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domenica 31 luglio 2022

Elezioni Politiche. E' veramente scontato che vincerà la destra?

Un'Italia sovranista andrà a sbattere ---

 A voler dare credito ai sondaggi pare che vogliano dire che -dal punto di vista politico- in Italia siamo tornati ai rapporti di forza del 2008. Allora il Pdl e la Lega superarono il 46%: esattamente il valore che viene attribuito oggi al centrodestra. 


Un messaggio che è circolato su
alcuni giornali e media.
La coalizione guidata dal Pd (e da un personaggio come Letta, che di Sinistra ha poco e sa poco) è data al 33%: vale a dire il risultato del Pd di Veltroni, che allora per scrollarsi di dosso il passato comunista provava a far capire di non essere mai stato comunista.

 Si fermò pure a un terzo dei voti nel 1994  la «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto. 

 I giornali -in verità- provano a lasciare intendere che il crinale di questa campagna elettorale non è tanto tra destra e sinistra, quanto tra sovranisti e globalisti, tra neo-nazionalisti ed europeisti. Il terzo polo del M5S fra sovranisti ed europeisti pare di capire che sta con i sovranisti.

 Non è un auspicio, ma tutte le  previsioni ad oggi attribuiscono la vittoria alla destra. Dovremmo capire ed interrogarci se la destra vittoriosa davvero vorrà entrare in sintonia con Orbán  o si renderà conto che in Europa i veri interlocutori sono Scholz e Macron, e un Paese che veleggia spensierato verso i tremila miliardi di debito pubblico non può fare esattamente come gli pare.  I debiti, la montagna di debiti italiani, non li abbiamo con Orban e con i sovranisti. E questo significa qualcosa. Dovrebbe significare qualcosa per chi ne capisce di "politica".

Oriente Cristiano. Dal numero Speciale dedicato al Venerabile Giorgio Guzzetta (7' testo)

da pag. 67
a pag. 84

 LA “RINASCITA” ALBANICA 

 E IL RETROTERRA CULTURALE E SPIRITUALE 

 DELL’OPERA DI PADRE GIORGIO GUZZETTA 

 La politica missionaria pontificia nei Balcani tra il XVII e il XVIII secolo

In questo numero speciale di Oriente Cristiano dedicato a p. Giorgio Guzzetta in occasione dell’emanazione del decreto della Congregazione delle Cause dei Santi firmato da papa Francesco, passaggio importante nella sua “causa di beatificazione”, che gli attribuisce - oltre ai già acclarati e speciali meriti culturali che lo pongono al centro della storia della comunità arbëreshe d’Italia - il titolo di Venerabile e gli riconosce le preclari ed eroiche virtù cristiane, ho accolto molto volentieri il cortese invito rivoltomi dal propugnatore di questa “giusta” causa, l’arcivescovo Giorgio Demetrio Gallaro, di partecipare a questa particolare e autorevole ricorrenza editoriale con un contributo che affronta la ricostruzione storico-culturale del background in cui, a mio avviso, va collocata l’incisiva azione pastorale e culturale promossa dall’illustre fondatore del Seminario italo-greco-albanese di Palermo.

 L’obbiettivo di questo excursus mira, infatti, a contribuire a dipanare la matassa della complessa vicenda storica, ad un tempo religiosa e culturale, nonché albanese e arbëreshe, che interessò il secolo XVIII prolungandosi sin nei primi del secolo scorso con il raggiungimento dell’indipendenza nazionale albanese. Si tratta del lungo periodo che registrò la nascita, l’affermazione e il crescente consolidamento del lungo processo che scandì la costruzione dell’identità del popolo di Scanderbeg, ma con una diversificazione dei rispettivi ruoli e con una distinzione di fasi che richiedono ancora di essere descritte e analizzate. La prima fase di questo processo intersecò, integrandosi pienamente con quelle ben più note che le seguirono, il primo ventennio del secolo XVIII con l’elezione al soglio Pontificio di Papa Clemente XI (1700-1721), al secolo Giovan Francesco Albani, discendente di una famiglia “arbëreshe” emigrata in Italia sul finire del secolo XV (1) e destinato a divenire il principale animatore del risveglio culturale delle comunità albanesi residenti nelle due sponde opposte dell’Adriatico. 

 Su questi temi ho avuto modo di intervenire nel corso della solenne commemorazione del III centenario della morte di papa Albani, durante il convegno intitolato “Il ruolo di papa Clemente XI per il risveglio identitario albanese e nella cultura italiana del tempo” che si è svolto a Roma l’11 luglio 2021 su iniziativa dell’Ambasciata albanese presso la Santa Sede alla presenza del cardinale Gianfranco Ravasi. Ritenendo quella circostanza adatta per delineare la portata delle ricadute della politica complessiva del pontificato di Clemente XI sulla comunità albanese - sia di area balcanica che italiana –, ho fatto ricorso al sostantivo opzionalmente plurilingue (latino, italiano, albanese) di “Regeneratio”/“Rinascita” / “Rilindja”, all’uopo associato all’aggettivo “albanica”, chiaramente derivato dal cognome del papa in parola, allo scopo di caratterizzarlo per evitare ogni residuo di ambiguità insito nel medesimo termine con il quale si connotano diverse altre fasi storiche della cultura albanese. 

 Con il sintagma Regeneratio (Rinascita - Rilindja) albanica non intendo affatto enfatizzare l’azione complessiva esercitata da papa Albani oltre il suo reale rilievo storico, quanto di considerarla nei suoi atti concreti e puntualmente documentati al duplice fine, da un lato, di inquadrarla in un’ottica più ampia e complessiva e, dall’altro, di evidenziarne la formidabile spinta assicurata alla difesa e al rilancio della cultura e della identità albanesi che si prolungò nel ventennio dal 1700 al 1721 dominato da papa Clemente XI e che ebbe la forza di aprire importanti e nuovi sentieri alle successive fasi. Se, infatti, si analizzano le proiezioni storiche di tale azione, sono innegabili i tratti che la distinguono come una vera e propria strategia alla quale ricondurre le ragioni profonde della nascita della proficua stagione nota come Rinascita (o Rilindja) culturale arbëreshe, scaturita con la fondazione dei due seminari pontifici per la formazione del clero di rito bizantino-greco di Calabria e di Sicilia, la cui incisiva attività ebbe straordinari sviluppi tra la prima e la seconda metà del XVIII secolo, in particolare avviando un profondo processo di costruzioni di identità grazie all’impulso e agli orientamenti offerti dall’opera di p. Giorgio Guzzetta, conosciuto come l’Apostolo degli Albanesi di Sicilia. 


 Per rispetto dei limiti di spazio consentiti, mi soffermerò su una serie di atti e di avvenimenti riguardanti la comunità nazionale albanese, ma anche la diaspora italo -  albanese nei primi decenni del XVIII secolo. Trattandosi di fatti che discendono dalle linee guida che ispirarono il pontificato di papa Clemente XI, essi non solo evidenziano i capisaldi della politica pontificia a favore delle missioni cattoliche di Propaganda Fide istituite nella parte europea dell’Impero ottomano, ma anche individuano i principi attraverso i quali il Santo Padre volle tutelare la specificità rituale “greco-bizantina” che caratterizzava, e caratterizza tutt’ora, buona parte delle comunità italoalbanesi (o arbëreshe) dell’Italia meridionale. 

 Tali interventi si collocano nel solco dell’azione intrapresa dai suoi predecessori, in esplicita continuità con la politica missionaria pontificia avviata nei Balcani già nel secolo precedente grazie alle istituzioni della Sacra Congregazione di Propaganda Fide (1622) e dell’annesso Collegio Urbano (1627), che a loro volta proseguivano le politiche intraprese dalla Santa Sede con le fondazioni dei due Collegi illirici di Loreto (1580-1798) e di Fermo (1663-1746). Queste strutture, che si rivelarono efficaci ed efficienti strumenti di formazione per i giovani sacerdoti destinati alle missioni, raggiunsero un obbiettivo di straordinaria importanza mediante la creazione di organizzazione ecclesiastica cattolica nei Balcani. Esse non si limitarono a servire alla propagazione della fede e all’apostolato presso gli ortodossi e i musulmani dei Balcani, ma ebbero tra i loro compiti primari l’organizzazione della “resistenza” cattolica di fronte alla vessatoria pressione ottomana. Grazie a una capillare “rete” cattolica alimentata dalle missioni balcaniche di Propaganda Fide, un insieme di chiese nazionali dell’area (croati, bosniaci, albanesi, bulgari) ebbero modo di costituire quell’organizzazione ecclesiastica modulata che, come sostiene Altan Molnár, «basata Palazzo di Propaganda Fide - Roma sui confini dei paesi e dei regni medievali, [fu] capace di preservare il patriottismo di questi popoli nel vasto mare dell’Impero ottomano»(2). L’ambito territoriale di questo decisivo network seicentesco coinvolgeva la parte europea dell’Impero ottomano, la stessa in cui si sono incontrati storicamente il mondo slavo e quello albanese e che oggi include giurisdizioni facenti parte della Serbia, del Cossovo, della Macedonia del Nord e dell’Albania. 

 Il forte impatto dell’innovazione introdotta dalle missioni cattoliche non si ebbe solo in ambito ecclesiale e, nel caso del mondo albanese, sia balcanico che italiano, giunse a incentivare significativamente la formazione “in nuce” di una coscienza identitaria “nazionale” in una misura di gran lunga superiore a quanto sinora non ammesso dalla stessa storiografia ufficiale. A tal proposito non è superfluo ricordare che il primo libro albanese è il “Meshari” (Messale) [1555] di Gjon Buzuku, conservato in copia unica presso la Biblioteca Vaticana, la cui scoperta venne annunciata non a caso proprio a p. Giorgio Guzzetta da mons. Giovan Battista Kazazi, arcivescovo di Skopje, negli anni ’40 del XVIII secolo (3) e che il secondo è la Dottrina Cristiana (E mbësuame e Krështerë) [1592], scritta nell’arbërisht di Sicilia dal papas Luca Matranga, di cui disponiamo ora una magistrale edizione critica del collega Matteo Mandalà (4). Da non trascurare la menzione del catechismo in lingua albanese non ancora rinvenuto ma menzionato nella ampia documentazione che riguardò la missione di evangelizzazione compiuta nel 1584 dal cardinale di origini croate Alessandro Komulović (1548-1608), insieme al gesuita Tommaso Raggio, primo rettore del Collegio illirico di Loreto ed estensore del nihil obstat che autorizzò la stampa della succitata opera di Matranga (5). Si aggiunga anche che tutti gli altri autori della storia letteraria albanese del XVII secolo erano cattolici del nord d’Albania, tutti sacerdoti formatisi nei succitati Collegi italiani, tra i quali spiccarono con le loro opere Pjetër Budi, Frang Bardhi, Pjetër Bogdani. Analogo discorso riguarda l’affermazione delle identità  nazionali in altri contesti dei Balcani coinvolti dalle missioni dirette da Roma e che portarono ad una precoce formazione di una coscienza “nazionale” in ambito bulgaro, bosniaco e croato, così come la chiesa ortodossa contribuì ad esercitare un peso decisivo nella formazione di una coscienza nazionale in ambito serbo ed ellenico (6).

 L’attenzione di papa Albani per il mondo bizantino e albanese 

Analoga fu l’attenzione verso l’Oriente bizantino e albanese che si desume dal programma di papa Clemente XI e che Ludovico Barone von Pastor ha sintetizzato correttamente, sebbene per grandi linee: «Alle chiese separate dell’Oriente il Papa rivolse in genere una particolare simpatia. Ogni anno nella festa di S. Atanasio egli celebrava la messa nel Collegio greco e aumentò notevolmente le sue entrate (7). Spesso egli discuteva col celebre orientalista Eusebio Renaudot e lo invitò a compilare dei memoriali intorno alle missioni in Oriente. Intorno alla situazione religiosa in Albania, il presunto paese d’origine della sua famiglia, egli cercò orientarsi ordinando una visita canonica, alla quale seguì un concilio nazionale» (8) .

 Tale azione di papa Albani non è stata in passato adeguatamente riconosciuta e rimarcata, sia perché i risultati di essa si evidenziarono soprattutto dopo la sua scomparsa – ad esempio, la fondazione del Collegio italo-albanese, che non a caso è stato intitolato al suo successore “Corsini”, cioè a papa Clemente XII –, ma anche perché a causa di una certa tendenziosità dovuta all’impostazione, purtroppo condivisa in area balcanica, di talune storiografie nazionaliste, tanto di ispirazione marxista quanto liberale, che nelle loro interpretazioni tendono a difendere e a trasmettere una fuorviante visione balcanocentrica avendo l’unica preoccupazione di non far dipendere troppo dall’Italia o dal Vaticano le “svolte” importanti avvenute nella storia culturale di questi popoli – e, nel caso che ci riguarda, di quello albanese –, tra le quali va sicuramente annoverata quella impressa da papa Albani nel primo ventennio del XVIII secolo. 

