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domenica 31 luglio 2022

Oriente Cristiano. Dal numero Speciale dedicato al Venerabile Giorgio Guzzetta (7' testo)

da pag. 67
a pag. 84

 LA “RINASCITA” ALBANICA 

 E IL RETROTERRA CULTURALE E SPIRITUALE 

 DELL’OPERA DI PADRE GIORGIO GUZZETTA 

 La politica missionaria pontificia nei Balcani tra il XVII e il XVIII secolo

In questo numero speciale di Oriente Cristiano dedicato a p. Giorgio Guzzetta in occasione dell’emanazione del decreto della Congregazione delle Cause dei Santi firmato da papa Francesco, passaggio importante nella sua “causa di beatificazione”, che gli attribuisce - oltre ai già acclarati e speciali meriti culturali che lo pongono al centro della storia della comunità arbëreshe d’Italia - il titolo di Venerabile e gli riconosce le preclari ed eroiche virtù cristiane, ho accolto molto volentieri il cortese invito rivoltomi dal propugnatore di questa “giusta” causa, l’arcivescovo Giorgio Demetrio Gallaro, di partecipare a questa particolare e autorevole ricorrenza editoriale con un contributo che affronta la ricostruzione storico-culturale del background in cui, a mio avviso, va collocata l’incisiva azione pastorale e culturale promossa dall’illustre fondatore del Seminario italo-greco-albanese di Palermo.

 L’obbiettivo di questo excursus mira, infatti, a contribuire a dipanare la matassa della complessa vicenda storica, ad un tempo religiosa e culturale, nonché albanese e arbëreshe, che interessò il secolo XVIII prolungandosi sin nei primi del secolo scorso con il raggiungimento dell’indipendenza nazionale albanese. Si tratta del lungo periodo che registrò la nascita, l’affermazione e il crescente consolidamento del lungo processo che scandì la costruzione dell’identità del popolo di Scanderbeg, ma con una diversificazione dei rispettivi ruoli e con una distinzione di fasi che richiedono ancora di essere descritte e analizzate. La prima fase di questo processo intersecò, integrandosi pienamente con quelle ben più note che le seguirono, il primo ventennio del secolo XVIII con l’elezione al soglio Pontificio di Papa Clemente XI (1700-1721), al secolo Giovan Francesco Albani, discendente di una famiglia “arbëreshe” emigrata in Italia sul finire del secolo XV (1) e destinato a divenire il principale animatore del risveglio culturale delle comunità albanesi residenti nelle due sponde opposte dell’Adriatico. 

 Su questi temi ho avuto modo di intervenire nel corso della solenne commemorazione del III centenario della morte di papa Albani, durante il convegno intitolato “Il ruolo di papa Clemente XI per il risveglio identitario albanese e nella cultura italiana del tempo” che si è svolto a Roma l’11 luglio 2021 su iniziativa dell’Ambasciata albanese presso la Santa Sede alla presenza del cardinale Gianfranco Ravasi. Ritenendo quella circostanza adatta per delineare la portata delle ricadute della politica complessiva del pontificato di Clemente XI sulla comunità albanese - sia di area balcanica che italiana –, ho fatto ricorso al sostantivo opzionalmente plurilingue (latino, italiano, albanese) di “Regeneratio”/“Rinascita” / “Rilindja”, all’uopo associato all’aggettivo “albanica”, chiaramente derivato dal cognome del papa in parola, allo scopo di caratterizzarlo per evitare ogni residuo di ambiguità insito nel medesimo termine con il quale si connotano diverse altre fasi storiche della cultura albanese. 

 Con il sintagma Regeneratio (Rinascita - Rilindja) albanica non intendo affatto enfatizzare l’azione complessiva esercitata da papa Albani oltre il suo reale rilievo storico, quanto di considerarla nei suoi atti concreti e puntualmente documentati al duplice fine, da un lato, di inquadrarla in un’ottica più ampia e complessiva e, dall’altro, di evidenziarne la formidabile spinta assicurata alla difesa e al rilancio della cultura e della identità albanesi che si prolungò nel ventennio dal 1700 al 1721 dominato da papa Clemente XI e che ebbe la forza di aprire importanti e nuovi sentieri alle successive fasi. Se, infatti, si analizzano le proiezioni storiche di tale azione, sono innegabili i tratti che la distinguono come una vera e propria strategia alla quale ricondurre le ragioni profonde della nascita della proficua stagione nota come Rinascita (o Rilindja) culturale arbëreshe, scaturita con la fondazione dei due seminari pontifici per la formazione del clero di rito bizantino-greco di Calabria e di Sicilia, la cui incisiva attività ebbe straordinari sviluppi tra la prima e la seconda metà del XVIII secolo, in particolare avviando un profondo processo di costruzioni di identità grazie all’impulso e agli orientamenti offerti dall’opera di p. Giorgio Guzzetta, conosciuto come l’Apostolo degli Albanesi di Sicilia. 


 Per rispetto dei limiti di spazio consentiti, mi soffermerò su una serie di atti e di avvenimenti riguardanti la comunità nazionale albanese, ma anche la diaspora italo -  albanese nei primi decenni del XVIII secolo. Trattandosi di fatti che discendono dalle linee guida che ispirarono il pontificato di papa Clemente XI, essi non solo evidenziano i capisaldi della politica pontificia a favore delle missioni cattoliche di Propaganda Fide istituite nella parte europea dell’Impero ottomano, ma anche individuano i principi attraverso i quali il Santo Padre volle tutelare la specificità rituale “greco-bizantina” che caratterizzava, e caratterizza tutt’ora, buona parte delle comunità italoalbanesi (o arbëreshe) dell’Italia meridionale. 

 Tali interventi si collocano nel solco dell’azione intrapresa dai suoi predecessori, in esplicita continuità con la politica missionaria pontificia avviata nei Balcani già nel secolo precedente grazie alle istituzioni della Sacra Congregazione di Propaganda Fide (1622) e dell’annesso Collegio Urbano (1627), che a loro volta proseguivano le politiche intraprese dalla Santa Sede con le fondazioni dei due Collegi illirici di Loreto (1580-1798) e di Fermo (1663-1746). Queste strutture, che si rivelarono efficaci ed efficienti strumenti di formazione per i giovani sacerdoti destinati alle missioni, raggiunsero un obbiettivo di straordinaria importanza mediante la creazione di organizzazione ecclesiastica cattolica nei Balcani. Esse non si limitarono a servire alla propagazione della fede e all’apostolato presso gli ortodossi e i musulmani dei Balcani, ma ebbero tra i loro compiti primari l’organizzazione della “resistenza” cattolica di fronte alla vessatoria pressione ottomana. Grazie a una capillare “rete” cattolica alimentata dalle missioni balcaniche di Propaganda Fide, un insieme di chiese nazionali dell’area (croati, bosniaci, albanesi, bulgari) ebbero modo di costituire quell’organizzazione ecclesiastica modulata che, come sostiene Altan Molnár, «basata Palazzo di Propaganda Fide - Roma sui confini dei paesi e dei regni medievali, [fu] capace di preservare il patriottismo di questi popoli nel vasto mare dell’Impero ottomano»(2). L’ambito territoriale di questo decisivo network seicentesco coinvolgeva la parte europea dell’Impero ottomano, la stessa in cui si sono incontrati storicamente il mondo slavo e quello albanese e che oggi include giurisdizioni facenti parte della Serbia, del Cossovo, della Macedonia del Nord e dell’Albania. 

