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LA FAMA DEL VENERABILE
GIORGIO GUZZETTA
Padre Giorgio Guzzetta (1682-1756) viene ricordato sostanzialmente per due aspetti: come sacerdote virtuoso e come personaggio illustre che ha promosso la salvaguardia delle tradizioni etnico-linguistiche italo-albanesi e liturgiche bizantine, e che si è adoperato per la conciliazione fra i diversi riti.
Spesso ci si chiede, a giusta ragione, quale dei due aspetti sia prevalso nella trasmissione della sua fama.
È da dire che, come avviene nell’esistenza umana in genere anche in quella di p. Giorgio, i due aspetti si sono sovrapposti. Per poterne cogliere l’intreccio bisogna ricorrere a una distinzione utile a tracciare delle linee chiarificatrici sia sulla fama di santità e la sua continuità dalla morte ad oggi, sia sulla fama di personalità di illustre intellettuale, protagonista di un progetto culturale e religioso a favore dell’identità albanese e della tradizione liturgica bizantina per dimostrare che in alcuni casi si sono fuse ma non sono state mai confuse.
Come è possibile ricavare dalla bibliografia e dalle testimonianze raccolte nelle varie epoche la fama del Guzzetta, tanto in vita che dopo la morte, si è sviluppata su queste due direttrici parallele:
a. Fama di personalità erudita dalle grandi capacità di promozione e di crescita culturale e imprenditoriale.
b. Fama di santità.
A. Fama di personalità insigne
Nella narrazione biografica scritta da Giovanni D’Angelo nel 1798 risalta la grande capacità del p. Guzzetta di sviluppare contatti e relazioni con re, papi, principi, nobili, prelati, eruditi, poeti, letterati ecc. per conseguire alcuni obiettivi (fondazioni, costruzioni, mantenimenti, riconoscimenti). Queste personalità venivano suggestionate da p. Giorgio per la profonda cultura ma anche per la santità di vita.
Soprattutto gli ambienti culturali svilupparono una fama che si è trasmessa attraverso le numerose pubblicazioni dei secc. XVIII-XX. Ne riportiamo solo qualche esempio.
Ancora in vita il poeta Melchiore Pomè scrisse il Sonetto, in cui si evince come sin da giovane p. Giorgio Guzzetta fosse stimato e molto venerato:
Dirò, ma che di Giorgio? in verde etade.
Ei dell'arti più belle il fior raccolse
Adulto quindi su le scabrose strade
Delle Scienze il Genio altier rivolse.
Fregio immortal dell’attiche contrade,
Dell’argiva eloquenza i vanti tolse,
Onde ne’ fasti suoi l’eternitade
Del grande Eroe l’inclito nome accolse
Maestro di più lingue, ogn’or facondo
Di pietà, di virtù corona i Rostri,
Ed ottien ne’ Licei lauro fecondo.
Dirò, ma che di lui? fama sol mostri,
Che Giorgio caro al ciel, gradito al mondo
Merita le Tiare, ed ama i Chiostri1.
Dal canto suo mons. Giovanni Di Giovanni lo considera il primo dei sapientiores Viri che ha fondato a Piana Collegi per l’educazione della gioventù maschile e femminile, e a Palermo il Seminario di chierici greci al fine di giovare, oltre al vantaggio delle comunità siculo-albanesi, anche alla causa dell’unione delle due chiese, la latina e l’orientale(2).
E poi ancora si potrebbero riportare le menzioni di lode nel De studiis necessariis del Parrino (1738), o nelle opere di Antonino Mongitore quali Nuovi fervori della città di Palermo in ossequio alla Immacolata Concezione del 1742 o a quella di Nicolò Figlia Breve ragguaglio della terra di Mezzojuso (1750).
Nel Lexicon topographicum Siculum, pubblicato subito dopo la morte del Guzzetta, vengono ricordate le opere da lui fondate a Piana dei Greci; viene scritto: «Prete dell’Oratorio di Palermo, che promosse e fondò con dote il Seminario greco nella capitale; fu caro grandemente ai principi pei santi costumi e per la grande dottrina»(3). Intorno alla seconda metà del Settecento, Pietro Pompilio Rodotà nel Libro Terzo
Note:
1 Pomé Melchiorre (Romeo Michele sj), La lira a due corde, sonetti e canzoni siciliane, eroiche e sacre, Palermo 1732, p. 262.