   Assieme all’amico e collega Matteo Mandalà siamo intervenuti spesso nel corso dell’ultimo decennio, usufruendo delle occasioni offerteci da congressi e dibattiti pubblici per invitare i colleghi delle istituzioni albanesi a rivedere certe posizioni espresse in passato e rimaste sedimentate anche nei testi accademici, oltre che nei testi scolastici, d’Albania (9). Si tratta di posizioni superate che perseverano a offrire una periodizzazione un po’ stantia della storia culturale e letteraria albanese tout court e che, provenendo da una ridotta visione ideologica nazionalista, si sforzavano di giustificare la nascita del movimento di rinascita nazionale – la Rilindja Kombëtare Shqiptare – quale frutto del pensiero e dell’azione di intellettuali albanesi d’area balcanica maturato negli anni ’30-’40 del XIX secolo.

 La complessa vicenda della Rilindja, in verità e a nostro avviso, richiede una ben altra riconsiderazione, un diverso inquadramento storico e una radicale revisione delle sue basi epistemologiche. Indispensabile è la scissione dei due concetti di “rinascimento culturale” e di “risorgimento politico” che si intrecciano nella Rilindja e che, tuttavia, seguono traiettorie diversificate che non possono essere forzatamente sovrapposte e confuse, nel tentativo di ricondurne la presunta origine in una indeterminata fase romantica, quando le loro matrici almeno nel secolo precedente trovano già documentato riscontro nella diaspora arbëreshe. In ogni caso, una certa tendenza (o tentazione?) tipicamente balcanica di rifiutare di esaminare determinati processi politico-culturali con uno sguardo più ampio, non limitato alle sole dinamiche balcaniche ma allargato ai gruppi intellettuali nazionali inseriti nelle comunità diasporiche occidentali. La mancata valorizzazione del contributo di tali gruppi, che subivano i benefici influssi dei movimenti di pensiero occidentali, che operavano in regime di maggiori libertà e che non sottostavano al controllo della Sublime Porta, non solo ha sovradimensionato in modo spropositato l’apporto degli intellettuali residenti nei Balcani, diciamo “intra moenia”, ma ha provocato una sottovalutazione grave, se non un vero e proprio ostracismo, del contributo delle comunità “extra moenia”(10). 

Un ribaltamento di queste posizioni si è avuto in seguito a una estesa, accurata e approfondita ricostruzione del contributo settecentesco dato dagli intellettuali italo 73 Numero speciale - Venerabile Giorgio GuzzettaOC albanesi, ecclesiastici e laici, dopo la creazione dei due Seminari italo-greco-albanesi di Calabria (1732) e di Sicilia (1734). Di notevole impatto è stata l’analisi di molte opere, rinvenute soprattutto nel Seminario siculo-albanese, con sede prima a Palermo (1734- 1944) e poi a Piana degli Albanesi (dal 1946 in poi): si tratta di opere rimaste manoscritte e inedite, che solo in questo ultimo ventennio, grazie al poderoso sforzo fatto dal collega Mandalà e dai suoi allievi e collaboratori, sono state studiate e in gran parte pubblicate. L’emersione dagli archivi di questa impressione mole di materiali ha incoraggiato a lanciare l’ipotesi di anticipare di un secolo i limiti cronologici della Rilindja culturale, ponendo i suoi primi paletti con la istituzione delle due eccellenti istituzioni formative al servizio degli arbëreshë d’Italia, cioè agli anni ’30 del Settecento. 

Rilindja albanica, Rilindja arbëreshe e Rilindja albanese 

Con “Rilindja e parë”(Prima Rinascita) o “Një Rilindje para Rilindjes” (Una Rinascita prima della Rinascita) è stata battezzata la lunga e complessa fase di elaborazione dell’ideologia albanista, caratterizzata da uno straordinario e incredibile fervore di studi innovativi e di ricerche originali sulle origini storiche, sulla cultura, sulle tradizioni e sulla lingua degli albanesi, un fervore non a caso alimentato in maniera determinante dai due focolai di cultura posti al servizio della chiesa arbëreshe di rito bizantino. Le indagini avviate hanno confermato da tempo questo dato, mentre le nuove acquisizioni provano che fu proprio papa Albani a indirizzare il dibattito in seno al Collegio dei cardinali di Propaganda Fide negli anni 1718-1719 dopo aver accolto l’istanza collegiale avanzata dai seminaristi del Collegio greco di S. Atanasio e una lettera personale del giovane papas Stefano Rodotà.(11)

 Il nuovo capitolo di questo riposizionamento ermeneutico riguarda oggi la svolta impressa dalla figura di Papa Clemente XI e l’opera da lui direttamente o indirettamente intrapresa durante il suo pontificato (1700-1721): si tratta di due aspetti che non vanno distinti dalla prima Rilindja, ma che, proprio perché essi conferiscono requisiti tanto decisivi al periodo del pontificato di Albani, è inevitabile porre in questione l’ipotesi di un’ulteriore retrodatazione della stagione della prima Rilindja, fissando una fase cronologicamente precedente che, per distinguerla da quella sorta dopo le fondazione dei due Seminari, abbiamo preferito denominare Rilindja “albanica”. 

Il Seminario italo-greco-albanese di Palermo ricoprì il ruolo di primo vero incubatore dell’ideologia albanista, sviluppatasi su basi laiche – cf. il mito pelasgico – nella fase preromantica tra gli albanesi di Sicilia e rilanciata nel periodo romantico tra gli albanesi di Calabria, con un passaggio di testimone “ideale” al Collegio italoalbanese S. Adriano in San Demetrio Corone, destinato a divenire il nuovo e principale incubatore di idee nel corso del XIX secolo. L’occasione di avviare questa inedita stagione di studi albanesi a Palermo muoveva dall’esigenza emersa nel corso del duro e a tratti anche conflittuale confronto apertosi nel corso del Settecento intorno alla questione assai delicata del rito greco e della sua difesa da parte degli arbëreshë (12), i quali non esitarono a manifestare la necessità di prendere le distanze sul piano etnico dai greci e a condurre una serie di studi allo scopo di dimostrare che la comune appartenenza rituale non legittimava la meccanica identificazione degli albanesi – e non solo quelli del Meridione d’Italia – con i greci, così come si era soliti affermare in quel torno di tempo. Questa fondamentale avvertenza agì da stimolo per la corale e approfondita riflessione sulla identità albanese, che ebbe nei due Collegi arbëreshë i maggiori centri di elaborazione e di propagazione. 

Nella Rilindja “albanica” si annoverano azioni che testimoniano un’attenzione rinnovata e speciale di papa Clemente XI, che andava orgoglioso delle origini albanesi della sua famiglia, a questioni che riguardavano il mondo albanese e arbëresh: le ritroviamo primariamente in ambito ecclesiale e religioso, con ricadute culturali e identitarie non certo da sottovalutare se consideriamo il quadro balcanico complessivo in cui si collocano queste azioni, non certo inventate o fantasticate da chicchessia, ma messe in opera comunque da papa Albani e dai suoi collaboratori durante il suo pontificato, e che non certo per mera casualità andranno poi ad incidere sulla comunità nazionale albanese. 

Uno dei primi concreti atti messi in campo da Clemente XI in questa direzione, che come si diceva, va inquadrato tra gli obiettivi di queste missioni cattoliche che puntavano in questa fase critica per il cattolicesimo nei Balcani a riorganizzare le strutture ecclesiali delle minoritarie popolazioni cattoliche, è stato quello di intervenire attraverso un suo uomo di fiducia, il cattarino vescovo di Antivari, e visitatore apostolico d’Albania, Visk Zmajevich (poi arcivescovo di Zara) per riorganizzare la chiesa albanese salvaguardandone i connotati “nazionali”. Da qui subito dopo la sua elezione al pontificato l’indizione del 1° Sinodo dei vescovi dell’Arbën (1703) (13), della cui organizzazione venne incaricato l’arcivescovo di Antivari e visitatore apostolico d’Albania,  Visk Zmajevich (14).

 Lo stesso Zmajevich fu anche il curatore delle due edizioni – di quella in lingua latina e di quella in lingua albanese - con gli atti del Concilio: entrambe queste iniziative vennero rese possibili proprio perché patrocinate direttamente dallo stesso papa Clemente XI, come si evince nella sua lettera a papa Albani posta a mo’ di dedica del libro, edito da Propaganda Fide nel 1706 in versione bilingue – latino e albanese – in cui Zmajevich non manca di rimarcare spesso le origini albanesi del papa: “Tuis au∫piciis, Beatissime Pater, exultans Albana Natio po∫t diuturnam ∫eculorum revolutionem evigilat, atquœ veluti obliviosâ quadam diu jacuit involutâ caligine, sub Albano Pontifice in lucem egre∫∫a ad aram pri∫tinœ felicitatis cur∫um lœtabunda accelerat …..”Excipe igitur, Beatissime Pater, Albanœ Nationis meœ, imò Tuœ potius, vota, ∫ubmi∫∫ionis ob∫equia, lœtitiœ argumenta”(15). 

  Nella introduzione alla sua accurata edizione critica del Dizionario ItalianoAlbanese (1702) di p. Francesco Maria da Lecce (16), Gëzim Gurga fa il punto sulle diverse ipotesi sinora avanzate per cercare di individuare gli autori delle due versioni – quella in lingua latina e quella in lingua albanese – degli atti del Sinodo d’Albania. Sull’attribuzione allo Zmajevich della paternità dei testi in latino che riguardano i lavori e le deliberazioni del Sinodo sono d’accordo tutti, mentre sulla versione in albanese dei testi le opinioni discordano: se per Bardhyl Demiraj l’autore sarebbe lo stesso arcivescovo di Antivari, per Rexhep Ismajli nessun elemento è tanto indubitabile da lasciar stabilire chi sia l’autore. Non regge neppure l’ipotesi che p. Francesco Maria da’ Lecce, redattore del volume, possa esserne stato anche il traduttore, mentre un documento ritrovato da Gëzim Gurga nell’archivio di Propaganda avalla senza ombra di dubbio l’ipotesi, avanzata per primo da Vinçenc Malaj, che individua nel francescano p. Egidio Quinto d’Armento l’autore della traduzione albanese degli atti (17).

 L’unico punto sicuro è costituito dal fatto che il volume con gli atti del Sinodo d’Albania è un documento di grande interesse per la storia ecclesiale e culturale, ma anche per la storia linguistica dell’albanese. Fu lo stesso arcivescovo di Tivari, a porre nel 1709 a Propaganda Fide l’esigenza didattica di impartire nei Collegi che dipendevano da Propaganda, come S. Pietro in Montorio, l’insegnamento dell’albanese per i missionari italiani che si recavano nelle terre albanofone dei Balcani, richiesta accolta e resa esecutiva appena due anni dopo, nel 1711. 

 Nel frattempo, nell’altro Collegio di Propaganda, quello di S. Bartolomeo all’Isola, veniva impartito a partire dal 1709 l’insegnamento dell’albanese, affidato a p. Francesco Maria da Lecce (18). Si tratta, com’è noto, del celebre francescano, autore della prima grammatica della lingua albanese, Osservazioni grammaticali nella Lingua Albanese edita dalla tipografia di Propaganda Fide nel 1716 (19) dopo lunghe ed estenuanti peripezie burocratiche, benché la stessa Congregazione avesse espresso sin dal 1701 parere favorevole alla sua stampa che poi si realizzò anche per le forti pressioni che venivano dagli stessi Collegi, come quello di S. Pietro al Montorio, che formavano i missionari destinati alle terre albanesi dei Balcani. Ma è anche l’autore del Dizionario Italiano-Albanese (1702), rimasto manoscritto per oltre due secoli e edito nel 2009 da Gëzim Gurga, che giustamente osserva: «Asokohe botimi i librave ishte një ndërmarrje e kushtueshme dhe ribotimi i një vepre mund të përligjej vetëm nga përdorimi i dendur dhe nga kërkesa që kishte për të» (20). Infatti, allora non era facile tale impresa, condizionata com’era dagli alti costi della editoria, che richiedeva una preventiva e oculata attenzione alle richieste effettive del mercato e una non semplice operazione di autorizzazioni che in ambito ecclesiastico riguardava le varie “licenze” che le autorità preposte dovevano rilasciare per concedere il diritto di stampa e far così circolare poi liberamente il prodotto librario. 