 Il forte impatto dell’innovazione introdotta dalle missioni cattoliche non si ebbe solo in ambito ecclesiale e, nel caso del mondo albanese, sia balcanico che italiano, giunse a incentivare significativamente la formazione “in nuce” di una coscienza identitaria “nazionale” in una misura di gran lunga superiore a quanto sinora non ammesso dalla stessa storiografia ufficiale. A tal proposito non è superfluo ricordare che il primo libro albanese è il “Meshari” (Messale) [1555] di Gjon Buzuku, conservato in copia unica presso la Biblioteca Vaticana, la cui scoperta venne annunciata non a caso proprio a p. Giorgio Guzzetta da mons. Giovan Battista Kazazi, arcivescovo di Skopje, negli anni ’40 del XVIII secolo (3) e che il secondo è la Dottrina Cristiana (E mbësuame e Krështerë) [1592], scritta nell’arbërisht di Sicilia dal papas Luca Matranga, di cui disponiamo ora una magistrale edizione critica del collega Matteo Mandalà (4). Da non trascurare la menzione del catechismo in lingua albanese non ancora rinvenuto ma menzionato nella ampia documentazione che riguardò la missione di evangelizzazione compiuta nel 1584 dal cardinale di origini croate Alessandro Komulović (1548-1608), insieme al gesuita Tommaso Raggio, primo rettore del Collegio illirico di Loreto ed estensore del nihil obstat che autorizzò la stampa della succitata opera di Matranga (5). Si aggiunga anche che tutti gli altri autori della storia letteraria albanese del XVII secolo erano cattolici del nord d’Albania, tutti sacerdoti formatisi nei succitati Collegi italiani, tra i quali spiccarono con le loro opere Pjetër Budi, Frang Bardhi, Pjetër Bogdani. Analogo discorso riguarda l’affermazione delle identità  nazionali in altri contesti dei Balcani coinvolti dalle missioni dirette da Roma e che portarono ad una precoce formazione di una coscienza “nazionale” in ambito bulgaro, bosniaco e croato, così come la chiesa ortodossa contribuì ad esercitare un peso decisivo nella formazione di una coscienza nazionale in ambito serbo ed ellenico (6).

 L’attenzione di papa Albani per il mondo bizantino e albanese 

Analoga fu l’attenzione verso l’Oriente bizantino e albanese che si desume dal programma di papa Clemente XI e che Ludovico Barone von Pastor ha sintetizzato correttamente, sebbene per grandi linee: «Alle chiese separate dell’Oriente il Papa rivolse in genere una particolare simpatia. Ogni anno nella festa di S. Atanasio egli celebrava la messa nel Collegio greco e aumentò notevolmente le sue entrate (7). Spesso egli discuteva col celebre orientalista Eusebio Renaudot e lo invitò a compilare dei memoriali intorno alle missioni in Oriente. Intorno alla situazione religiosa in Albania, il presunto paese d’origine della sua famiglia, egli cercò orientarsi ordinando una visita canonica, alla quale seguì un concilio nazionale» (8) .

 Tale azione di papa Albani non è stata in passato adeguatamente riconosciuta e rimarcata, sia perché i risultati di essa si evidenziarono soprattutto dopo la sua scomparsa – ad esempio, la fondazione del Collegio italo-albanese, che non a caso è stato intitolato al suo successore “Corsini”, cioè a papa Clemente XII –, ma anche perché a causa di una certa tendenziosità dovuta all’impostazione, purtroppo condivisa in area balcanica, di talune storiografie nazionaliste, tanto di ispirazione marxista quanto liberale, che nelle loro interpretazioni tendono a difendere e a trasmettere una fuorviante visione balcanocentrica avendo l’unica preoccupazione di non far dipendere troppo dall’Italia o dal Vaticano le “svolte” importanti avvenute nella storia culturale di questi popoli – e, nel caso che ci riguarda, di quello albanese –, tra le quali va sicuramente annoverata quella impressa da papa Albani nel primo ventennio del XVIII secolo. 

   Assieme all’amico e collega Matteo Mandalà siamo intervenuti spesso nel corso dell’ultimo decennio, usufruendo delle occasioni offerteci da congressi e dibattiti pubblici per invitare i colleghi delle istituzioni albanesi a rivedere certe posizioni espresse in passato e rimaste sedimentate anche nei testi accademici, oltre che nei testi scolastici, d’Albania (9). Si tratta di posizioni superate che perseverano a offrire una periodizzazione un po’ stantia della storia culturale e letteraria albanese tout court e che, provenendo da una ridotta visione ideologica nazionalista, si sforzavano di giustificare la nascita del movimento di rinascita nazionale – la Rilindja Kombëtare Shqiptare – quale frutto del pensiero e dell’azione di intellettuali albanesi d’area balcanica maturato negli anni ’30-’40 del XIX secolo.

 La complessa vicenda della Rilindja, in verità e a nostro avviso, richiede una ben altra riconsiderazione, un diverso inquadramento storico e una radicale revisione delle sue basi epistemologiche. Indispensabile è la scissione dei due concetti di “rinascimento culturale” e di “risorgimento politico” che si intrecciano nella Rilindja e che, tuttavia, seguono traiettorie diversificate che non possono essere forzatamente sovrapposte e confuse, nel tentativo di ricondurne la presunta origine in una indeterminata fase romantica, quando le loro matrici almeno nel secolo precedente trovano già documentato riscontro nella diaspora arbëreshe. In ogni caso, una certa tendenza (o tentazione?) tipicamente balcanica di rifiutare di esaminare determinati processi politico-culturali con uno sguardo più ampio, non limitato alle sole dinamiche balcaniche ma allargato ai gruppi intellettuali nazionali inseriti nelle comunità diasporiche occidentali. La mancata valorizzazione del contributo di tali gruppi, che subivano i benefici influssi dei movimenti di pensiero occidentali, che operavano in regime di maggiori libertà e che non sottostavano al controllo della Sublime Porta, non solo ha sovradimensionato in modo spropositato l’apporto degli intellettuali residenti nei Balcani, diciamo “intra moenia”, ma ha provocato una sottovalutazione grave, se non un vero e proprio ostracismo, del contributo delle comunità “extra moenia”(10). 

Un ribaltamento di queste posizioni si è avuto in seguito a una estesa, accurata e approfondita ricostruzione del contributo settecentesco dato dagli intellettuali italo 73 Numero speciale - Venerabile Giorgio GuzzettaOC albanesi, ecclesiastici e laici, dopo la creazione dei due Seminari italo-greco-albanesi di Calabria (1732) e di Sicilia (1734). Di notevole impatto è stata l’analisi di molte opere, rinvenute soprattutto nel Seminario siculo-albanese, con sede prima a Palermo (1734- 1944) e poi a Piana degli Albanesi (dal 1946 in poi): si tratta di opere rimaste manoscritte e inedite, che solo in questo ultimo ventennio, grazie al poderoso sforzo fatto dal collega Mandalà e dai suoi allievi e collaboratori, sono state studiate e in gran parte pubblicate. L’emersione dagli archivi di questa impressione mole di materiali ha incoraggiato a lanciare l’ipotesi di anticipare di un secolo i limiti cronologici della Rilindja culturale, ponendo i suoi primi paletti con la istituzione delle due eccellenti istituzioni formative al servizio degli arbëreshë d’Italia, cioè agli anni ’30 del Settecento. 