2 De divinis Siculorum Officiis Tractatus, Palermo 1736, cap. XI, § XI, pp. 83-84.
3 Amico Vito, Lexicon topographicum Siculum, vol. I, Palermo 1757 (1856), p. 348.
sugli Albanesi descrive i meriti del Guzzetta con la fondazione del Seminario greco-albanese, fucina di formazione e cultura(4) e il Di Blasi in una Raccolta di Opuscoli di Autori Siciliani, lo definisce «pio e dotto uomo celebre»(5). E via via nel tempo si insiste sulla sua eredità formativa e culturale come fa nel 1853 il vescovo Giuseppe Crispi, alunno del Seminario greco-albanese di Palermo, nelle sue Memorie Storiche di talune costumanze appartenenti alle Colonie greco-albanesi di Sicilia, in cui richiama la figura insigne di p. Guzzetta «per dovere di gratitudine per le fondazioni realizzate»( 6) e nel 1866 Demetrio Camarda, in Appendice al saggio di grammatologia comparata sulla lingua albanese, dove illustra i meriti del Guzzetta per le sue opere a favore delle colonie siculo-albanesi (7). E la lista si potrebbe allungare, in cui si constata una continuità della fama di personalità insigne e benemerita fino ai nostri giorni, in cui p. Giorgio Guzzetta viene citato ed esaltato come formatore di giovani, salvatore e restauratore della tradizione bizantina e della cultura siculo-albanese consentendo la sua sopravvivenza nel tempo.
B. Fama di santità
Nella biografia del D’Angelo si parla naturalmente anche di quella che costituisce la vera fama di santità generata dalle virtù, sviluppatasi attraverso la direzione spirituale, l’esercizio del ministero della confessione che abbracciava una vasta gamma di persone (dai confratelli ai giovani, dalla nobiltà alla gente comune). E questo avveniva non solo a Palermo o in Sicilia, ma in tutti i luoghi in cui p. Guzzetta si fermava per un certo periodo (in particolare Napoli e Roma).
Da una considerazione superficiale potrebbe sembrare che manchino prove sicure che manifestino la continuità della fama di santità in alcuni periodi del passato, in modo particolare durante i 108 anni trascorsi tra la pubblicazione della prima biografia (1798) e il ritrovamento della salma (1906).
Avendo condotto un’indagine approfondita della tradizione orale tra le persone anziane di Piana degli Albanesi, si è potuto tracciare una linea di continuità sorprendente.
Note
(4) Dell’origine, progresso e stato presente del Rito Greco in Italia osservato dai Greci, Monaci Basiliani e Albanesi, III, Roma 1763, cap. V, pp. 117-122.
(5) Di Blasi Salvatore Maria, Raccolta di Opuscoli di Autori Siciliani, Tomo IX, Palermo, seconda metà del ’700.
(6) Crispi Giuseppe, Memorie Storiche di talune costumanze appartenenti alle Colonie greco-albanesi di Sicilia, 1853 (ripubblicato da C.E.A.S., 1983).
(7) Camarda Demetrio, Appendice al saggio di grammatologia comparata sulla lingua albanese, Prato 1866
Sono stati intervistati due ultranovantenni (95 e 98 anni), sei ottantenni (da 80 a. 87 anni), nove settantenni (da 70 a 79 anni); quindi cinque tra i 50 e 60 anni, e cinque trentenni. Ad esempio papàs Antonio Macaluso di 95 anni sentì parlare del p. Giorgio come “sacerdote pieno di virtù considerato santo” prima in famiglia poi in seminario “giovanissimo, tra il 1930-1940” a Grottaferrata dall’archimandrita Isidoro Croce (1892-1966). Madre Cecilia Frega di 98 anni, ancora in vita quando la incontrammo, ci riferì di aver sentito parlare del Guzzetta da ragazza dai sacerdoti di Lungro (in Calabria) e dal suo confessore, il Basiliano p. Basilio Leggio, già molto anziano, e dalle consorelle anziane e tutti “avevano una grande grande venerazione per p. Giorgio e lo consideravano un santo”. Papàs Eleuterio Schiadà di 81 anni quando lo intervistammo, assicurò che la fama di santità del Guzzetta è stata tramandata innanzitutto nelle famiglie, e portò come esempio la sua famiglia: i nonni e la madre asserivano di aver ricevuto grazie per intercessione dell’allora Servo di Dio.