Se si confrontano le date di stampa di questa prima grammatica albanese, e cioè il 1716, e delle grammatiche delle lingue degli altri popoli dei Balcani, pur se in una geografia linguistica in continua evoluzione a causa delle mutate vicende dei popoli di quest’area fortemente instabile, e per alcuni versi allora molto diversificata da quella odierna, si avverte come la vicinanza con un “potere” importante – in tal caso religioso e politico, insieme, come quello pontificio – sia stata storicamente decisiva per far conoscere e riconoscere già agli inizi del Settecento nel contesto europeo una identità albanese suggellata significativamente dalla pubblicazione della grammatica della sua lingua. Ad eccezione della lingua slavo-dalmatica, la cui prima grammatica fu edita nel 1649, per la lingua romena l’anno di edizione resta il 1787, per la slovena moderna il 1808, per la serba il 1814, per la bulgara il 1835. 

La difesa della chiesa bizantino-arbëreshe avviata da papa Albani su istanza del papas Stefano Rodotà e dei seminaristi italo-albanesi 

E proprio agli inizi del Settecento, grazie al nuovo clima più favorevole creatosi per la chiesa albanese e italo-albanese sotto il pontificato di papa Albani si registrò un passaggio importante nella plurisecolare battaglia condotta dagli arbëreshë in Italia a difesa della loro identità religiosa orientale, che trovava maggiore comprensione a livello centrale, nella politica pontificia che poteva dimostrare, proprio attraverso alla comunità religiosa italo-albanese, che era possibile anche per le altre Chiese ortodosse guardare a questo modello per istituire una possibile coesistenza di una Chiesa orientale, non uniate ma originariamente ortodossa, qual era la Chiesa arbëreshe all’interno della stessa Chiesa cattolica occidentale. 

Essa non era però assecondata, a livello periferico, dal comportamento della Chiesa latina locale: non pochi vescovi, infatti, si scontravano spesso per incomprensioni varie che avevano a che fare con questioni legate alla diversità delle pratiche rituali con il clero della chiesa di rito bizantino delle comunità albanesi del Mezzogiorno e, specialmente dopo il concilio tridentino, attivavano pesanti mezzi coercitivi  di pressione nel tentativo di assimilarle al rito latino. Queste continue contese che diedero luogo a due secoli di duri scontri e diatribe solo in parte provocate dalla diversità rituale,(21) e le contrapposizioni religiose “coprivano” spesso anche interessi sociali ed economici all’interno e all’esterno delle comunità, in cui si inserivano poi le manovre delle autorità ecclesiastiche latine che puntavano all’incardinamento economico nelle diocesi latine di queste comunità “altre”.

 In questa situazione conflittuale con l’autorità vescovile locale il clero uxorato – presente tradizionalmente all’interno della chiesa bizantino-arbëreshe – finì per rappresentare uno dei punti saldi di questa “resilienza” storica della comunità. Dispensato dalle tasse, proprio per la sua specificità rituale “greca”, assieme al proprio nucleo familiare, esso finì per consolidare posizioni di indubbia egemonia locale nella continuità di una tradizione arbëreshe che non era solo ecclesiale, ma anche intellettuale e culturale arbëreshe, che si rivelò in grado di resistere alle pressioni assimilatrici messe in campo dal potere ecclesiastico e da quello economico ad opera di vescovi e feudatari locali.

 Sulla difficile situazione determinatasi nella fase post-tridentina della Chiesa “greca” dell’Italia meridionale si dispone, oltre che della ricca documentazione fornitaci da Vittorio Peri22, anche della originale e coraggiosa rivisitazione storiografica assicurataci dai numerosi contributi editi da Matteo Mandalà (23) che finalmente ci offrono oggi una rilettura critica e complessiva della nostra storia, civile e religiosa, grazie ai nuovi documenti rinvenuti nell’archivio del Seminario di Piana, ma anche in altri archivi siciliani, come gli archivi storici del Comune di Palermo e l’Archivio di Stato di Palermo. Da non sottovalutare anche le nuove fonti e le accurate e preziose ricerche archivistiche, in parte già richiamate, pubblicate da Emanuele Camillo Colombo (24) e da Italo Sarro, le cui monografie, in particolare, delineano un quadro storico-documentario inedito che evidenzia gli sforzi con i quali il clero locale tendeva a garantirsi spazi di autonomia nell’organizzazione della Chiesa orientale locale nel corso del XVII e del XVIII secolo (25).  


Tale importante documentazione di archivio, per oltre mezzo secolo precariamente allocata nei locali dell’Episcopio di Piana dopo il suo trasferimento nel secondo dopoguerra dalla sede storica del Seminario, a Palermo, è oggi finalmente fruibile grazie all’impegno assicurato da mons. Gallaro per la sua sistemazione in una sede dignitosa e adeguata, oltre che per la professionale classificazione dei suoi ricchi materiali, affidata a una qualificata archivista come la dr. Sara Manali e grazie alla vigile direzione dei beni culturali dell’Eparchia affidata a don Enzo Cosentino. Proprio in virtù di tali provvedimenti, che hanno assicurato maggiore fruizione, ma finalmente anche sicurezza a questi preziosi fondi archivistici e librari, gli studiosi sono oggi finalmente messi in condizione di accedere ad essi e di poter rivolgere uno sguardo più obiettivo anche alla “questione ecclesiale arbëreshe” nel Settecento. 

Il marcato interesse degli arbëreshë per garantire alle loro comunità una qualche forma di protezione e una certa autonomia ecclesiastica senza sottrarle alla giurisdizione dell’episcopato latino e prevedendo, tuttavia, la possibilità di avere nelle regioni dove più radicata si mostrava la tradizione religiosa orientale – in Calabria e in Sicilia – un vescovo ordinante di rito greco, non a caso si manifesta sotto il pontificato di papa Clemente XI, innestandosi nel quadro della più significativa riscoperta della identità albanese, che a partire dall’ambito religioso si sarebbe ben presto dilatata sino a includere aspetti decisivi dell’ethnos: dalla storia alla lingua, dalla cultura tradizionale alla dimensione sociale. 

A fare piena luce sull’ultima fase del pontificato da papa Albani è la puntuale ricostruzione effettuata da Italo Sarro, il quale grazie alla documentazione acquisita negli Archivi di Propaganda Fide (26), ha descritto le iniziative che a partire dal 1718 Episcopio e Seminario della Eparchia di Piana degli Albanesi (foto Maria Giangrosso) furono messe in atto dagli arbëreshë per ottenere il pieno raggiungimento degli obiettivi da loro pretesi.

 Al nuovo quadro storico-documentario, oggi si è in grado di aggiungere due ulteriori tasselli grazie ai documenti rinvenuti recentemente nell’Archivio segreto vaticano dal ricercatore cossovaro Bejtullah Destani (27): si tratta degli appelli rivolti a Clemente XI rispettivamente dagli alunni arbëreshë del Collegio Greco di Roma e dal papas Stefano Rodotà, non datati ma risalenti entrambi, sulla base della ricostruzione fatta da Italo Sarro, al 1718. 

 Proprio quell’anno, infatti, a seguito degli appelli che sollecitavano il Pontefice di origine albanese a rivolgere la sua attenzione alla difficile situazione ecclesiale delle comunità italo-arbëreshe del Meridione, Clemente XI convocò una Congregazione generale sugli Italo-Greci, la cui prima seduta si tenne il 25 gennaio 1718 e la seconda il 26 settembre dello stesso anno. 

In questa seconda adunata, sulla base della puntuale disamina assicurataci da Italo Sarro, grazie alla ricchissima documentazione da lui rinvenuta nell’Archivio di Propaganda (28), veniamo informati che il cardinale Imperiali, riferì alla Congregazione dell’esistenza di un memoriale in due parti, inviatogli dagli alunni del Collegio greco di Sant’Atanasio e preparato per l’occasione. 

 In realtà, incrociando i dati fornitici da Sarro con i manoscritti recuperati presso l’Archivio segreto vaticano da Bejto Destani, possiamo parlare di un unico memoriale, ipotizzando una sua composizione binaria (29), con i due appelli – l’uno in lingua greca del Rodotà e l’altro in lingua italiana dei collegiali di Sant’Atanasio – da considerare come parti di uno stesso appello unitario, sostanzialmente opera di una stessa mano (30), cioè di Stefano Rodotà (31), probabile ispiratore anche dell’appello dei collegiali greci di Sant’Atanasio in Roma. 

L’appello rivolto dai seminaristi arbëreshë a papa Albani costituisce, a mio avviso, un “manifesto” culturale oltre che ecclesiale importante, su cui è forse il caso di avviare una specifica riflessione: esso ci rivela l’alto livello intellettuale che aveva allora raggiunto il dibattito sollevato nell’ambito della chiesa italoalbanese dai seminaristi che si formavano nel Collegio di S. Atanasio e che per la frequentazione che avevano con il pontefice che sentivano più “vicino” per via delle sue origini albanesi, ponevano delle questioni che non potevano non renderlo sensibile alle istanze che stavano alla base della loro accorata richiesta di difendere la specificità della loro chiesa (32). 

E prendendo spunto dalla richiesta pervenutagli dal papas Stefano Rodotà e Memoriale in greco del papas Stefano Rodotà, parte seconda (folium: 31r) dagli altri allievi del Collegio di S. Atanasio di Roma, Clemente XI spostò la discussione di merito su questi temi all’interno degli organismi preposti all’interno del governo della Chiesa. 

La questione venne dibattuta in più sedute della Congregazione di Propaganda Fide e per motivi di “copertura finanziaria” – non essendo una parte dei vescovi interpellati d’accordo ad autoridurre le risorse assegnate alle rispettive diocesi per garantire la congrua al nuovo vescovo “greco” e all’istituendo Collegio italo-greco – il piano rimase temporaneamente sospeso, pur senza interrompersi. Sicché non fu un caso che, in continuità con tale orientamento positivo, venne ripreso e successivamente rilanciato, finché con papa Clemente XII della famiglia Corsini non si giunse all’istituzione dei due Seminari ecclesiastici – quello che dal cognome del papa si intitolò’ “Corsini” per gli arbëreshë di Calabria (1732) e quello italo-greco-albanese di Palermo per gli arbëreshë di Sicilia (1734), con la nomina dei due vescovi ordinanti. 

L’ulteriore importante passaggio per il raggiungimento del traguardo dell’agognata autonomia ecclesiastica avverrà nel corso del XX secolo la istituzione dell’Eparchia di Lungro (1919) per gli italo-albanesi dell’Italia continentale e l’istituzione dell’Eparchia di Piana degli Albanesi (1937) per gli italo-albanesi di Sicilia. 

Legami ideali e familiari tra l’azione di papa Albani e quella di padre Guzzetta 

 A chiusura di questo intervento, ci piace accennare a due ulteriori tasselli che paiono utili per raccordare il retroterra culturale e spirituale della “Rilindja” albanica che ho cercato sin qui di illustrare al movimento di rinascita etnico-identitaria promosso da p. Guzzetta. Da una parte essi ci aiutano a inquadrare meglio gli stretti rapporti che intercorrevano tra il papa Clemente XI e il mondo ecclesiale italoalbanese, compresi alcuni stretti familiari di p. Giorgio Guzzetta; dall’altra parte, ci permettono di ricostruire il clima culturale tramite alcune interessanti opere letterarie di noti ecclesiastici e scrittori della Sicilia del tempo, tutti molto legati a p. Guzzetta e a papa Albani, a testimonianza della consonanza ideale che accomunava questo particolare sodalizio amicale e intellettuale. 

Il primo tassello è rappresentato dalla Positio super vita, virtutibus et fama sanctitatis Georgii Guzzetta, presentata a sostegno del processo di beatificazione e santificazione dell’Apostolo degli albanesi di Sicilia, da alcuni mesi, grazie all’alacre impulso datogli da mons. Gallaro, depositata presso la Congregazione delle Cause dei Santi. In essa troviamo riscontri puntuali sugli stretti rapporti di collaborazione e di amicizia che legavano papa Albani alla famiglia di p. Giorgio Guzzetta, attraverso la figura di p. Serafino (Francesco) Guzzetta, suo fratello maggiore, Definitore generale degli Agostiniani scalzi, che a Roma intratteneva stretti rapporti di amicizia con insigni letterati, 82 OCOriente Cristiano 83 Numero speciale - Venerabile Giorgio GuzzettaOC con i cardinali e soprattutto con papa Albani, il quale alla notizia della sua morte comunicatigli dai confratelli, il 22 aprile del 1717, disse loro: “Voi siete rimasi privi di un gran soggetto, e noi di un grande amico” (33). 