Rilindja albanica, Rilindja arbëreshe e Rilindja albanese 

Con “Rilindja e parë”(Prima Rinascita) o “Një Rilindje para Rilindjes” (Una Rinascita prima della Rinascita) è stata battezzata la lunga e complessa fase di elaborazione dell’ideologia albanista, caratterizzata da uno straordinario e incredibile fervore di studi innovativi e di ricerche originali sulle origini storiche, sulla cultura, sulle tradizioni e sulla lingua degli albanesi, un fervore non a caso alimentato in maniera determinante dai due focolai di cultura posti al servizio della chiesa arbëreshe di rito bizantino. Le indagini avviate hanno confermato da tempo questo dato, mentre le nuove acquisizioni provano che fu proprio papa Albani a indirizzare il dibattito in seno al Collegio dei cardinali di Propaganda Fide negli anni 1718-1719 dopo aver accolto l’istanza collegiale avanzata dai seminaristi del Collegio greco di S. Atanasio e una lettera personale del giovane papas Stefano Rodotà.(11)

 Il nuovo capitolo di questo riposizionamento ermeneutico riguarda oggi la svolta impressa dalla figura di Papa Clemente XI e l’opera da lui direttamente o indirettamente intrapresa durante il suo pontificato (1700-1721): si tratta di due aspetti che non vanno distinti dalla prima Rilindja, ma che, proprio perché essi conferiscono requisiti tanto decisivi al periodo del pontificato di Albani, è inevitabile porre in questione l’ipotesi di un’ulteriore retrodatazione della stagione della prima Rilindja, fissando una fase cronologicamente precedente che, per distinguerla da quella sorta dopo le fondazione dei due Seminari, abbiamo preferito denominare Rilindja “albanica”. 

Il Seminario italo-greco-albanese di Palermo ricoprì il ruolo di primo vero incubatore dell’ideologia albanista, sviluppatasi su basi laiche – cf. il mito pelasgico – nella fase preromantica tra gli albanesi di Sicilia e rilanciata nel periodo romantico tra gli albanesi di Calabria, con un passaggio di testimone “ideale” al Collegio italoalbanese S. Adriano in San Demetrio Corone, destinato a divenire il nuovo e principale incubatore di idee nel corso del XIX secolo. L’occasione di avviare questa inedita stagione di studi albanesi a Palermo muoveva dall’esigenza emersa nel corso del duro e a tratti anche conflittuale confronto apertosi nel corso del Settecento intorno alla questione assai delicata del rito greco e della sua difesa da parte degli arbëreshë (12), i quali non esitarono a manifestare la necessità di prendere le distanze sul piano etnico dai greci e a condurre una serie di studi allo scopo di dimostrare che la comune appartenenza rituale non legittimava la meccanica identificazione degli albanesi – e non solo quelli del Meridione d’Italia – con i greci, così come si era soliti affermare in quel torno di tempo. Questa fondamentale avvertenza agì da stimolo per la corale e approfondita riflessione sulla identità albanese, che ebbe nei due Collegi arbëreshë i maggiori centri di elaborazione e di propagazione. 

Nella Rilindja “albanica” si annoverano azioni che testimoniano un’attenzione rinnovata e speciale di papa Clemente XI, che andava orgoglioso delle origini albanesi della sua famiglia, a questioni che riguardavano il mondo albanese e arbëresh: le ritroviamo primariamente in ambito ecclesiale e religioso, con ricadute culturali e identitarie non certo da sottovalutare se consideriamo il quadro balcanico complessivo in cui si collocano queste azioni, non certo inventate o fantasticate da chicchessia, ma messe in opera comunque da papa Albani e dai suoi collaboratori durante il suo pontificato, e che non certo per mera casualità andranno poi ad incidere sulla comunità nazionale albanese. 

Uno dei primi concreti atti messi in campo da Clemente XI in questa direzione, che come si diceva, va inquadrato tra gli obiettivi di queste missioni cattoliche che puntavano in questa fase critica per il cattolicesimo nei Balcani a riorganizzare le strutture ecclesiali delle minoritarie popolazioni cattoliche, è stato quello di intervenire attraverso un suo uomo di fiducia, il cattarino vescovo di Antivari, e visitatore apostolico d’Albania, Visk Zmajevich (poi arcivescovo di Zara) per riorganizzare la chiesa albanese salvaguardandone i connotati “nazionali”. Da qui subito dopo la sua elezione al pontificato l’indizione del 1° Sinodo dei vescovi dell’Arbën (1703) (13), della cui organizzazione venne incaricato l’arcivescovo di Antivari e visitatore apostolico d’Albania,  Visk Zmajevich (14).

 Lo stesso Zmajevich fu anche il curatore delle due edizioni – di quella in lingua latina e di quella in lingua albanese - con gli atti del Concilio: entrambe queste iniziative vennero rese possibili proprio perché patrocinate direttamente dallo stesso papa Clemente XI, come si evince nella sua lettera a papa Albani posta a mo’ di dedica del libro, edito da Propaganda Fide nel 1706 in versione bilingue – latino e albanese – in cui Zmajevich non manca di rimarcare spesso le origini albanesi del papa: “Tuis au∫piciis, Beatissime Pater, exultans Albana Natio po∫t diuturnam ∫eculorum revolutionem evigilat, atquœ veluti obliviosâ quadam diu jacuit involutâ caligine, sub Albano Pontifice in lucem egre∫∫a ad aram pri∫tinœ felicitatis cur∫um lœtabunda accelerat …..”Excipe igitur, Beatissime Pater, Albanœ Nationis meœ, imò Tuœ potius, vota, ∫ubmi∫∫ionis ob∫equia, lœtitiœ argumenta”(15). 

  Nella introduzione alla sua accurata edizione critica del Dizionario ItalianoAlbanese (1702) di p. Francesco Maria da Lecce (16), Gëzim Gurga fa il punto sulle diverse ipotesi sinora avanzate per cercare di individuare gli autori delle due versioni – quella in lingua latina e quella in lingua albanese – degli atti del Sinodo d’Albania. Sull’attribuzione allo Zmajevich della paternità dei testi in latino che riguardano i lavori e le deliberazioni del Sinodo sono d’accordo tutti, mentre sulla versione in albanese dei testi le opinioni discordano: se per Bardhyl Demiraj l’autore sarebbe lo stesso arcivescovo di Antivari, per Rexhep Ismajli nessun elemento è tanto indubitabile da lasciar stabilire chi sia l’autore. Non regge neppure l’ipotesi che p. Francesco Maria da’ Lecce, redattore del volume, possa esserne stato anche il traduttore, mentre un documento ritrovato da Gëzim Gurga nell’archivio di Propaganda avalla senza ombra di dubbio l’ipotesi, avanzata per primo da Vinçenc Malaj, che individua nel francescano p. Egidio Quinto d’Armento l’autore della traduzione albanese degli atti (17).

 L’unico punto sicuro è costituito dal fatto che il volume con gli atti del Sinodo d’Albania è un documento di grande interesse per la storia ecclesiale e culturale, ma anche per la storia linguistica dell’albanese. Fu lo stesso arcivescovo di Tivari, a porre nel 1709 a Propaganda Fide l’esigenza didattica di impartire nei Collegi che dipendevano da Propaganda, come S. Pietro in Montorio, l’insegnamento dell’albanese per i missionari italiani che si recavano nelle terre albanofone dei Balcani, richiesta accolta e resa esecutiva appena due anni dopo, nel 1711. 