Se si prendono in considerazione solo questi testimoni si risale agevol mente a metà Ottocento, cioè i genitori hanno trasmesso loro quella fama di santità di p. Guzzetta tramandata dai loro nonni anche se non si conosceva l’ubicazione esatta della salma, sapendo però che si trovava nella chiesa di S. Ignazio all’Olivella. Il corpo fu identificato nel 1906 ma, come si può dedurre, la fama c’era prima e continuava.
I nonni dei papàdes Macaluso e Schiadà certamente a loro volta avevano ricevuto la devozione dai loro genitori e dai loro nonni, facendo risalire così la catena generazionale a coloro che avevano conosciuto il Guzzetta.
Questa che potrebbe sembrare una teoria ipotetica, ha invece una dimostrazione verificabile con tanto di date.
La dedizione alla formazione e alla guida spirituale del clero nel suo Seminario di Palermo costituì per p. Guzzetta la semente per la costituzione della fama di santità che continuò anche dopo la morte, perché i giovani formati nel Seminario, una volta divenuti sacerdoti e inviati come parroci nelle varie comunità siculo-albanesi, trasmisero alla propria gente la venerazione verso di lui, innescando in tal modo il circuito, facendo diventare le famiglie trasmettitrici della sua venerazione.
In altri termini, dopo la morte di p. Giorgio, il Seminario fu la culla della conservazione e trasmissione della sua fama di santità divenendo il volano di un processo circolare: i sacerdoti e gli ex allievi trasmettevano alle famiglie, che a loro volta conservando la memoria e inviando i loro figli in Seminario, avevano un continuo rinnovo con il ritorno dei loro figli come sacerdoti o professionisti, perché il seminario non era aperto soltanto ai giovani che desideravano diventare sacerdoti, ma anche a formare altri giovani che non avrebbero abbracciato il sacerdozio.
Questo movimento circolare, che ha permesso di far giungere la fama di santità del Guzzetta fino ai nostri giorni, non ha avuto alcuna stasi, quindi non vi sono stati periodi in cui sia mancata la memoria. Non si tratta di un’opinione ma è possibile documentare anche cronologicamente quello che si potrebbe definire il flusso di andata e ritorno attraverso i Vescovi ordinanti che ricopri vano anche la carica di rettori del Seminario.
Il primo fu Mons. Giorgio Stassi, allievo prediletto del Guzzetta, Vescovo titolare di Lampsaco (1784- 1801), a cui Giovanni D’Angelo dedicò la biografia nel 1798, originario di Piana dei Greci, certamente trasmise la venerazione del maestro e fondatore ai seminaristi e ai giovani allievi fino al 1801.
Seguì Mons. Giuseppe Guzzetta, Vescovo titolare di Lampsaco (1801- 1813), originario di Piana dei Greci, poi si ebbe Mons. Francesco Chiarchiaro, Vescovo titolare di Lampsaco (1813-1834), originario di Palazzo Adriano, e ancora Mons. Giuseppe Crispi, Vescovo titolare di Lampsaco (1835-1859), originario di Palazzo Adriano, e quindi Mons. Agostino Franco, Vescovo titolare di Ermopoli (1860-1877), originario di Mezzojuso. E ancora Mons. Giuseppe Masi, Vescovo titolare di Tempe, originario di Mezzojuso, (1878-1903) e, infine, Mons. Paolo Schirò, Vescovo titolare di Benda, originario di Piana dei Greci (1904-1941) (8), che ricercò e identificò il corpo di p. Guzzetta nel 1906.