Il secondo tassello che mi piace qui richiamare è una raccolta di liriche, La lira a due corde (34) di Melchiore Pomè alias Michele Antonio Romeo, noto poeta arcadico siciliano lodato da Ludovico Muratori. Originario di Marsala, Pomé fu amico stretto di p. Serafino Guzzetta, a cui dedicò anche un’orazione funebre, e dopo anche di p. Giorgio. Scrisse un sonetto dedicato a p. Giorgio e lodandolo allude alla stima che il Pontefice, Clemente XI, nutriva per p. Serafino: “Gran Giorgio, che puoi dire/Umago bella Di quel mio Serafin germano/ io sono che a Clemente fu caro, ed ebbe in dono Dal ciel gran pregi, e risplendè da stella”. Dedicò anche dei sonetti a Scanderbeg, a p. Serafino Guzzetta, a p. Basilio Matranga e diversi sonetti a papa Albani, dalla sua intronizzazione alla sua morte (cf. De vita et rebus gestis Clementis Undecimi Pontificis Maximi, Libri sex, Urbini MDCCXXVII, Ex Typographia Venerabilis Cappelae SS. Sacramenti) (35). 

 Ci piace concludere questo nostro contributo, che vuole essere un piccolo omaggio alla eccelsa figura di p. Giorgio Guzzetta, con una lapidaria, ma acuta riflessione di uno dei più insigni studiosi della nostra lingua, ma anche della nostra cultura, Eqrem Cabej, che anche per le sue ricerche linguistiche è stato profondamente legato alla comunità di Piana. Tale scelta aiuta forse a spiegare meglio il senso di questa mia opzione di soffermarmi sulla “Rilindja” albanica, segnata dall’opera di papa Albani quale naturale retroterra spirituale e culturale in cui collocare poi quella spinta alla “Rinascita” identitaria, spirituale e culturale, della comunità arbëreshe, a partire da quella di Sicilia, impressa da p. Giorgio (36) alla guida del Seminario italo-greco-albanese di Palermo da lui fondato: 

«Da questi centri della diaspora - ci ricorda Eqrem Cabej - da questo “Gjaku ynë i shprishur», quelli della diaspora italiana dal punto di vista culturale occupano il primo posto. I figli illustri formatisi nei focolai di cultura di questa comunità diasporica d’oltremare - il Seminario Italo-greco-albanese di Palermo, poi di Piana degli Albanesi e il Collegio Italo-Greco “Corsini” di San Benedetto Ullano [poi Italo-Greco e quindi ItaloAlbanese “S. Adriano” a San Demetrio Corone, Ndr] hanno posto una pietra angolare alla costruzione della cultura albanese».37 Tra questi “figli illustri” dell’Arbëria italiana, p. Giorgio Guzzetta occupa sicuramente un posto speciale.



Note

(1) La famiglia di Giovan Francesco Albani era originaria dell’Albania, donde un Michele Laci, nel 1464 sarebbe passato in Italia e avrebbe stabilito la sua sede in Urbino. Qui i suoi figli, Giorgio e Filippo, avrebbero assunto il cognome di Albani. Dapprima uomini d’arme, a servizio della guerriera dinastia dei duchi d’Urbino, si volsero poi, verso la fine del sec. XVI e sui primi del seguente, agli uffici civili, intrattenendo nei secoli successivi costanti e stretti rapporti con la Curia romana. La rivendicazione di tale “albanesità” precede anche la stessa elezione di Giovan Francesco Albani al soglio pontificio (1700-1721) se già nel 1689 essa gli veniva chiaramente evidenziata in una carta geografica dove vengono ricordate chiaramente le origini dei suoi antenati dall’Albania “che due secoli addietro pianse la partenza de’ suoi più chiari figli, et Eroi che contro de’ Barbari l’havevano fin allora difesa”, carta che riportiamo in appendice e a lui donata e dedicata dal geografo Giacomo Cantelli da Vignola. 69 Numero speciale 

(2) Altaltan Molnár, “Le missioni balcaniche durante il pontificato di Innocenzo XI (1676-1689): dall’apogeo alla rovina”, in Innocenzo 11. Odescalchi: papa, politico, committente, a cura di Richard Bösel et al., Viella, Roma 2014, p. 198. 

(3) cf. Matteo Mandalà, “La lettera inedita (1740) di Mons. Nicola Kazazi a P. Giorgio Guzzetta”, in Bibloj. Servizio di informazione culturale e bibliografica della Biblioteca comunale G. Schirò di Piana degli Albanesi, 1994. Cf. Matteo Mandalà, “Buzuku në Sicili. Studimet e P. Skiroit, G. Petrotës, M. La Pianës”, in Studime albanologjike (filologjiko-letrare dhe historiko-kulturore), Naimi, Tiranë 2018, pp. 13-30. 

(4) cf. la edizione italiana: Luca Matranga, E mbsuame e krështerë. Edizione critica dei testi manoscritti e a stampa (1592) a cura di Matteo Mandalà, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta 2004 e l’edizione albanese: Matteo Mandalà, Lekë Matranga: njeriu, koha, vepra, Me botimin kritik të varianteve dorëshkrim dhe të shtypur të veprës E mbsuame e krështerë – 1592 – Ombra GVG, Tiranë 2012. 

(5) Cf. Matteo Mandalà, “Su un catechismo in albanese della seconda metà del ‘500. Prime ipotesi e questioni preliminari per una futura ricerca”, in (a cura di) Bardhyl Demiraj, Sprache und Kultur der Albaner. Zeitliche und räumliche Dimensionen. vol. 1, Harrassowitz Verlag, Wiesbaden 2015, pp. 419-438.

(6) Cf. Antal Molnár, “Le missioni balcaniche”, p. 198

(7) 6 I primi contatti di Giovan Francesco Albani con la realtà ecclesiologica di tradizione orientale furono dovuti a motivi di studio. I suoi particolari interessi per le lingue classiche, in particolare per il greco, lo indussero a frequentare assiduamente l’Abbazia basiliana di Grottaferrata dalla metà degli anni ’60 del XVII secolo. Attorno al 1666 scoprì tra i codici del monastero basiliano un manoscritto contenente la seconda parte del menologio bizantino-greco di Basilio Porfirogenito, di cui anche Ughelli lamentava la perdita, che andava a completare quella contenuta nel menologio vaticano (cf. la voce “Clemente XI” curata da Stefano Andretta, Enciclopedia dei Papi (2000) in https://www.treccani.it/enciclopedia/clemente-xi_(Enciclopedia-dei-Papi)/) 

 (8)  Ludovico Barone von Pastor, Storia dei Papi nel periodo dell’Assolutismo, Volume XV: dall’elezione di Clemente XI sino alla morte di Clemente XII (1700-1740), Versione italiana di Mons. Prof. Pio Cenci, Roma, Desclée & C. Editori Pontifici, Roma 1933, pp.281-282.

(9) Continua a riferirsi a tale attardata impostazione anche il Dizionario Enciclopedico Albanese edito nel 2009 (cf. la voce “Rilindja Kombëtare Shqiptare”in Fjalor Enciklopedik Shqiptar, Akademia e Shkencave e Shqipërisë Botim i ri, Vëllimi i tretë: N-ZH dhe një shtojcë, Tiranë 2009, pp.2249-2251). Negli ultimi anni tuttavia si registra un positivo riscontro da parte degli ambienti accademici albanesi - il riferimento è non solo all’Albania, ma anche al Cossovo e alla Macedonia del Nord - nel dibattito aperto dalla nostra proposta di retrodatare l’avvio della Rilindja alla prima Rilindja arbëreshe. 

(10) Sugli interessanti parallelismi registrati nei processi di avvio dei rispettivi movimenti di Rinascita nazionale tra le diaspore albanesi e greche, mi permetto di rimandare al mio contributo: “Gli Arbëreshë d’Italia per la rinascita dell’Albania tra XVIII e XIX secolo: parallelismi con altre diaspore di area italobalcanica” in Studia Albanica, Accademie des Sciences d’Albanie, Section des Sciences Sociales, XLIXe Année, 2(2012), Tiranë 2012, pp. 129-143. 

(11)Nella istanza di cui diremo, indirizzata al papa dai seminaristi arbëreshë, si poneva il problema di assicurare alla chiesa italo-albanese, dispersa in diversi territori diocesani sottomessi all’autorità giurisdizionali dei vari vescovi latini, una organizzazione ecclesiastica che riuscisse a tutelare la loro specificità rituale attraverso una figura episcopale vicariale dello loro stesso rito, edotto nelle loro pratiche e e in grado di tutelarli dagli abusi e dalle interferenze “latine”.

(13) A parere dello studioso Justin Rrota, sarebbe stato lo stesso papa a richiedere a Zmajevich di presentargli tutte le deliberazioni del Concilio in lingua albanese (cf. Justin Rrota, Letratyra shqype për shkolla të mesme, Shkodër 1935, p.133), così come la paternità degli atti sarebbe dello stesso Zmajevich (cf. Justin Rrota, Për historin e alfabetit shqyp, Shkodër 1936, p. 30, nota 2), mentre della correzione delle stampe sarebbe stato incaricato a Roma il francescano P. Francesco Maria da Lecce (cf. Justin Rrota, Për historin e alfabetit shqyp, Shkodër 1936, p. 30, nota 3)

(14) Osserva Gëzim Gurga nella prefazione della sua pregevole edizione critica del dizionario italiano-albanese di F. M. Da Lecce: «Falë kërkesës dhe nxitjes së këtij pape, Vinçenc Zmajeviçi ndërmori vizitën apostolike në Veri të Shqipërisë në vitet 1702-1703 dhe organizoi punimet e Kuvendit të Arbënit në fillim të vitit 1703»: Gëzim Gurga, “Hyrje” in At Francesco Maria da Lecce O.F.M., Dittionario ItalianoAlbanese (1702), Botim kritik me hyrje dhe fjalësin shqip përgatitur nga Gëzim Gurga, Botime Françeskane, Shkodër 2009, p. 20. 

(15) «Nën hijen tënde, o Shenjti Atë Papë, dheu i Arbërit po gazmohet, pse mbas shumë vjetësh po zë të marrë frymë e po i çel sytë: ky Atdhe, që tash sa mot ka ndejtur si i harruar, i mbuluar e i varfër prej mjegullës, nën një Papë shqiptar, po del në dritë dhe mezi pret të fitojë namin e lumninë e moçme…”] “Pëlqeji pra, o i Lumnueshmi Atë, lutjet tona, nderimin më të përvuajtur e gazmendin e Shqipërisë sime, bile them më mirë, të Shqipërisë sate» (traduzione albanese a cura di Anton N.Berisha, tratta dal volume: Kuvendi i Arbënit 1703, Botim i veçantë me rastin e 300 vjetorit të Kuvendit të Arbënit, Prishtinë 2003)

(16) cf. Gëzim Gurga, “Hyrje”, cit., pp. 32-33. 

(17) Ivi, p. 33. 

(18) Ivi, pp. 22-24. 

(19) Osservazioni grammaticali nella Lingua Albanese del P. Francesco Maria Da Lecce, Esprefetto Apostolico delle Missioni di Macedonia dedicate agli Eminentissimi e Reverendissimi Signori Cardinali della Sagra Congregazione di Propaganda Fede, In Roma, Nella Stamperia della Sag. Cong. di Prop. Fede, 1716. 

(20) Traduzione italiana: “In quel tempo la edizione dei libri era impresa costosa e la riedizione di un libro si poteva giustificare solo per l’uso intenso che si faceva di un testo e dalla domanda che c’era per esso” (cf. Gëzim Gurga, “Hyrje”, cit., p.25).

(21) Per la conflittuale situazione che si registrò tra le due chiese in Calabria cf. Emanuele Camillo Colombo, “Il Cristo degli altri” Economie della rivendicazione nella Calabria greca di età moderna, Palermo University Press, Palermo 2018. 

(22) Vittorio Peri, Chiesa Romana e “Rito” Greco. G. A. Santoro e la Congregazione dei greci (1566-1596), Paideia Editrice, Brescia 1975. 

(23) Tra i numerosi lavori editi sull’argomento da Matteo Mandalà, ci limitiamo a citare: Mundus vult decipi. I miti della storiografia arbëreshe, A.C. Mirror, Palermo 2007; “Gli archivi ecclesiastici e la memoria storico-culturale arbëreshe. Un bilancio di tre decenni di ricerche” (pp.213-261) in L’Albania nell’archivio di Propaganda Fide. Atti del Convegno Internazionale – Città del Vaticano, 26-27 ottobre 2015, Urbaniana University Press, Roma 2017. 