 Nel frattempo, nell’altro Collegio di Propaganda, quello di S. Bartolomeo all’Isola, veniva impartito a partire dal 1709 l’insegnamento dell’albanese, affidato a p. Francesco Maria da Lecce (18). Si tratta, com’è noto, del celebre francescano, autore della prima grammatica della lingua albanese, Osservazioni grammaticali nella Lingua Albanese edita dalla tipografia di Propaganda Fide nel 1716 (19) dopo lunghe ed estenuanti peripezie burocratiche, benché la stessa Congregazione avesse espresso sin dal 1701 parere favorevole alla sua stampa che poi si realizzò anche per le forti pressioni che venivano dagli stessi Collegi, come quello di S. Pietro al Montorio, che formavano i missionari destinati alle terre albanesi dei Balcani. Ma è anche l’autore del Dizionario Italiano-Albanese (1702), rimasto manoscritto per oltre due secoli e edito nel 2009 da Gëzim Gurga, che giustamente osserva: «Asokohe botimi i librave ishte një ndërmarrje e kushtueshme dhe ribotimi i një vepre mund të përligjej vetëm nga përdorimi i dendur dhe nga kërkesa që kishte për të» (20). Infatti, allora non era facile tale impresa, condizionata com’era dagli alti costi della editoria, che richiedeva una preventiva e oculata attenzione alle richieste effettive del mercato e una non semplice operazione di autorizzazioni che in ambito ecclesiastico riguardava le varie “licenze” che le autorità preposte dovevano rilasciare per concedere il diritto di stampa e far così circolare poi liberamente il prodotto librario. 

Se si confrontano le date di stampa di questa prima grammatica albanese, e cioè il 1716, e delle grammatiche delle lingue degli altri popoli dei Balcani, pur se in una geografia linguistica in continua evoluzione a causa delle mutate vicende dei popoli di quest’area fortemente instabile, e per alcuni versi allora molto diversificata da quella odierna, si avverte come la vicinanza con un “potere” importante – in tal caso religioso e politico, insieme, come quello pontificio – sia stata storicamente decisiva per far conoscere e riconoscere già agli inizi del Settecento nel contesto europeo una identità albanese suggellata significativamente dalla pubblicazione della grammatica della sua lingua. Ad eccezione della lingua slavo-dalmatica, la cui prima grammatica fu edita nel 1649, per la lingua romena l’anno di edizione resta il 1787, per la slovena moderna il 1808, per la serba il 1814, per la bulgara il 1835. 

La difesa della chiesa bizantino-arbëreshe avviata da papa Albani su istanza del papas Stefano Rodotà e dei seminaristi italo-albanesi 

E proprio agli inizi del Settecento, grazie al nuovo clima più favorevole creatosi per la chiesa albanese e italo-albanese sotto il pontificato di papa Albani si registrò un passaggio importante nella plurisecolare battaglia condotta dagli arbëreshë in Italia a difesa della loro identità religiosa orientale, che trovava maggiore comprensione a livello centrale, nella politica pontificia che poteva dimostrare, proprio attraverso alla comunità religiosa italo-albanese, che era possibile anche per le altre Chiese ortodosse guardare a questo modello per istituire una possibile coesistenza di una Chiesa orientale, non uniate ma originariamente ortodossa, qual era la Chiesa arbëreshe all’interno della stessa Chiesa cattolica occidentale. 

Essa non era però assecondata, a livello periferico, dal comportamento della Chiesa latina locale: non pochi vescovi, infatti, si scontravano spesso per incomprensioni varie che avevano a che fare con questioni legate alla diversità delle pratiche rituali con il clero della chiesa di rito bizantino delle comunità albanesi del Mezzogiorno e, specialmente dopo il concilio tridentino, attivavano pesanti mezzi coercitivi  di pressione nel tentativo di assimilarle al rito latino. Queste continue contese che diedero luogo a due secoli di duri scontri e diatribe solo in parte provocate dalla diversità rituale,(21) e le contrapposizioni religiose “coprivano” spesso anche interessi sociali ed economici all’interno e all’esterno delle comunità, in cui si inserivano poi le manovre delle autorità ecclesiastiche latine che puntavano all’incardinamento economico nelle diocesi latine di queste comunità “altre”.

 In questa situazione conflittuale con l’autorità vescovile locale il clero uxorato – presente tradizionalmente all’interno della chiesa bizantino-arbëreshe – finì per rappresentare uno dei punti saldi di questa “resilienza” storica della comunità. Dispensato dalle tasse, proprio per la sua specificità rituale “greca”, assieme al proprio nucleo familiare, esso finì per consolidare posizioni di indubbia egemonia locale nella continuità di una tradizione arbëreshe che non era solo ecclesiale, ma anche intellettuale e culturale arbëreshe, che si rivelò in grado di resistere alle pressioni assimilatrici messe in campo dal potere ecclesiastico e da quello economico ad opera di vescovi e feudatari locali.

 Sulla difficile situazione determinatasi nella fase post-tridentina della Chiesa “greca” dell’Italia meridionale si dispone, oltre che della ricca documentazione fornitaci da Vittorio Peri22, anche della originale e coraggiosa rivisitazione storiografica assicurataci dai numerosi contributi editi da Matteo Mandalà (23) che finalmente ci offrono oggi una rilettura critica e complessiva della nostra storia, civile e religiosa, grazie ai nuovi documenti rinvenuti nell’archivio del Seminario di Piana, ma anche in altri archivi siciliani, come gli archivi storici del Comune di Palermo e l’Archivio di Stato di Palermo. Da non sottovalutare anche le nuove fonti e le accurate e preziose ricerche archivistiche, in parte già richiamate, pubblicate da Emanuele Camillo Colombo (24) e da Italo Sarro, le cui monografie, in particolare, delineano un quadro storico-documentario inedito che evidenzia gli sforzi con i quali il clero locale tendeva a garantirsi spazi di autonomia nell’organizzazione della Chiesa orientale locale nel corso del XVII e del XVIII secolo (25).  


Tale importante documentazione di archivio, per oltre mezzo secolo precariamente allocata nei locali dell’Episcopio di Piana dopo il suo trasferimento nel secondo dopoguerra dalla sede storica del Seminario, a Palermo, è oggi finalmente fruibile grazie all’impegno assicurato da mons. Gallaro per la sua sistemazione in una sede dignitosa e adeguata, oltre che per la professionale classificazione dei suoi ricchi materiali, affidata a una qualificata archivista come la dr. Sara Manali e grazie alla vigile direzione dei beni culturali dell’Eparchia affidata a don Enzo Cosentino. Proprio in virtù di tali provvedimenti, che hanno assicurato maggiore fruizione, ma finalmente anche sicurezza a questi preziosi fondi archivistici e librari, gli studiosi sono oggi finalmente messi in condizione di accedere ad essi e di poter rivolgere uno sguardo più obiettivo anche alla “questione ecclesiale arbëreshe” nel Settecento. 