È opportuno chiarire anche le motivazioni della ricerca del corpo di p. Giorgio, perché sommariamente si è pensato che se ne fosse perduta la memoria e quindi fossero scomparse anche la fama di santità e la venera zione. Invece, tutti (superiori, allievi e laici devoti) sapevano che p. Giorgio era stato seppellito nella cripta dell’Olivella, nella parte riservata alla sepoltura dei religiosi, quindi la preghiera e la memoria di ciascuno erano volte alla chiesa di Sant’Ignazio. Questo è riferito da diversi testimoni da noi intervistati. Ad esempio papàs Nicola Ciulla (73 anni) ha raccontato: “i fedeli sapevano che p. Giorgio Guzzetta era sepolto nella chiesa di Sant’Ignazio all'Olivella
Nota
(8) Si ricorda che Mons. Giuseppe Perniciaro (1907-1981), nato a Mezzojuso, dopo l’ordinazione presbiterale il 7 luglio 1929, nel 1932 venne nominato rettore del Seminario, poi il 26 ottobre 1937, quando Pio XI istituì la Diocesi di Piana dei Greci, divenne Ausiliare dell’Arcidiocesi di Palermo.
e si recavano in quel luogo per pregare e raccomandarsi a lui”, e la sig.ra Epifania Caronna (87 anni), a sua volta ha riferito: “Sentivo raccontare, quando ero bambina, dagli anziani, come i miei nonni, i miei genitori, che quando si recavano a Palermo per sbrigare degli affari, spesso si recavano alla chiesa dell’Olivella per pregare il Servo di Dio che ivi era sepolto”.
In altri termini si andava a pregare “presso la tomba”, dove si tramandava stesse il corpo p. Giorgio. Questo fenomeno è stato comune a tanti Santi anche canonizzati, per fare solo qualche nome S. Gaetano da Thiene, canonizzato nel 1671 e venerato in S. Paolo Maggiore a Napoli, non si sapeva fino a metà dell’Ottocento dove fosse sepolto veramente9; o di san Francesco d’Assisi, il ritrovamento del corpo avvenne nel 181910.
È infine necessario notare bene che la ricerca del corpo di p. Giorgio è stata sollecitata da un evento particolare. Verso la fine di ottobre 1906 si diffuse la voce “della demolizione di una parte del museo nazionale per la continuazione della via Roma”. Siccome l’edificio era contiguo all’Olivella fece scattare il timore che in questa parte da demolirsi potesse trovarsi il sepolcro del p. Guzzetta, questo fece decidere monsignor Schirò a mettersi subito all’opera, perché non si conosceva l’estensione dell’area delle sepolture al di sotto la chiesa di Sant’Ignazio.
Speriamo di aver così delucidato la questione della distin zione tra la fama di p. Giorgio quale uomo di cultura di grande merito per le comunità siculo-albanesi e la sua fama di santità con la continuità nel tempo, che gli ha meritato il riconoscimento della Venerabilità, per cui oggi possiamo parlare di lui come venerabile Giorgio Guzzetta.
Nota
9 Cf. P. Chiminelli, San Gaetano Thiene Cuore della riforma cattolica, Soc. An. Tipografica fra Cattolici Vicentini Editrice, Vicenza 1948, p. 987 e passim.
10 Cf. VIII. Storia della tomba e invenzione del S. Corpo, in Bibliotheca Sanctorum V, col. 1144.
GABRIELLA DIAMANTE gabriella.diamante@yahoo.it
LE VIRTÙ EROICHE DEL VENERABILE
PADRE GIORGIO GUZZETTA
San Tommaso d’Aquino, rifacendosi ad Aristotele, ha definito la virtù un abito operativo dell’uomo, cioè una disposizione secondo la quale, ciò che è disposto, è disposto bene o male, o in rapporto a se stesso o in rapporto a qualcos’altro1. Si tratta dunque di qualcosa che l’essere umano possiede in modo stabile, un abito operativo che riguarda il suo agire.
Essendo degli abiti o disposizioni, le virtù non si vedono in sé, non sono qualcosa di tangibile, ma si manifestano mediante i loro atti. Passano perciò all’atto quando se ne ha bisogno e se ne presenta l’occorrenza, per questo vi sono dei gradi come vi sono dei gradi in qualsiasi capacità dell’agire umano.
In ambito cristiano si distinguono le virtù umane anche dette virtù cardinali o morali e le virtù teologali. Al numero 1804 del Catechismo della Chiesa Cattolica si afferma che “le virtù umane sono attitudini ferme, disposizioni stabili, perfezioni abituali dell’intelligenza e della volontà che regolano i nostri atti, ordinano le nostre passioni e guidano la nostra condotta secondo la ragione e la fede. Esse procurano facilità, padronanza di sé e gioia per condurre una vita moralmente buona”. In estrema sintesi: “L’uomo virtuoso è colui che liberamente pratica il bene”(2).