(24) cf. Emanuele Camillo Colombo, “Il Cristo degli altri” Economie della rivendicazione nella Calabria greca di età moderna, Palermo University Press, Palermo 2018. 25 Intendiamo qui riferirci, in particolare, ai due volumi Italo Sarro, Insediamenti albanesi nella valle del Crati, vol.I: Albanesi nel Ducato di S. Marco, Nuova Santelli, Cosenza 2010 e Italo Sarro, Insediamenti albanesi nella valle del Crati, vol. II, Nuova Santelli, Cosenza 2012. 

(25) Intendiamo qui riferirci, in particolare, ai due volumi Italo Sarro Insediamenti albanesi nella Valler del Crati, vol. I: Albanesi nel Ducato di S.Marco, Nuova Santelli, Cosenza 2010 e Italo SarroInsediamenti albanesi nella Valle del Crati, vol. II, Nuova Santelli, Cosenza 2012.

(26) cf. Italo Sarro, Insediamenti albanesi nella valle del Crati, vol. II, Nuova Santelli Edizioni, Cosenza 2012, pp. 239-249. 

(27) Sento qui l’obbligo di esprimere un doveroso ringraziamento alla encomiabile azione di recupero della memoria della storia albanese e arbëreshe perseguita con tenacia e passione nel corso della sua permanenza presso la sede diplomatica del Cossovo in Italia dal dr. Bejtullah Destani, primo consigliere della stessa Ambasciata, il quale ha messo a frutto il suo soggiorno di servizio diplomatico a Roma per rintracciare negli archivi italiani e vaticani importanti e numerosi documenti che gettano nuova luce su molti capitoli della storia italo-albanese. Di questo suo impegno culturale gli siamo molto grati, e non solo a titolo personale, per averci messo a disposizione questi due documenti vaticani a cui si fa qui riferimento. 

(28) Italo Sarro, Insediamenti albanesi in Val di Crati, vol.II, cit., pp. 239-249. 

(29) Anche nell’elenco dei documenti del Fondo “Albani” dell’Archivio segreto vaticano, tali memoriali si riportano in successione, come si evince dall’indice manoscritto del fascicolo che li contiene intitolato: Scritture spettanti alla Chiesa di S. Giorgio de Greci di Venezia: à gl’Itali Greci, et Itali Albanesi: alla Dalmazia, Servia Moscovia, Russia, Costantinopoli, Turco-grecia, Morea, Isole dell’Arcipelago, et ad altre Provincie dell’Asia Sogette al Turco (f.7r). Nella stessa pagina sotto la voce “Greci Itali, et Itali Albanesi” si citano nell’indice della documentazione riportata: “Memoriale Greco presentato alla Santità di Clemente XI dagli Itali Greci-Albanesi di Calabria” e “Memoriale Italiano presentato alla Santità di Clemente XI dagli Itali Greci-Albanesi Alunni del Collegio Greco di S. Atanasio”.

(30) La perfetta corrispondenza della grafia ci spinge ad avanzare l’ipotesi che sia stato Stefano Rodotà l’estensore dei due appelli, dove si ravvisa l’evidente volontà del Rodotà di “rafforzare” la sua istanza facendola sembrare più collegiale, sia indirizzandola a nome degli “Italo greci Albanesi di Calabria”, sia abbinandovi una analoga istanza a nome degli “Italo greci Albanesi Alunni di S. Atanasio di Roma”.

(31) Stefano Rodotà (1689-1726), figlio di Michelangelo e di Maria Lopez, entrò nel Collegio a 18 anni (1707), ricevette il diaconato il 26 febbraio del 1707 e venne ordinato sacerdote il 25 giugno del 1713 (cf. V. Capparelli, “Gli alunni albanesi ed italo-albanesi del Collegio greco di Roma” (pp.27-41) in Zgjimi – Risveglio, Anno X, n.3, Roma 1972, p. 27). Un breve profilo del Rodotà è stato tracciato anche da Giovanni Laviola in: Dizionario biobibliografico degli Italo-Albanesi, Edizioni Brenner, Cosenza 2006, p. 250. 

(32) La richiesta dei collegiali di S. Atanasio si comprende bene se consideriamo la frequentazione che Clemente XI aveva con la chiesa greca di Roma. Stando a quanto asserisce Gaetano Moroni, «Clemente XI non solo accrebbe considerabilmente le rendite del Collegio, ma ogni anno del suo lungo pontificato, si recava in quella chiesa per la festa di S. Atanasio a celebrarvi messa» (cf. Gaetano Moroni, Dizionario di Erudizione Storico-Ecclesiastica, vol. XV, in Venezia, dalla Tipografia Emiliana, MDCCCXLII, p.168). Da aggiungere, tra gli altri atti messi in opera da papa Albani, immediatamente dopo il suo insediamento da pontefice, l’assegnazione di due borse di studio perpetue riservate a studenti provenienti dall’Albania, che diventarono tre nel 1708 (cf. Gaetano Moroni, Dizionario di Erudizione Storico-Ecclesiastica, vol. I, cit., p.183). 

(33) Congregatio de Causis Sanctorum, Planensis Albanensium Beatificationis et Canonizationis Servi Dei Georgii Guzzetta, Sacerdotis Oratoriii Sancti Philippi Neri (1682-1756) – Positio super vita, virtutibus et fama santitatis, Romae 2021, p.481. 

(34) Michele Romeo <1675-1729> La lira a due corde Sonetti e Canzoni Siciliane, Eroiche e Sacre, del Signor Melchiore Pome’, in Palermo MDCCXXII, Nella Stamperia di Vincenzo Toscano. 

(35) Sono riconoscente al mio carissimo amico e impareggiabile collega Matteo Mandalà per avermi messo generosamente a disposizione questi dati e queste interessanti notizie su Michele A. Romeo, conosciuto nell’Arcadia con lo pseudonimo poetico di Melchiore Pome’ [Romέ]. Su questa interessante figura di gesuita e uomo di lettere e, in particolare, sulla sua opera poetica, Mandalà si è soffermato nell’ultimo numero di questa rivista (cf. il suo articolo “Papa Albani e il processo di costruzione di identità tra gli arbëreshë di Sicilia” (pp.47-53), Oriente Cristiano, quadrimestrale dell’Eparchia di Piana degli Albanesi, anno LIV, n.s., n. 3 settembre-dicembre 2021, Piana degli Albanesi 2021).

 (36) Vero e proprio “manifesto” di questo suo programma di rinnovamento spirituale e di rilancio culturale ed etnico-identitario, in cui ritroviamo anche le basi dell’ideologia albanista, proseguita dai suoi successori (P. M. Parrino, N. Figlia, N. Chetta ecc.) e rilanciata poi a fine secolo dagli intellettuali, laici ed ecclesiastici dell’altro Collegio arbëresh in Calabria, è la sua opera De Albanensium Italiæ ritibus excolendis ut sibi totique S. Ecclesiæ prosint, rimasta per più di due secoli inedita e data alle stampe nel 2007: « Di certo «Da questi centri della diaspora - ci ricorda Eqrem Cabej - da questo “Gjaku ynë i shprishur», quelli della diaspora italiana dal punto di vista culturale occupano il primo posto. I figli illustri formatisi nei focolai di cultura di questa comunità diasporica d’oltremare - il Seminario Italo-greco-albanese di Palermo, poi di Piana degli Albanesi e il Collegio Italo-Greco “Corsini” di San Benedetto Ullano [poi Italo-Greco e quindi ItaloAlbanese “S. Adriano” a San Demetrio Corone, Ndr] hanno posto una pietra angolare alla costruzione della cultura albanese». 37 Tra questi “figli illustri” dell’Arbëria italiana, p. Giorgio Guzzetta occupa sicuramente un posto speciale. 84 OCOriente Cristiano gli Albanesi non sono Greci, infatti traggono la loro origine, non dai Greci, ma dagli Epiroti e dai Macedoni […]. Né i Macedoni o gli Epiroti sono Greci, ma dominatori dei Greci, creatori dell’impero greco, principi, per cui furono detti Greci, come i Greci stessi dopo che l’impero Romano per iniziativa di Costantino Flaviano Augusto fu trasferito in Grecia, si vantarono di essere chiamati Romani.»..» gli Albanesi non sono Greci anche se hanno in comune con i Greci i santissimi riti ma non la lingua, non l’amore per la vita non i comportamenti umani, infine non la stessa foggia dell’abito che in particolare le donne albanesi mantengono fino a questo momento in territorio italiano» (cf. Giorgio Guzzetta, L’osservanza del rito presso gli Albanesi d’Italia perché giovino a se stessi e a tutta la Chiesa, traduzione italiana dell’originale latino di P. Ortaggio, introduzione di Matteo Mandalà, Quaderni di Biblos, Piana degli Albanesi 2007). 

(37) Eqrem Çabej, Tra gli albanesi d’Italia. Studi e ricerche sugli Arbëreshë, Besa Muci, Nardò 2017, p.22.

(38) Con l’occasione desidero qui esprimere il mio più sentito e grato ringraziamento a Bejto Destani, primo consigliere dell’Ambasciata della Repubblica del Cossovo in Italia, per avermi messo generosamente a disposizione questo memoriale, da lui recuperato all’Archivio segreto vaticano. Rivolgo anche un pensiero di riconoscente gratitudine alla prof. Katerina Papatheu, docente di neo-greco all’Università di Catania, e alle sue valide collaboratrici, le dr. Maria Rita Mangano ed Emma Petrosino, che hanno curato con grande acribia filologica la traduzione in lingua italiana dell’appello del Rodotà che costituisce la prima parte del memoriale indirizzato a Clemente XI.

Alle radici del Cristianesimo

Appunti e riflessioni ripresi dalla bozza predisposta 
 

dalla Commissione intereparchiale in vista del Sinodo (2003)


II. LE TRE CIRCOSCRIZIONI 
BIZANTINE IN ITALIA

27. Chiese bizantine in contesto occidentale

Le due eparchie di Lungro e di Piana degli Albanesi e il monastero esarchico sono tre Circoscrizioni ecclesiastiche, ciascuna con una propria identità, ma con diverse caratteristiche comuni. Tutte e tre sono direttamente dipendenti dalla santa Sede  e soggette al nuovo Codice dei Canoni delle Chiese Orientali (CCEO). Vivono e organizzano la propria azione ecclesiale sulla basse della tradizione bizantina, da cui traggono la loro taxis liturgica, la loro spiritualità e le loro strutture. Il monastero di S.M. di Grottaferrata è la continuità e la testimonianza vivente della fase italo-greca della presenza bizantina in Italia, che ha le sue radici nel periodo della piena comunione (sec. X) fra Bisanzio e Roma, nonostante il sopruso dell'Imperatore Leone III che aveva strappato dalla giurisdizione del Papa la Calabria, la Sicilia e l'Illirico sottomettendole al patriarcato di Costantinopoli. I fondatori S. Nilo e San Bartolomeo provenivano dalla Calabria, dove in seguito (sec. XV) si stabilirono le popolazioni albanesi immigrate dall'Epiro che rivitalizzarono la tradizione bizantina in Italia.

Le due Eparchie di Lungro (1919) e di Piana degli Albanesi (1937) sono costituite dai residui di queste immigrazioni, da quelle comunità che hanno resistito durante cinque secoli alla latinizzazioni. La tradizione bizantina accomuna queste Circoscrizioni ecclesiali e le distingue dal mondo religioso circostante.

Esse vivono però a stretto contatto con la Chiesa di tradizione latina nella comunione di fede e nella distinzione ecclesiale.

Le parrocchie che compongono le due eparchie fino alla loro creazione nel secolo scorso, sono state parte integrante di diocesi latine da cui hanno ricevuto forme cultuali e influssi di mentalità latine e della pietà popolare meridionale che determinano tuttora vari problemi pastorali. Un processo di assunzioni di elementi locali latini ha inficiato anche la vita dell'Abbazia di Grottaferrata, tanto che determinarono il papa Leone XIII (1881)  ad una riforma del rito e ad un recupero bizantino della stessa struttura interna della Chiesa del monastero. Ciò ha promosso una rifioritura della vita del monastero, eretto ad esarcato nel 1937.

Caratteristica interna di queste Circoscrizioni è che le loro parrocchie non sono in continuità territoriale, ma dislocate in mezzo a villaggi di tradizione liturgica latina, situazione che solleva problemi pastorali di comunicazione, ed anche di rapporti interrituali.

Queste tre circoscrizioni bizantine in Italia vivono nella piena comunione di fede e di vita ecclesiale con la Chiesa latina, la Chiesa originaria e maggioritaria nel Paese. I tre Ordinari sono membri delle rispettive Conferenze Episcopali Regionali e della Conferenza Episcopale Italiana. E con la loro esistenza queste tre Circoscrizioni, costituiscono una testimonianza della unità e diversità nella Chiesa di Cristo.