Il marcato interesse degli arbëreshë per garantire alle loro comunità una qualche forma di protezione e una certa autonomia ecclesiastica senza sottrarle alla giurisdizione dell’episcopato latino e prevedendo, tuttavia, la possibilità di avere nelle regioni dove più radicata si mostrava la tradizione religiosa orientale – in Calabria e in Sicilia – un vescovo ordinante di rito greco, non a caso si manifesta sotto il pontificato di papa Clemente XI, innestandosi nel quadro della più significativa riscoperta della identità albanese, che a partire dall’ambito religioso si sarebbe ben presto dilatata sino a includere aspetti decisivi dell’ethnos: dalla storia alla lingua, dalla cultura tradizionale alla dimensione sociale. 

A fare piena luce sull’ultima fase del pontificato da papa Albani è la puntuale ricostruzione effettuata da Italo Sarro, il quale grazie alla documentazione acquisita negli Archivi di Propaganda Fide (26), ha descritto le iniziative che a partire dal 1718 Episcopio e Seminario della Eparchia di Piana degli Albanesi (foto Maria Giangrosso) furono messe in atto dagli arbëreshë per ottenere il pieno raggiungimento degli obiettivi da loro pretesi.

 Al nuovo quadro storico-documentario, oggi si è in grado di aggiungere due ulteriori tasselli grazie ai documenti rinvenuti recentemente nell’Archivio segreto vaticano dal ricercatore cossovaro Bejtullah Destani (27): si tratta degli appelli rivolti a Clemente XI rispettivamente dagli alunni arbëreshë del Collegio Greco di Roma e dal papas Stefano Rodotà, non datati ma risalenti entrambi, sulla base della ricostruzione fatta da Italo Sarro, al 1718. 

 Proprio quell’anno, infatti, a seguito degli appelli che sollecitavano il Pontefice di origine albanese a rivolgere la sua attenzione alla difficile situazione ecclesiale delle comunità italo-arbëreshe del Meridione, Clemente XI convocò una Congregazione generale sugli Italo-Greci, la cui prima seduta si tenne il 25 gennaio 1718 e la seconda il 26 settembre dello stesso anno. 

In questa seconda adunata, sulla base della puntuale disamina assicurataci da Italo Sarro, grazie alla ricchissima documentazione da lui rinvenuta nell’Archivio di Propaganda (28), veniamo informati che il cardinale Imperiali, riferì alla Congregazione dell’esistenza di un memoriale in due parti, inviatogli dagli alunni del Collegio greco di Sant’Atanasio e preparato per l’occasione. 

 In realtà, incrociando i dati fornitici da Sarro con i manoscritti recuperati presso l’Archivio segreto vaticano da Bejto Destani, possiamo parlare di un unico memoriale, ipotizzando una sua composizione binaria (29), con i due appelli – l’uno in lingua greca del Rodotà e l’altro in lingua italiana dei collegiali di Sant’Atanasio – da considerare come parti di uno stesso appello unitario, sostanzialmente opera di una stessa mano (30), cioè di Stefano Rodotà (31), probabile ispiratore anche dell’appello dei collegiali greci di Sant’Atanasio in Roma. 

L’appello rivolto dai seminaristi arbëreshë a papa Albani costituisce, a mio avviso, un “manifesto” culturale oltre che ecclesiale importante, su cui è forse il caso di avviare una specifica riflessione: esso ci rivela l’alto livello intellettuale che aveva allora raggiunto il dibattito sollevato nell’ambito della chiesa italoalbanese dai seminaristi che si formavano nel Collegio di S. Atanasio e che per la frequentazione che avevano con il pontefice che sentivano più “vicino” per via delle sue origini albanesi, ponevano delle questioni che non potevano non renderlo sensibile alle istanze che stavano alla base della loro accorata richiesta di difendere la specificità della loro chiesa (32). 

E prendendo spunto dalla richiesta pervenutagli dal papas Stefano Rodotà e Memoriale in greco del papas Stefano Rodotà, parte seconda (folium: 31r) dagli altri allievi del Collegio di S. Atanasio di Roma, Clemente XI spostò la discussione di merito su questi temi all’interno degli organismi preposti all’interno del governo della Chiesa. 

La questione venne dibattuta in più sedute della Congregazione di Propaganda Fide e per motivi di “copertura finanziaria” – non essendo una parte dei vescovi interpellati d’accordo ad autoridurre le risorse assegnate alle rispettive diocesi per garantire la congrua al nuovo vescovo “greco” e all’istituendo Collegio italo-greco – il piano rimase temporaneamente sospeso, pur senza interrompersi. Sicché non fu un caso che, in continuità con tale orientamento positivo, venne ripreso e successivamente rilanciato, finché con papa Clemente XII della famiglia Corsini non si giunse all’istituzione dei due Seminari ecclesiastici – quello che dal cognome del papa si intitolò’ “Corsini” per gli arbëreshë di Calabria (1732) e quello italo-greco-albanese di Palermo per gli arbëreshë di Sicilia (1734), con la nomina dei due vescovi ordinanti. 

L’ulteriore importante passaggio per il raggiungimento del traguardo dell’agognata autonomia ecclesiastica avverrà nel corso del XX secolo la istituzione dell’Eparchia di Lungro (1919) per gli italo-albanesi dell’Italia continentale e l’istituzione dell’Eparchia di Piana degli Albanesi (1937) per gli italo-albanesi di Sicilia. 

Legami ideali e familiari tra l’azione di papa Albani e quella di padre Guzzetta 

 A chiusura di questo intervento, ci piace accennare a due ulteriori tasselli che paiono utili per raccordare il retroterra culturale e spirituale della “Rilindja” albanica che ho cercato sin qui di illustrare al movimento di rinascita etnico-identitaria promosso da p. Guzzetta. Da una parte essi ci aiutano a inquadrare meglio gli stretti rapporti che intercorrevano tra il papa Clemente XI e il mondo ecclesiale italoalbanese, compresi alcuni stretti familiari di p. Giorgio Guzzetta; dall’altra parte, ci permettono di ricostruire il clima culturale tramite alcune interessanti opere letterarie di noti ecclesiastici e scrittori della Sicilia del tempo, tutti molto legati a p. Guzzetta e a papa Albani, a testimonianza della consonanza ideale che accomunava questo particolare sodalizio amicale e intellettuale. 

Il primo tassello è rappresentato dalla Positio super vita, virtutibus et fama sanctitatis Georgii Guzzetta, presentata a sostegno del processo di beatificazione e santificazione dell’Apostolo degli albanesi di Sicilia, da alcuni mesi, grazie all’alacre impulso datogli da mons. Gallaro, depositata presso la Congregazione delle Cause dei Santi. In essa troviamo riscontri puntuali sugli stretti rapporti di collaborazione e di amicizia che legavano papa Albani alla famiglia di p. Giorgio Guzzetta, attraverso la figura di p. Serafino (Francesco) Guzzetta, suo fratello maggiore, Definitore generale degli Agostiniani scalzi, che a Roma intratteneva stretti rapporti di amicizia con insigni letterati, 82 OCOriente Cristiano 83 Numero speciale - Venerabile Giorgio GuzzettaOC con i cardinali e soprattutto con papa Albani, il quale alla notizia della sua morte comunicatigli dai confratelli, il 22 aprile del 1717, disse loro: “Voi siete rimasi privi di un gran soggetto, e noi di un grande amico” (33). 

