia per il futuro appare incapace più che mai di reagire a tante sfide». 

  L’Italia nel suo complesso e il Mezzogiorno hanno reagito con grande successo alla sfida della sconfitta nella Seconda guerra mondiale. Si spera che non sia necessario uno shock analogo per avere una reazione simile per il Paese e per il Mezzogiorno.

(Segue)

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