E' naturale che le due eparchie, e nei suoi limiti specifici, anche il monastero esarchico, sono immerse nel contesto pastorale dell'ambiente circostante, pur possedendo ciascuna proprie risposte ai problemi che quotidianamente incontrano.

Proprio per rispondere ai problemi comuni è stato convocato il I Sinodo Intereparchiale (1940) come risulta dallo stesso decreto di indizione. E nella stessa prospettiva si inserisce il II Sinodo, al quale gli Ordinari richiedono che in forme rispondenti ai tempi e alla maturazione ecclesiastica verificatasi in questi decenni affronti i vari aspetti della vita liturgica, catechetica e pastorale.

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La Laicità

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La pensa così ...

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La fede cattolica, se colta nella sua verità, rafforza l'identità del credente e, proprio per questo, lo apre al dialogo e all'incontro con tutti, e particolarmente con le altre religioni, proprio perché Gesù Cristo, in quanto rivelazione piena di Dio, coglie l'intero universo religioso dell'uomo, comunque si manifesti. E si può dire, inoltre, che il cattolicesimo è anche la garanzia più chiara per la stessa laicità proprio perché è dalla fede cattolica (e cristiana)  che ha avuto origine la distinzione tra Dio e Cesare, tra Stato e Chiesa. Senza queste radici la laicità rischia di cadere nell'insignificanza.

Vincenzo Paglia

 Arcivescovo, presidente della Pontificia accademia per la vita e gran cancelliere del Pontificio istituto Giovanni Paolo II. È consigliere spirituale della Comunità di Sant'Egidio

Nt. 20.04.1945

Era il 31 Luglio

1556 

Muore a Roma il religioso spagnolo Ignazio di Loyola. Fu il fondatore della Societas Iesu (Compagnia di Gesù), ordine gesuitico di cui il primo rappresentante ad esser stato eletto pontefice sarà papa Francesco.

1912 

Nasce a Brooklyn l’economista Milton Friedman, tra i fondatori del pensiero monetarista, premio Nobel per l’economia nel 1976 e massimo esponente della Scuola di Chicago. 

Già al centro delle critiche di governi e società civile negli ultimi decenni a causa degli effetti devastanti che hanno accompagnato e tuttora accompagnano i cosiddetti piani di aggiustamento strutturale e l’aggravarsi della spirale del debito estero dei paesi in via di sviluppo, il Fondo monetario è stato ed è tuttora oggetto di un animato dibattito politico, in particolare negli Stati Uniti. Diverse sono le critiche che si muovono da destra e da sinistra. Economisti tradizionali, quali il padre del monetarismo Milton Friedman, accusano il Fondo di essere interventista e di interferire con il libero mercato, posizione questa che ricalca in parte gli attacchi della destra neoliberista. Secondo altri economisti quali Jeffrey Sachs, il Fondo applica ricette errate, utilizzando gli stessi strumenti di stabilizzazione e le stesse politiche in paesi diversi.


1919 

Nasce a Torino il chimico e scrittore Primo Levi, sopravvissuto all’Olocausto.

Più che la pace, la guerra fredda ha imposto – come aveva intuito Primo Levi – una tregua. Ma dopo di essa, oggi chiaramente giunta alla fine, il passato emerge ineludibile.


1932

Si svolgono le elezioni federali in Germania. Vince il Partito nazionalsocialista di Adolf Hitler con il 37,8% dei voti, contro il 21,9% dei socialisti di Otto Wels e il 14,6% dei comunisti di Ernst Thälmann.


Piccola, grande Riflessione

La divisione del lavoro

"In una società civile l'uomo ha continuamente bisogno della cooperazione e dell'assistenza di un gran numero di persone".  

“L'uomo ha un bisogno quasi costante dell'aiuto dei suoi simili.”

Adamo Smith

Filosofo ed economista

1723 - 1790 

sabato 30 luglio 2022

Società feudale. Come funzionava il "potere"

 Piccoli dati: 

Capire come veniva governata Kuntisa

 La ricostruzione che qui tracciamo è frutto di carteggi (testi storici) pertinenti del mondo Peralta-Cardona e, dove questa si rivela carente, di altre realtà feudali del XIV e XV secoli.

 E' dato per scontato che né i Peralta, né i Cardona, e poi i loro successori aventi diritto, si occupassero in prima persona,  del governo dei loro immensi territori di cui contiamo di pubblicare in seguito una mappatura. Il sistema si fondava su un "maestro procuratore" che i documenti dell'epoca definiscono "socius et familiaris" dei signori, il quale oltre che provvedere al governo effettivo dei territori era tenuto a presentare regolari "rendiconti sull'amministrazione di tutte le baronie, contee e terre" facenti parte dei vasti domini. Per ogni realtà locale comunitaria il "maestro procuratore" insediava procuratori di fiducia scelti direttamente dai Peralta-Cardona o da lui.

  A Kuntisa i procuratori per tutto l'intero periodo feudale furono gli appartenenti alla stessa famiglia che i Cardona fecero arrivare dall'area del messinese, dove generalmente risiedevano i Vice-re, e alle cui discendenze anche i Gioeni e poi i Colonna rinnovarono sempre le deleghe per l'esercizio del potere locale.

  Il potere conferito ai procuratori fu sempre unitario, articolato ovviamente su varie funzioni, e sempre appartenente alla stessa famiglia. 

  Avremo modo di entrare nei dettagli sul funzionamento della "baronia", che ovviamente ricalca quello più generale delle altre realtà dell'Isola.


La legge e il cittadino. Solamente qualcosa sulle tante che si dovrebbero conoscere

 (14)   

  Sulle multe stradali.

Come fare ricorso

  Sono possibili due strade: 

1) rivolgersi al giudice di pace (mandando anche per raccomandata il ricorso entro 30 giorni, anche senza farsi assistere da un avvocato, se la multa è inferiore a €. 1.100,oo), ed ovviamente bisogna conoscere un poco le procedure e pagare il contributo unificato (una tassa per accedere alla giustizia).  Bisogna essere presenti alle udienze e spiegare le proprie ragioni.

 2) Si può fare ricorso  al Prefetto entro 60 gg. dal ricevimento della multa.(Gratuitamente). 

 Se l'automobilista paga la multa non può più, successivamente, fare ricorso. Però se il proprietario dell'auto paga, ma l'effettivo conducente è un terzo, al fine di non farsi togliere i "punti", questi può fare ricorso.

 Quando la Polizia contesta l'infrazione, generalmente essa chiede di firmare "per ricevuta" la consegna del verbale. Il fatto che si firmi non implica rinuncia a presentare "ricorso". Implica semplicemente che il verbale arriverà per posta a casa (entro 90 gg.). Se spedita dopo 90 giorni la multa è "nulla".

Oriente Cristiano. Dal numero Speciale dedicato al Venerabile Giorgio Guzzetta (6' testo)

da pag. 57 
a pag. 66

 ANGELO CARD. AMATO    orientecristianopianagmail.com 

ATTUALITÀ DI P. GIORGIO GUZZETTA 

(1682-1756) 

Per illustrare l’originalità e l’attualità del Servo di Dio, Padre Giorgio Guzzetta (1682-1756), non possiamo fare a meno di dare un rapido sguardo alla sua vita. La biografia più diffusa e documentata resta ancora oggi, dopo più di due secoli, quella pubblicata a Palermo nel 1798 dal sacerdote e storico Don Giovanni Cipriano D’Angelo (1763-1832), che la suddi vise in due libri, dedicati rispettivamente alla vita del Servo di Dio dalla nascita alla morte e alle sue virtù. 

 Diciamo subito che il D’Angelo come “Regio Istorico” era una persona altamente qualificata sia per il suo spirito di ricercatore attento e oggettivo sia per la sua frequentazione dei documenti d’archivio. Lo scopo della sua biografia era certo l’edifi

cazione della Chiesa mediante modelli di uomini virtuosi, in modo da suscitare una generosa emulazione, ma anche la raccolta di tutte quelle informazioni biografiche utili al processo di beatificazione del Guzzetta, morto in concetto di santità. 

 1. Sguardo sintetico alla vita 

 «P. Giorgio Guzzetta della Congregazione dell’Oratorio di Palermo nacque nella terra della Piana, colonia de’ Greci-albanesi di Sicilia, situata nella diocesi di Monreale, a 23 di aprile l’anno ottantesimo secondo del secolo passato». I genitori erano di rito greco-orientale. Dopo gli studi con i Padri Gesuiti, fu ammesso al seminario arcivescovile di Monreale. Il biografo annota che il giovane pregò la Vergine Santissima di rendere il suo spirito più penetrante. Una voce lo confermò nell’efficacia della sua preghiera. La sua mente si fece più luminosa e il giovane «divenne l’oracolo di quel seminario».

 Vengono narrati anche altri fatti straordinari, come quello, ad esempio, della pioggia ottenuta dopo le preghiere fatte dal Guzzetta. I Gesuiti volevano averlo tra i membri della loro Società, ma il giovane, ottenuto il Dottorato, aprì una scuola pubblica nella sua patria. 

 Divenne così un educatore di giovani, formandoli non solo alla cultura ma anche alla pratica della vita cristiana, con la frequenza dei sacramenti della confessione e dell’eucaristia: 

 «Era mirabilmente paziente, tenero, non collerico, né violento; esatto, e non amaro ed offensivo in castigarli. In somma era dotato di quanto da Quintiliano ricercasi in un buon precettore». 

 Non trascurava i suoi studi, apprendendo il greco e studiando il Concilio di Firenze, per poter poi attendere in età più avanzata alla conversione degli scismatici. Dopo un breve periodo alla corte del Cardinale Francesco del Giudice, Arcivescovo di Monreale, abbraccia, su invito di Padre Simone Zati dell’Oratorio, la Congregazione dell’Oratorio, nella quale fu ammesso il 15 dicembre 1706 all’età di 24 anni. La vestizione avvenne il primo gennaio del 1707 e l’ordinazione sacerdotale il 22 dicembre, dopo aver ottenuto il passaggio dal rito greco a quello latino. 

 Predicatore «cui non mancava né dottrina, né prudenza, né pietà [...] fu un degno successore degli Apostoli nel saper spargere ne’ cuori de’ fedeli la parola di Gesù Cristo». 

 La sua predicazione era nutrita di Sacra Scrittura e di Padri della Chiesa e aveva « un’indicibile energia, e veemenza in correggere il vizio ed il peccatore, una certa ammirabile semplicità nel dire, ed una gravità sì grande che tralucer facea i suoi sovrani talenti, de’ quali il Signore avealo dotato». 

 Un suo sermone pronunciato l’ultima domenica di Carnevale toccò talmente gli animi dei fedeli, che non pochi chiesero e ottennero delle copie da P. Giorgio. 

 Era confessore ricercatissimo, soprattutto dalla gente semplice e povera. Il biografo lo descrive come «mansueto, amorevole, dolce, piacevole e [...] sensibile». Avendo le qualità e i pregi sia di un Confessore che di un Direttore di anime, amministrava il Sacramento della Confessione con «un cuore di padre, tenero, prudente, pacifico, paziente, amabile». 

 Ebbe anche cariche di responsabilità all’interno della Congregazione, come, ad esempio, quella di maestro dei novizi. Per tre anni vigilò sull’esatta conoscenza e applicazione delle Regole, sulla frequenza quotidiana alla S. Messa, sulla preghiera e sulla lettura di libri spirituali, sulla assiduità alla confessione frequente. Pur essendo di carattere grave, cercava di essere lieto e gioviale, sulla scia di San Filippo Neri. 

 A un certo punto ebbe l’intuizione di fondare una comunità di preti dell’Oratorio nella sua città natale:

 «Conoscendo il P. Giorgio di quanto bene e vantaggio era all’anime l’adorabile Istituto del suo Santo Patriarca Filippo Neri, volle nella Piana sua patria istituire la Congregazione de’ Padri dell’Oratorio composta di Preti celibi albanesi». 