Il secondo tassello che mi piace qui richiamare è una raccolta di liriche, La lira a due corde (34) di Melchiore Pomè alias Michele Antonio Romeo, noto poeta arcadico siciliano lodato da Ludovico Muratori. Originario di Marsala, Pomé fu amico stretto di p. Serafino Guzzetta, a cui dedicò anche un’orazione funebre, e dopo anche di p. Giorgio. Scrisse un sonetto dedicato a p. Giorgio e lodandolo allude alla stima che il Pontefice, Clemente XI, nutriva per p. Serafino: “Gran Giorgio, che puoi dire/Umago bella Di quel mio Serafin germano/ io sono che a Clemente fu caro, ed ebbe in dono Dal ciel gran pregi, e risplendè da stella”. Dedicò anche dei sonetti a Scanderbeg, a p. Serafino Guzzetta, a p. Basilio Matranga e diversi sonetti a papa Albani, dalla sua intronizzazione alla sua morte (cf. De vita et rebus gestis Clementis Undecimi Pontificis Maximi, Libri sex, Urbini MDCCXXVII, Ex Typographia Venerabilis Cappelae SS. Sacramenti) (35). 

 Ci piace concludere questo nostro contributo, che vuole essere un piccolo omaggio alla eccelsa figura di p. Giorgio Guzzetta, con una lapidaria, ma acuta riflessione di uno dei più insigni studiosi della nostra lingua, ma anche della nostra cultura, Eqrem Cabej, che anche per le sue ricerche linguistiche è stato profondamente legato alla comunità di Piana. Tale scelta aiuta forse a spiegare meglio il senso di questa mia opzione di soffermarmi sulla “Rilindja” albanica, segnata dall’opera di papa Albani quale naturale retroterra spirituale e culturale in cui collocare poi quella spinta alla “Rinascita” identitaria, spirituale e culturale, della comunità arbëreshe, a partire da quella di Sicilia, impressa da p. Giorgio (36) alla guida del Seminario italo-greco-albanese di Palermo da lui fondato: 

«Da questi centri della diaspora - ci ricorda Eqrem Cabej - da questo “Gjaku ynë i shprishur», quelli della diaspora italiana dal punto di vista culturale occupano il primo posto. I figli illustri formatisi nei focolai di cultura di questa comunità diasporica d’oltremare - il Seminario Italo-greco-albanese di Palermo, poi di Piana degli Albanesi e il Collegio Italo-Greco “Corsini” di San Benedetto Ullano [poi Italo-Greco e quindi ItaloAlbanese “S. Adriano” a San Demetrio Corone, Ndr] hanno posto una pietra angolare alla costruzione della cultura albanese».37 Tra questi “figli illustri” dell’Arbëria italiana, p. Giorgio Guzzetta occupa sicuramente un posto speciale.



Note

(1) La famiglia di Giovan Francesco Albani era originaria dell’Albania, donde un Michele Laci, nel 1464 sarebbe passato in Italia e avrebbe stabilito la sua sede in Urbino. Qui i suoi figli, Giorgio e Filippo, avrebbero assunto il cognome di Albani. Dapprima uomini d’arme, a servizio della guerriera dinastia dei duchi d’Urbino, si volsero poi, verso la fine del sec. XVI e sui primi del seguente, agli uffici civili, intrattenendo nei secoli successivi costanti e stretti rapporti con la Curia romana. La rivendicazione di tale “albanesità” precede anche la stessa elezione di Giovan Francesco Albani al soglio pontificio (1700-1721) se già nel 1689 essa gli veniva chiaramente evidenziata in una carta geografica dove vengono ricordate chiaramente le origini dei suoi antenati dall’Albania “che due secoli addietro pianse la partenza de’ suoi più chiari figli, et Eroi che contro de’ Barbari l’havevano fin allora difesa”, carta che riportiamo in appendice e a lui donata e dedicata dal geografo Giacomo Cantelli da Vignola. 69 Numero speciale 

(2) Altaltan Molnár, “Le missioni balcaniche durante il pontificato di Innocenzo XI (1676-1689): dall’apogeo alla rovina”, in Innocenzo 11. Odescalchi: papa, politico, committente, a cura di Richard Bösel et al., Viella, Roma 2014, p. 198. 

(3) cf. Matteo Mandalà, “La lettera inedita (1740) di Mons. Nicola Kazazi a P. Giorgio Guzzetta”, in Bibloj. Servizio di informazione culturale e bibliografica della Biblioteca comunale G. Schirò di Piana degli Albanesi, 1994. Cf. Matteo Mandalà, “Buzuku në Sicili. Studimet e P. Skiroit, G. Petrotës, M. La Pianës”, in Studime albanologjike (filologjiko-letrare dhe historiko-kulturore), Naimi, Tiranë 2018, pp. 13-30. 

(4) cf. la edizione italiana: Luca Matranga, E mbsuame e krështerë. Edizione critica dei testi manoscritti e a stampa (1592) a cura di Matteo Mandalà, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta 2004 e l’edizione albanese: Matteo Mandalà, Lekë Matranga: njeriu, koha, vepra, Me botimin kritik të varianteve dorëshkrim dhe të shtypur të veprës E mbsuame e krështerë – 1592 – Ombra GVG, Tiranë 2012. 

(5) Cf. Matteo Mandalà, “Su un catechismo in albanese della seconda metà del ‘500. Prime ipotesi e questioni preliminari per una futura ricerca”, in (a cura di) Bardhyl Demiraj, Sprache und Kultur der Albaner. Zeitliche und räumliche Dimensionen. vol. 1, Harrassowitz Verlag, Wiesbaden 2015, pp. 419-438.

(6) Cf. Antal Molnár, “Le missioni balcaniche”, p. 198

(7) 6 I primi contatti di Giovan Francesco Albani con la realtà ecclesiologica di tradizione orientale furono dovuti a motivi di studio. I suoi particolari interessi per le lingue classiche, in particolare per il greco, lo indussero a frequentare assiduamente l’Abbazia basiliana di Grottaferrata dalla metà degli anni ’60 del XVII secolo. Attorno al 1666 scoprì tra i codici del monastero basiliano un manoscritto contenente la seconda parte del menologio bizantino-greco di Basilio Porfirogenito, di cui anche Ughelli lamentava la perdita, che andava a completare quella contenuta nel menologio vaticano (cf. la voce “Clemente XI” curata da Stefano Andretta, Enciclopedia dei Papi (2000) in https://www.treccani.it/enciclopedia/clemente-xi_(Enciclopedia-dei-Papi)/) 

 (8)  Ludovico Barone von Pastor, Storia dei Papi nel periodo dell’Assolutismo, Volume XV: dall’elezione di Clemente XI sino alla morte di Clemente XII (1700-1740), Versione italiana di Mons. Prof. Pio Cenci, Roma, Desclée & C. Editori Pontifici, Roma 1933, pp.281-282.

(9) Continua a riferirsi a tale attardata impostazione anche il Dizionario Enciclopedico Albanese edito nel 2009 (cf. la voce “Rilindja Kombëtare Shqiptare”in Fjalor Enciklopedik Shqiptar, Akademia e Shkencave e Shqipërisë Botim i ri, Vëllimi i tretë: N-ZH dhe një shtojcë, Tiranë 2009, pp.2249-2251). Negli ultimi anni tuttavia si registra un positivo riscontro da parte degli ambienti accademici albanesi - il riferimento è non solo all’Albania, ma anche al Cossovo e alla Macedonia del Nord - nel dibattito aperto dalla nostra proposta di retrodatare l’avvio della Rilindja alla prima Rilindja arbëreshe. 