 A tal fine sceglie alcuni dei virtuosi Preti greci, li istruisce e li veste dell’abito de’ Filippini. Il 3 agosto del 1716 apre nella Piana la Congregazione dei preti celibi di rito greco, contigua alla venerabile parrocchiale Chiesa di S. Giorgio, della quale ebbero l’uso dalle autorità locali. Si trattò all’inizio di sette Sacerdoti e tre Fratelli laici, i quali pur osservando i riti greci professavano la disciplina latina e le Regole della Congregazione. Lo stesso Guzzetta riporta, in una sua lettera, un episodio  curioso. A uno di questi sacerdoti non piaceva unirsi a una Congregazione intitolata a un Santo latino, ma avrebbe voluto per titolare un Padre greco. Per questo introdusse in un’urna più biglietti con nomi di Padri greci e uno solo con quello di S. Filippo Neri. Il risultato del sorteggio fu sorprendente: per ben tre volte di seguito uscì solo il nome di S. Filippo Neri. P. Guzzetta era fiero di questa fondazione greco-latina affermando: «E confido, che lo Spirito Santo siccome partendosi da Costantinopoli, d’indi a poco andò tutto a ricoverarsi nel petto del nostro Santo Padre Filippo Neri, così dal suo petto sia altra volta a far ritorno in Constantiopoli per mezzo di questi nuovi suoi figli albanesi». Fonda poi a Palermo, nel 1734, un Seminario grecoalbanese per i suoi giovani connazionali, contiguo alla parrocchia di San Nicolò de’ Greci, in modo che il parroco greco di Palermo potesse essere agevolato nella sua cura pastorale e liturgica dalla presenza e dalla collaborazione dei giovani Seminaristi. Non solo egli dotò il Seminario degli indispensabili supporti economici, ma soprattutto di una disciplina di pietà e di studio, convinto com’era che - secondo la massima di San Francesco di Sales - la santità e la dottrina sono come i due occhi del sacerdote. 

 Nel regolamento, approvato a Roma nel 1757, pochi mesi prima della morte del Guzzetta, si possono notare alcune costanti della formazione da lui voluta: amore alla santa Chiesa cattolica, desiderio di unione con i Greci ortodossi, cura della tradizione liturgica bizantina e della lingua greca, oltre che di quella latina e italiana: 

 «Debbono [...] gli alunni interporre sempre la validissima intercessione di Maria Santissima [...] per l’esaltazione dell’unica Santa, Cattolica, Apostolica Chiesa, e singolarmente in tutte le loro comuni e private orazioni, e vieppiù ne’ santi sacrifici, e comunioni pregheranno vivamente il Signore, che per il sangue preziosissimo del suo divino Figliuolo si degni ridurre tutta la chiesa greca alla tanto sospirata unione colla santa madre, e maestra di tutte le Chiese, l’apostolica Romana». 

 Il Servo di Dio si adoperò con zelo non solo a favore dei suoi connazionali albanesi, ma anche dei Greci scismatici, che egli voleva vedere rientrare nella Chiesa cattolica: 

 «Il P. Giorgio perciò tutti i mezzi adoprò, per quanto gli fu possibile, che gli scismatici greci del Levante, i quali alla gloria ed alla volontà del Signore sono contrari, fossero ridotti nella strada della verità. Ei sempre si adoperò con carità veramente cristiana per la conversione loro. Grandemente studiossi di come poterli far ritornare nel seno della cattolica Chiesa insin dalla sua fresca età nel seminario di Monreale, quando ardentemente diedesi allo studio della lingua greca, e, ricevuta la laurea dottorale, a quello della Storia del Concilio Fiorentino». Annota ancora il biografo: «Il suo scopo essendo quello di purgarli dai loro errori, e di assoggettarli al dolce giogo della santa romana Chiesa, verso loro usava tutta la possibile carità di un buon cristiano. Comandava perciò a’ Superiori e agli alunni del suo seminario albanese, che andassero spesso a visitarli, verso loro si mostrassero cortesi, dolcemente li trattassero, soavemente l’istruissero, e li animassero a frequentare la parrocchia de’ Greci». 

A tale proposito il biografo riporta un intervento severo di Padre Guzzetta nei confronti di un Seminarista che aveva trattato da scismatico un sacerdote orientale: 

 «Sappi, o figlio, che mia mira è stata nel fondare il Seminario non la santificazione solamente de’ nostri Nazionali, ma di chiamare altresì al seno della Chiesa cattolica que’ poveri Greci scismatici, i quali vivono negli errori di Fozio. Non ista-re dunque nell’avvenire ad usar verso loro de’ rimproveri, acciocché non si scoraggiassero di convivere in Seminario, ma sii con essi caritatevole, ed amoroso».

 Il desiderio del Guzzetta era quello di una grande riconciliazione ecclesiale: 

 «Erano invero le mire del P. Giorgio assai grandi. In mente avea, e pretendea la conversione di tutto l’Oriente e la riconciliazione della Chiesa greca con la latina. Questo fu il suo primario scopo della fondazione in Palermo del Seminario greco-albanese, e nella sua patria della Congregazione dell’oratorio de’ Preti celibi. Egli pensava che i giovani ben educati in Seminario e ben istruiti nelle scienze, nel timore di Dio e negli insegnamenti di Gesù Cristo, abbracciando lo stato ecclesiastico con vita celibe erano per ritirarsi nella maggior parte in Congregazione, e ben esercitandosi nelle sante virtù, poi dalla sacra Congregazione de Propaganda nella conveniente età erano per esser destinati alle missioni dell’Oriente ». 

 Per questo, ad esempio, esortava i Monaci basiliani di Mezzojuso che fossero osservanti stretti della vita monastica orientale ammonendoli a osservare con esattezza non solo i riti liturgici, ma anche le consuetudini monastiche orientali. Li spronava pertanto a «non lasciar giammai l’abito, né la barba, né i lunghi capelli, come hassi in costume presso i Monaci di Oriente ». 

 Era sua convinzione che fosse missione dei greci cattolici la conversione di tutti i greci separati da Roma. 

 Altre notevoli imprese di P. Giorgio furono la creazione di opere di pietà, la promozione alle cariche ecclesiastiche di persone virtuose e dotte, l’opera di consiglio ai Vescovi di Sicilia per la disciplina del clero e la riforma delle loro diocesi. 

 A questa intensa attività apostolica egli associò sempre la sua orazione e l’esercizio delle virtù. 

 Provato da una lunga malattia che lo rese quasi cieco e dall’usura degli anni, P. Giorgio morì il 21 novembre del 1756 all’età di 75 anni. Da Partinico la salma fu trasportata a Palermo nella Chiesa della Congregazione dei Padri Filippini della capitale. Il rimpianto per la sua scomparsa si manifestò non solo nella sua terra e presso i suoi connazionali, ma anche fuori della Sicilia e a Roma, presso il Sommo Pontefice Benedetto XIV e presso i Padri dell’Oratorio di Roma, della Chiesa nuova, i quali solevano chiamarlo «Patriarca dei Greci di Sicilia». Morto in concetto di santità, il processo di beatificazione, dopo una lunga pausa, è stato ripreso nel 2001.

2. Le virtù di P. Guzzetta 

 Dopo aver delineato la vita del Guzzetta, il Libro II della biografia di Giovanni D’Angelo è consacrato a una articolata esposizione delle sue virtù, in primo luogo alla profondità e alla sincerità della sua fede cattolica e del suo attaccamento al Papa e alla deplorazione della divisione esistente con i Greci orientali. A tal riguardo il biografo riporta questo episodio molto significativo: 

 « Un dì il nostro Servo di Dio trovavasi nella Matrice Chiesa di Monreale, divotamente assistendo alla Messa solenne. Or fuvvi un certo, il quale cantandosi il Credo, alle parole Qui ex Patre, Filioque procedit, per ischerzo alle orecchie di lui disse, che quelle parole cantavansi contro la Fede de’ suoi Greci albanesi. Fu ciò bastante a fargli accendere al suo solito il volto, ed a farlo prorompere in alte voci, protestando che la fede de’ suoi Albanesi era la Fede cattolica della Chiesa di Roma». 

 Egli si vantava di essere puro Latino (in realtà intendeva dire: Cattolico) col rito greco, depurato da ogni errore. 

 Altrettanto grande e viva era la sua speranza, la sua fiducia nella Provvidenza divina - la cui presenza benefica sperimentò più volte in casi di necessità spirituali e temporali - e il suo amore verso Dio. 

 Tra le sue devozioni più care c’era la pietà eucaristica, che egli manifestava nella celebrazione quotidiana della Santa Messa e nell’adorazione del Santissimo Sacramento dell’altare. Intensa era anche la sua devozione a Maria, vissuta non solo nella celebrazione delle sue feste ma anche nella recita del Santo Rosario. 

 A tale riguardo il biografo annota: 

 «La semplice rimembranza del nome di Maria riempivagli il cuore di dolcezza e lo trasportava con santo entusiasmo a parlarne coll’espressioni le più tenere e con avere allora il suo volto assai acceso».

 Oltre ai titoli del Rosario, dell’Odigitria, del Buon Consiglio era devotissimo del mistero dell’Immacolata Concezione di Maria, parlandone con ardore e difendendolo contro i negatori mediante il voto di martirio, che a quel tempo era comune anche ai siciliani. 

 Tra le sue virtù umane più spiccate emergeva la sua prudenza, la sua pazienza, la sua temperanza, e soprattutto la sua fortezza, cioè quella costanza nel portare a termine i suoi progetti nonostante le difficoltà e le avversità. 

 Il suo spirito di carità nel venire incontro ai bisogni altrui si univa alla sua cristiana povertà, al distacco dalla cose terrene. Visse poveramente, in perfetta castità e umiltà. 

 Era sommo lo studio che egli metteva per indurre i suoi connazionali a seguire il celibato. Annota il biografo: 

 «Egli loro facea vedere, che un Sacerdote unito in matrimonio difficilmente adempir può gli obblighi del proprio stato, poiché attender deve all’educazione dei propri figli, ed alle loro domestiche faccende. Al contrario però un Sacerdote celibe tutto unito al suo Dio sta sempre pronto con santa indifferenza a seguir prontamente la sua vocazione, non venendo ritardato da alcun impedimento». 

 La biografia del D’Angelo viene conclusa con l’elogio dell’umiltà di Padre Guzzetti:

 «Coronò le virtù tutte del P. Giorgio la sua singolare umiltà. Non la fece egli consistere in qualche esterna dimostrazione, ma con la scorta del Nazianzeno in quella costanza di animo, per cui l’uomo superiore a quanto il mondo, e l’amor proprio gli propone di lusinghevole, e specioso, si diporta con la maggior sublimità di spirito in ogni incontro, e nutrisse frattanto di se stesso nel suo cuore un abiettissimo sentimento». 

 Attribuiva alla Provvidenza la riuscita delle sue opere e continuamente esortava i suoi giovani con queste parole: «Figli miei, siate umili, siate bassi». 

 Sulla stanza più frequentata del Seminario fece scrivere queste parole: «Superbia Graecos dejecit, humilitas subleva-bit» (la superbia umiliò i Greci, l’umiltà li esalterà). 

 Riportiamo il giudizio conclusivo che di P. Guzzetta dà il suo principale biografo: 

 «Le virtù rare del P. Giorgio Guzzetta, i suoi gran meriti, ed i suoi sommi talenti a tale celebrità e buon nome lo innal zarono, che lo resero degno del rispetto, della venerazione e della stima de’ Letterati, de’ Principi, de’ Prelati e delle più di stinte persone in Sicilia, in Napoli, in Roma ed altrove. Eglino più fiate lo colmaron delle più giuste lodi, portavansi a visitar lo in camera per riceverne de’ consigli, riputaron le sue parole altrettanti oracoli della cristiana sapienza, ed il suo buon esem pio stimaron dover essere lo specchio dell’uomo cristiano. In somma egli divenne l’eroe della Sicilia e del Cristianesimo e degno della venerazione de’ secoli e delle nazioni». 

 I Padri dell’Oratorio di Piana delinearono in modo felicissimo la figura del loro fondatore con la seguente iscrizione in latino: 

 «Pater Georgius Guzzetta, Congregationis Oratorii Panormi, huius patrii soli nostrae Congregationis, ac Seminarii Albanensium fundator, foederi graecae cum latina Ecclesia studiosissimus, pauperum pater, juventutis cultor, virorum praestantium ad praeclara munia patronus, vitae innocentia, religione, litteris, linguis, prudentia, cogitandi agendique dexteri tate clarissimus... proinde clarus, superis clarior, sibi vilissimus». 

 Con maggiore brevità ma con altrettanta perspicacia anche i Rettori del Seminario Greco di Palermo, nel 1771, prepararono la seguente iscrizione lapidaria: 

 «Georgio Guzzetta Albanensi, 

 Congregationis Oratorii Panormi Presbytero 

 Quoad ad Graecam Sanctae Romanae Ecclesiae Conciliandam 

 Genti suae seminarium 

 A Carolo III Siciliae rege dotatum erexerit perficiandumque curaverit Parenti Piissimo Albanenses».