(10) Sugli interessanti parallelismi registrati nei processi di avvio dei rispettivi movimenti di Rinascita nazionale tra le diaspore albanesi e greche, mi permetto di rimandare al mio contributo: “Gli Arbëreshë d’Italia per la rinascita dell’Albania tra XVIII e XIX secolo: parallelismi con altre diaspore di area italobalcanica” in Studia Albanica, Accademie des Sciences d’Albanie, Section des Sciences Sociales, XLIXe Année, 2(2012), Tiranë 2012, pp. 129-143. 

(11)Nella istanza di cui diremo, indirizzata al papa dai seminaristi arbëreshë, si poneva il problema di assicurare alla chiesa italo-albanese, dispersa in diversi territori diocesani sottomessi all’autorità giurisdizionali dei vari vescovi latini, una organizzazione ecclesiastica che riuscisse a tutelare la loro specificità rituale attraverso una figura episcopale vicariale dello loro stesso rito, edotto nelle loro pratiche e e in grado di tutelarli dagli abusi e dalle interferenze “latine”.

(13) A parere dello studioso Justin Rrota, sarebbe stato lo stesso papa a richiedere a Zmajevich di presentargli tutte le deliberazioni del Concilio in lingua albanese (cf. Justin Rrota, Letratyra shqype për shkolla të mesme, Shkodër 1935, p.133), così come la paternità degli atti sarebbe dello stesso Zmajevich (cf. Justin Rrota, Për historin e alfabetit shqyp, Shkodër 1936, p. 30, nota 2), mentre della correzione delle stampe sarebbe stato incaricato a Roma il francescano P. Francesco Maria da Lecce (cf. Justin Rrota, Për historin e alfabetit shqyp, Shkodër 1936, p. 30, nota 3)

(14) Osserva Gëzim Gurga nella prefazione della sua pregevole edizione critica del dizionario italiano-albanese di F. M. Da Lecce: «Falë kërkesës dhe nxitjes së këtij pape, Vinçenc Zmajeviçi ndërmori vizitën apostolike në Veri të Shqipërisë në vitet 1702-1703 dhe organizoi punimet e Kuvendit të Arbënit në fillim të vitit 1703»: Gëzim Gurga, “Hyrje” in At Francesco Maria da Lecce O.F.M., Dittionario ItalianoAlbanese (1702), Botim kritik me hyrje dhe fjalësin shqip përgatitur nga Gëzim Gurga, Botime Françeskane, Shkodër 2009, p. 20. 

(15) «Nën hijen tënde, o Shenjti Atë Papë, dheu i Arbërit po gazmohet, pse mbas shumë vjetësh po zë të marrë frymë e po i çel sytë: ky Atdhe, që tash sa mot ka ndejtur si i harruar, i mbuluar e i varfër prej mjegullës, nën një Papë shqiptar, po del në dritë dhe mezi pret të fitojë namin e lumninë e moçme…”] “Pëlqeji pra, o i Lumnueshmi Atë, lutjet tona, nderimin më të përvuajtur e gazmendin e Shqipërisë sime, bile them më mirë, të Shqipërisë sate» (traduzione albanese a cura di Anton N.Berisha, tratta dal volume: Kuvendi i Arbënit 1703, Botim i veçantë me rastin e 300 vjetorit të Kuvendit të Arbënit, Prishtinë 2003)

(16) cf. Gëzim Gurga, “Hyrje”, cit., pp. 32-33. 

(17) Ivi, p. 33. 

(18) Ivi, pp. 22-24. 

(19) Osservazioni grammaticali nella Lingua Albanese del P. Francesco Maria Da Lecce, Esprefetto Apostolico delle Missioni di Macedonia dedicate agli Eminentissimi e Reverendissimi Signori Cardinali della Sagra Congregazione di Propaganda Fede, In Roma, Nella Stamperia della Sag. Cong. di Prop. Fede, 1716. 

(20) Traduzione italiana: “In quel tempo la edizione dei libri era impresa costosa e la riedizione di un libro si poteva giustificare solo per l’uso intenso che si faceva di un testo e dalla domanda che c’era per esso” (cf. Gëzim Gurga, “Hyrje”, cit., p.25).

(21) Per la conflittuale situazione che si registrò tra le due chiese in Calabria cf. Emanuele Camillo Colombo, “Il Cristo degli altri” Economie della rivendicazione nella Calabria greca di età moderna, Palermo University Press, Palermo 2018. 

(22) Vittorio Peri, Chiesa Romana e “Rito” Greco. G. A. Santoro e la Congregazione dei greci (1566-1596), Paideia Editrice, Brescia 1975. 

(23) Tra i numerosi lavori editi sull’argomento da Matteo Mandalà, ci limitiamo a citare: Mundus vult decipi. I miti della storiografia arbëreshe, A.C. Mirror, Palermo 2007; “Gli archivi ecclesiastici e la memoria storico-culturale arbëreshe. Un bilancio di tre decenni di ricerche” (pp.213-261) in L’Albania nell’archivio di Propaganda Fide. Atti del Convegno Internazionale – Città del Vaticano, 26-27 ottobre 2015, Urbaniana University Press, Roma 2017. 

(24) cf. Emanuele Camillo Colombo, “Il Cristo degli altri” Economie della rivendicazione nella Calabria greca di età moderna, Palermo University Press, Palermo 2018. 25 Intendiamo qui riferirci, in particolare, ai due volumi Italo Sarro, Insediamenti albanesi nella valle del Crati, vol.I: Albanesi nel Ducato di S. Marco, Nuova Santelli, Cosenza 2010 e Italo Sarro, Insediamenti albanesi nella valle del Crati, vol. II, Nuova Santelli, Cosenza 2012. 

(25) Intendiamo qui riferirci, in particolare, ai due volumi Italo Sarro Insediamenti albanesi nella Valler del Crati, vol. I: Albanesi nel Ducato di S.Marco, Nuova Santelli, Cosenza 2010 e Italo SarroInsediamenti albanesi nella Valle del Crati, vol. II, Nuova Santelli, Cosenza 2012.

(26) cf. Italo Sarro, Insediamenti albanesi nella valle del Crati, vol. II, Nuova Santelli Edizioni, Cosenza 2012, pp. 239-249. 

(27) Sento qui l’obbligo di esprimere un doveroso ringraziamento alla encomiabile azione di recupero della memoria della storia albanese e arbëreshe perseguita con tenacia e passione nel corso della sua permanenza presso la sede diplomatica del Cossovo in Italia dal dr. Bejtullah Destani, primo consigliere della stessa Ambasciata, il quale ha messo a frutto il suo soggiorno di servizio diplomatico a Roma per rintracciare negli archivi italiani e vaticani importanti e numerosi documenti che gettano nuova luce su molti capitoli della storia italo-albanese. Di questo suo impegno culturale gli siamo molto grati, e non solo a titolo personale, per averci messo a disposizione questi due documenti vaticani a cui si fa qui riferimento. 

(28) Italo Sarro, Insediamenti albanesi in Val di Crati, vol.II, cit., pp. 239-249. 

(29) Anche nell’elenco dei documenti del Fondo “Albani” dell’Archivio segreto vaticano, tali memoriali si riportano in successione, come si evince dall’indice manoscritto del fascicolo che li contiene intitolato: Scritture spettanti alla Chiesa di S. Giorgio de Greci di Venezia: à gl’Itali Greci, et Itali Albanesi: alla Dalmazia, Servia Moscovia, Russia, Costantinopoli, Turco-grecia, Morea, Isole dell’Arcipelago, et ad altre Provincie dell’Asia Sogette al Turco (f.7r). Nella stessa pagina sotto la voce “Greci Itali, et Itali Albanesi” si citano nell’indice della documentazione riportata: “Memoriale Greco presentato alla Santità di Clemente XI dagli Itali Greci-Albanesi di Calabria” e “Memoriale Italiano presentato alla Santità di Clemente XI dagli Itali Greci-Albanesi Alunni del Collegio Greco di S. Atanasio”.

(30) La perfetta corrispondenza della grafia ci spinge ad avanzare l’ipotesi che sia stato Stefano Rodotà l’estensore dei due appelli, dove si ravvisa l’evidente volontà del Rodotà di “rafforzare” la sua istanza facendola sembrare più collegiale, sia indirizzandola a nome degli “Italo greci Albanesi di Calabria”, sia abbinandovi una analoga istanza a nome degli “Italo greci Albanesi Alunni di S. Atanasio di Roma”.

(31) Stefano Rodotà (1689-1726), figlio di Michelangelo e di Maria Lopez, entrò nel Collegio a 18 anni (1707), ricevette il diaconato il 26 febbraio del 1707 e venne ordinato sacerdote il 25 giugno del 1713 (cf. V. Capparelli, “Gli alunni albanesi ed italo-albanesi del Collegio greco di Roma” (pp.27-41) in Zgjimi – Risveglio, Anno X, n.3, Roma 1972, p. 27). Un breve profilo del Rodotà è stato tracciato anche da Giovanni Laviola in: Dizionario biobibliografico degli Italo-Albanesi, Edizioni Brenner, Cosenza 2006, p. 250. 

(32) La richiesta dei collegiali di S. Atanasio si comprende bene se consideriamo la frequentazione che Clemente XI aveva con la chiesa greca di Roma. Stando a quanto asserisce Gaetano Moroni, «Clemente XI non solo accrebbe considerabilmente le rendite del Collegio, ma ogni anno del suo lungo pontificato, si recava in quella chiesa per la festa di S. Atanasio a celebrarvi messa» (cf. Gaetano Moroni, Dizionario di Erudizione Storico-Ecclesiastica, vol. XV, in Venezia, dalla Tipografia Emiliana, MDCCCXLII, p.168). Da aggiungere, tra gli altri atti messi in opera da papa Albani, immediatamente dopo il suo insediamento da pontefice, l’assegnazione di due borse di studio perpetue riservate a studenti provenienti dall’Albania, che diventarono tre nel 1708 (cf. Gaetano Moroni, Dizionario di Erudizione Storico-Ecclesiastica, vol. I, cit., p.183). 

(33) Congregatio de Causis Sanctorum, Planensis Albanensium Beatificationis et Canonizationis Servi Dei Georgii Guzzetta, Sacerdotis Oratoriii Sancti Philippi Neri (1682-1756) – Positio super vita, virtutibus et fama santitatis, Romae 2021, p.481. 

(34) Michele Romeo <1675-1729> La lira a due corde Sonetti e Canzoni Siciliane, Eroiche e Sacre, del Signor Melchiore Pome’, in Palermo MDCCXXII, Nella Stamperia di Vincenzo Toscano. 

(35) Sono riconoscente al mio carissimo amico e impareggiabile collega Matteo Mandalà per avermi messo generosamente a disposizione questi dati e queste interessanti notizie su Michele A. Romeo, conosciuto nell’Arcadia con lo pseudonimo poetico di Melchiore Pome’ [Romέ]. Su questa interessante figura di gesuita e uomo di lettere e, in particolare, sulla sua opera poetica, Mandalà si è soffermato nell’ultimo numero di questa rivista (cf. il suo articolo “Papa Albani e il processo di costruzione di identità tra gli arbëreshë di Sicilia” (pp.47-53), Oriente Cristiano, quadrimestrale dell’Eparchia di Piana degli Albanesi, anno LIV, n.s., n. 3 settembre-dicembre 2021, Piana degli Albanesi 2021).

 (36) Vero e proprio “manifesto” di questo suo programma di rinnovamento spirituale e di rilancio culturale ed etnico-identitario, in cui ritroviamo anche le basi dell’ideologia albanista, proseguita dai suoi successori (P. M. Parrino, N. Figlia, N. Chetta ecc.) e rilanciata poi a fine secolo dagli intellettuali, laici ed ecclesiastici dell’altro Collegio arbëresh in Calabria, è la sua opera De Albanensium Italiæ ritibus excolendis ut sibi totique S. Ecclesiæ prosint, rimasta per più di due secoli inedita e data alle stampe nel 2007: « Di certo «Da questi centri della diaspora - ci ricorda Eqrem Cabej - da questo “Gjaku ynë i shprishur», quelli della diaspora italiana dal punto di vista culturale occupano il primo posto. I figli illustri formatisi nei focolai di cultura di questa comunità diasporica d’oltremare - il Seminario Italo-greco-albanese di Palermo, poi di Piana degli Albanesi e il Collegio Italo-Greco “Corsini” di San Benedetto Ullano [poi Italo-Greco e quindi ItaloAlbanese “S. Adriano” a San Demetrio Corone, Ndr] hanno posto una pietra angolare alla costruzione della cultura albanese». 37 Tra questi “figli illustri” dell’Arbëria italiana, p. Giorgio Guzzetta occupa sicuramente un posto speciale. 84 OCOriente Cristiano gli Albanesi non sono Greci, infatti traggono la loro origine, non dai Greci, ma dagli Epiroti e dai Macedoni […]. Né i Macedoni o gli Epiroti sono Greci, ma dominatori dei Greci, creatori dell’impero greco, principi, per cui furono detti Greci, come i Greci stessi dopo che l’impero Romano per iniziativa di Costantino Flaviano Augusto fu trasferito in Grecia, si vantarono di essere chiamati Romani.»..» gli Albanesi non sono Greci anche se hanno in comune con i Greci i santissimi riti ma non la lingua, non l’amore per la vita non i comportamenti umani, infine non la stessa foggia dell’abito che in particolare le donne albanesi mantengono fino a questo momento in territorio italiano» (cf. Giorgio Guzzetta, L’osservanza del rito presso gli Albanesi d’Italia perché giovino a se stessi e a tutta la Chiesa, traduzione italiana dell’originale latino di P. Ortaggio, introduzione di Matteo Mandalà, Quaderni di Biblos, Piana degli Albanesi 2007). 

(37) Eqrem Çabej, Tra gli albanesi d’Italia. Studi e ricerche sugli Arbëreshë, Besa Muci, Nardò 2017, p.22.

(38) Con l’occasione desidero qui esprimere il mio più sentito e grato ringraziamento a Bejto Destani, primo consigliere dell’Ambasciata della Repubblica del Cossovo in Italia, per avermi messo generosamente a disposizione questo memoriale, da lui recuperato all’Archivio segreto vaticano. Rivolgo anche un pensiero di riconoscente gratitudine alla prof. Katerina Papatheu, docente di neo-greco all’Università di Catania, e alle sue valide collaboratrici, le dr. Maria Rita Mangano ed Emma Petrosino, che hanno curato con grande acribia filologica la traduzione in lingua italiana dell’appello del Rodotà che costituisce la prima parte del memoriale indirizzato a Clemente XI.

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