 Il sogno profetico di P. Guzzetta e la sua attualità 

 Da questo semplice sguardo biografico il Guzzetta emerge non solo come un personaggio eminente, di alto profilo spiri tuale, ornato di molteplici virtù, ma anche come un uomo di cultura e di azione, educatore di giovani, predicatore, confessore, maestro di novizi, scrittore, fondatore della Congregazione dell’Oratorio a Piana, fondatore a Palermo del Seminario per la formazione degli albanesi. Ma il filo dorato che annoda le sue molteplici iniziative in un unico progetto culturale ed ecclesiale - e i suoi contemporanei lo avevano già notato - era il sogno di realizzare l’unione della Chiesa greca con la Chiesa cattolica. A questa sua utopia egli dedicò tutte le forze della sua intelligenza e della sua creatività, non risparmiando fatiche e disagi e sopportando incomprensioni e umiliazioni. E questo suo sogno egli lo vedeva realizzato mediante sacerdoti greco-albanesi, di rito bizantino, ben formati culturalmente, teologicamente e spiritualmente, che potessero diventare missionari credibili dell’unione tra le chiese ortodosse greche e la Chiesa cattolica. Il Guzzetta si presenta così come un ecumenista ante litteram. Nota giustamente Antonino Paratore: « Questo grande desiderio del Servo di Dio che voleva vedere realizzato, anche se ancora non attualizzato, tuttavia ha portato il clero albanese di Sicilia ad avere una seria preparazione teologica, spirituale e liturgica che ha sortito come effetti la rinascita e la ripresa del rito greco nelle comunità italo-albanesi di Sicilia che ancora oggi esprimono la loro fede secondo la Tradizione greco-bizantina in comunione con la Chiesa di Roma e che per questo motivo sono immensamente grati alla Provvidenza divina». A questo sogno unionistico del Guzzetta si accompagnano altri due elementi che dimostrano anch’essi l’originalità e l’attualità del suo progetto profetico: l’attaccamento e la valorizzazione della cultura della sua patria d’origine e la rivendicazione costante delle inequivocabile identità cattolica del suo popolo, con l’esplicita sottolineatura che, dopo l’invasione turca, la comunità albanese aveva preferito l’esilio in Italia piuttosto che abbandonare la fede della Chiesa cattolica. 

 Per quanto riguarda la valorizzazione della sua comunità albanese si pensi alla fondazione dell’Oratorio a Piana, all’istituzione del Seminario a Palermo per la formazione culturale e spirituale di giovani albanesi, e anche alla sua opera principale “De Albanensibus Italiae rite excolendis...”, rimasta inedita e forse da ritenersi in parte perduta. Di recente, infatti, è stato ritrovato il Libro I, di questo “opus eruditissimum”, che contiene anche il piano dell’intera opera in tre volumi: nel primo l’Autore tratta degli Albanesi d’Italia: numero, origine, costumi, lingua, fede, pietà; nel secondo trattererebbe dei riti greci, della loro antichità e della loro corrispondenza con i riti latini; nel terzo si parlerebbe più in dettaglio dei singoli riti. 

 In quest’opera - almeno nel primo libro rinvenuto - ricorre come un ritornello l’affermazione che la fede degli Albanesi è libera dallo scisma di Fozio e quindi è pura ed è la stessa della Chiesa Cattolica di Roma, alla quale sono sempre rimasti fedeli. 

 In un recente breve ma denso articolo Alberto Venturoli afferma: «Le disposizioni ecclesiastiche di allora favorivano il passaggio di queste popolazioni di rito bizantino al rito latino; ma la Provvidenza voleva salvare il culto Orientale in questi Cristiani e tramite Padre Giorgio riuscì ad assicurare alle Colonie Albanesi di Sicilia un clero formato spiritualmente e liturgicamente nel Seminario e nella Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri di Piana degli Albanesi - da lui fondati. 

 Il rito bizantino ebbe così, tra queste popolazioni, nuovo impulso; vi rifiorirono la pietà religiosa e la vita liturgica, lo studio della lingua e della letteratura albanese: tutto indirizzato alle alte finalità missionarie che furono lo scopo unico della vita del Santo Filippino, finalità riassunte nelle incisive parole scolpite sotto il monumento erettogli dai suoi contemporanei nel Seminario: “ Ad Graecam Sanctae Romanae Ecclesiae conciliandam”». A questa ispirazione, che oggi chiameremmo ecumenica, si devono anche sia la creazione della Diocesi di Piana degli Albanesi, eretta da Papa Pio XI nel 1937, per assicurare in perpetuo l’esistenza del rito bizantino in Sicilia, sia l’Associazione Cattolica Italiana per l’Oriente Cristiano, che sorse a Palermo nel 1929 sotto la presidenza del cardinale Luigi Lavitrano.

 Vittorio Peri, che considera il P. Guzzetta «senza dubbio una delle figure più importanti di questa fiera ed indomita minoranza», rileva al riguardo: «La presenza degli Albanesi in Italia e la loro tenace fedeltà all’originaria tradizione della loro Chiesa orientale hanno costituito per tutta la Chiesa d’Occidente un richiamo concreto e provvidenziale [...] a tener conto delle esigenze di una cattolicità più piena, non solo professata nella dottrina ma realizzata nella prassi». 

 A proposito, poi dell’approvazione del Seminario greco-albanese a Palermo, a Roma, nella Congregazione di Propaganda Fide, c’era un’altra ragione per favorire la creazione di questo centro di studi ecclesiastici: 

 «In una consultazione del 1739 si stabilisce che debbano dichiararsi irregolari e sospesi dal sacerdozio alcuni chierici albanesi della diocesi di Agrigento passati in Levante, secondo un uso che perdurava, per farsi “ordinare dagli scismatici”, contando poi sull’assoluzione che in questi casi la Santa Sede era solita concedere. La Congregazione romana stima “disonore del sacerdozio ed infamia della Nazione” tale consuetudini e ricorda che proprio per troncarla “si è fondato a Palermo un Collegio come quello di Calabria”. Il Seminario cioè si proponeva anche di eliminare o ridurre ogni motivo di diffidenza o di sospetto dottrinale della gerarchia episcopale latina nei confronti degli appartenenti al rito greco, favorendone in tale modo il mantenimento e l’osservanza in Sicilia». L’originalità della figura di P. Guzzetta consiste anche nel fatto che, nonostante che egli avesse ricevuto una formazione interamente latina, prima presso i Gesuiti di Trapani e poi nel Seminario di Monreale - formazione alla quale fu fedele fino alla morte -, la sua intima convinzione era, però, la valorizzazione dell’eredità culturale e liturgica propria della sua gente, nel cui rito era stato battezzato e nella cui devozione era stato educato dai suoi genitori e dal suo parroco: 

 «Tale attaccamento cosciente alla “ sua Chiesa Greca “non era allora un atteggiamento comune o consueto, bensì insolito al punto da essere considerato strano e stravagante in un sacerdote di superiore cultura e con ottime possibilità di affermazione nella società ecclesiastica e politica predominante, che era quella italiana. Il contesto favoriva in tutti i modi il passaggio degli Albanesi di rito orientale al rito maggioritario latino, e non man-cavano sentimenti di ostilità e di disprezzo etnico, oltre che di sospetto dottrinale, da parte dei vescovi e del clero italiano verso questi cristiani, che l’isolamento culturale costringeva in una condizione ecclesiastica e sociale subalterna e poco ben vista. La sussistenza di un clero uxorato; la assenza di centri formativi per i futuri sacerdoti, ignari abitualmente della lingua greca, in cui celebravano la liturgia e i sacramenti (senza dire della lingua e della teologia latina); la decadenza delle consuetudini esposte ad inevitabili ibridismi culturali e disciplinari, come un’osservanza progressivamente meno esatta del rito liturgico; i numerosi pre-giudizi della popolazione non albanese tra cui vivevano: erano altrettanti motivi passibili d’essere considerati origine d’inferiorità e capaci di fare soffrire un cristiano che appartenesse a quella Chiesa amandola come la propria». Facendosi promotore della valorizzazione del patrimonio linguistico, culturale e religioso degli albanesi di rito greco P. Guzzetta voleva superare quel modo superficiale e ignorante con cui spesso i latini vedevano e valutavano gli altri riti. Per questo, nell’operetta pubblicata nel 1772 con lo pseudonimo di Ellenio Agricola, egli giustifica e difende contro un divieto pontificio, l’uso delle monache basiliane del monastero del SS. Salvatore di Palermo, di portare una crocetta d’argento sul petto. 

 La sua lamentela è l’incomprensione e l’ignoranza che si ha da parte anche di persone sagge latine a comprendere il significato degli usi e costumi altrui. Il Guzzetta li paragona alle Là-mie, grossi insetti che vedono e sanno tutto dei tronchi interni degli alberi su cui vivono, ma sono orbi all’esterno. 

 Il Guzzetta pur magnificando la Chiesa greca e i riti greci, tuttavia ci teneva a sottolineare che, diversamente dalla Chiesa greca, la Chiesa albanese, pur adoperando il rito greco, tuttavia era esente da ogni errore e da ogni scisma. Interessante, anche perché coincide con l’orientamento del Guzzetta, l’opera rimasta inedita di p. Paolo Parrino, primo Rettore del Seminario, il cui titolo era: “ De perpetua Ecclesiae Albanensis consensione cum Romana”. In quest’opera si rileva l’originalità degli alba¬nesi, che, nei confronti dei greci, sono autonomi etnicamente, geograficamente, culturalmente e linguisticamente. Grande pena, perciò, procurò al Guzzetta la Bolla Etsi pastoralis di Benedetto XIV, del 25 maggio 1742, contenente pre-scrizioni e divieti per il rito greco in Italia. Veniva proibita, ad esempio, la cosiddetta “ communicatio in sacris “ fra gli Alba¬nesi di rito latino e quelli di rito greco, in tal modo eliminando una tradizione che in Sicilia si seguiva comunemente. 

 Il disagio del Guzzetta consisteva nel fatto che egli vi vedeva una certa sconfessione del suo lavoro di avvicinamento e di comprensione dei due riti, che non dovevano essere considerati rivali o alternativi, ma riconosciuti come aventi pari dignità e valore nel rendere culto a Dio. Inoltre, egli difende i suoi connazionali dal sospetto che si ha nei cofronti dei greci scismatici. Essi - dice con forza il Guzzetta - «non sono più Greci, ma veri e puri Latini col rito greco, depuratissimo di ogni errore, e quello stesso ritengono religiosamente per soli due motivi: il primo per mantenere nella Santa Chiesa un vestigio sacrosanto della primitiva Santa Chiesa Orientale, ed il secondo per trovarsi sempre abili e pronti a giovare alla medesima, ove il Signore si compiaccia una volta di chiamarla all’ubbidienza della Santa Romana Chiesa». 

 Si deve precisare comunque che in Sicilia il governo di Napoli si oppose all’applicazione della Bolla e quindi per molti anni si continuò con la prassi precedente, nonostante i richiami di Propaganda Fide?

 A questo punto non si può non concordare con quanto afferma Domenico Morelli circa le tre intuizioni profetiche del Guzzetta, particolarmente significative oggi. 

 La prima è la necessità oltre che l’utilità di istituzioni che rispondano ai bisogni delle comunità di rito greco, con formazione e personale adeguati. 

 La seconda riguarda la valorizzazione della originalità culturale e spirituale della tradizione greco-albanese d’Italia. Questo è oltremodo utile e arricchente sia per l’intera Chiesa cattolica italiana, sia per il dialogo ecumenico, che oggi ci impone il dovere di risolvere il dramma della divisione con le Chiese orientali e ortodosse separate da Roma.

 La terza intuizione profetica del Guzzetta, oggi forse più attuale che mai, riguarda il ricordo struggente che egli aveva per la sua Albania, l’antica Madre: «Era vivo nel Guzzetta la consapevolezza che la Chiesa italo-albanese, come ramo di credenti albanesi che nel secolo XVI si sono stabiliti in Italia, dovesse rimanere legata alla terra d’origine». 

 Dopo il lungo periodo della turcocrazia e dopo il brutale regime comunista, la riconquistata libertà della nazione albanese richiama tutti i suoi figli emigrati altrove a ricordarsi della loro “terra patria” e soprattutto a riportare in essa la fede cattolica di un tempo. 

 In conclusione, raccogliamo dallo stesso P. Guzzetta il simbolismo dello stemma da lui scelto per il Seminario: un cuore posto in fiamma tra due rami, uno di palma e l’altro di olivo, con la significativa scritta in greco e in latino di una frase di san Massimo il Confessore, che diceva: Diligo Romanos ut eius-dem fidei, Graecos ut eiusdem linguae (amo i Romani in quanto della stessa fede, e i Greci in quanto della stessa lingua). L’ulivo, poi, era segno della agognata riconciliazione stabile e piena della Chiesa Greca con quella Latina, mentre la palma simboleggiava la vittoria della Chiesa intera con la riconciliazione e il superamento dello scisma. Speriamo e preghiamo che questo sogno di questo eminente figlio della Chiesa diventi realtà, anche con la vostra preziosa e oggi pienamente riconosciuta collaborazione.