Nell’ermeneutica cristiana il bene, raggiungibile attraverso la virtù, è inavvicinabile dalla ragione lasciata alle sue sole forze, è necessario l’intervento del Signore attraverso l’infusione delle virtù dette perciò teologali ossia la fede, la speranza e la carità. Le virtù umane si radicano perciò nelle virtù teologali, che “dispongono i cristiani a vivere in relazione con la Santissima Trinità”, perché “hanno come origine, causa ed oggetto Dio Uno e Trino”3.
In questo contesto di definizioni si inserisce anche quella di “virtù eroica”. Questa espressione in realtà si trovava già in Aristotele che, nell’Etica Nicomachea affermava: “in opposizione alla bestialità s’adatterebbe opporre la virtù sovrumana, quella certa 39 Numero speciale - Venerabile Giorgio GuzzettaOC 1 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae Ia IIae, q.55, a. 3, c. 2 CCC, n. 1804. 3 CCC, n. 1812
virtù eroica e divina, secondo cui Omero fa dire a Priamo diEttore ch’egli era eccezionalmente valoroso: «Né sembrava d’un mortale figlio, bensì un dio»”4. Nella prospettiva cristiana la virtù eroica è tale se “l’uomo virtuoso si comporta facilmente, prontamente e piacevolmente sopra la misura comune per un fine soprannaturale, e così senza ragionamento umano, con l’abnegazione di chi opera e con l’assoggettamento dei sentimenti”5. In altri termini si è di fronte ad un atto di virtù reso eroico dalla arduità della sua effettuazione.
Un atto, cioè che può portare al pericolo di vita o alla privazione della libertà, alla distruzione della propria reputazione, delle proprie sostanze o dei propri mezzi di sostentamento, un atto che prevede dunque un impegno straordinario. Certamente non si realizza solo in momenti circoscritti, ma si può riconoscere una eroicità abituale, che consiste nell’invariata costanza nell’esercitare le virtù nella quotidianità.
I Consultori Teologi nell’esaminare la Positio, cioè l’istruttoria basata su testimonianze e documentazione certe e sicure, hanno stabilito che padre Giorgio Guzzetta (1682-1756) può essere considerato un esempio nella pratica costante e inalterata delle virtù eroiche, tale da essere considerato “venerabile”.
Nel secondo libro della biografia, scritta del sacerdote Giovanni D’Angelo6, basata su testimonianze de visu e documenti, vengono trattate in diciassette capi e in modo molto approfondito le virtù di p. Giorgio. Emerge il ritratto di uomo di grandi doti intellettive e culturali alle quali si coniugava un’anima da puro e umile cristiano a servizio del suo popolo. Insomma, la sua vita fu basata su una fede incrollabile: “Tutti i suoi pensieri, la sua volontà, i suoi desiderj, le sue azioni, e la sue stesse parole venivan regolate dagli ammaestramenti della Fede”7.
Il completo abbandono alla fiducia in Dio e l’illuminato esercizio eroico della fede, lo portarono ad avere una lungimiranza incredibile e a realizzare la missione più importante della sua vita con la fondazione di una comunità di preti dell’Oratorio di tradizione bizantina a Piana degli Albanesi e di un seminario greco-albanese a Palermo per la formazione del clero, cosicché la conoscenza della propria tradizione religiosa e culturale potesse giovare nel dialogo tra le due comunità, latina e greca in Sicilia
Note
(4) Aristotele, Etica Nicomachea, libro VII, cap. I, traduzione a cura di C. Mazzarelli, Bompiani, Milano 2000.
(5) Benedetto XVI, La beatificazione dei servi di Dio e la canonizzazione dei beati, vol. III/1, Città del Vaticano 2015, cap. 22, n. 1.
( 6) Giovanni D’Angelo, Vita del Servo di Dio P. Giorgio Guzzetta Greco-Albanese della Piana Prete della Congregazione dell’Oratorio di Palermo ricavata da alcuni manoscritti di P. Luca Matranga Proposito dell’Oratorio della Piana e da altre Memorie, Palermo 1798; ristampata a cura di Pietro Manali nella Collana del “Centro per lo studio della storia e della cultura di Sicilia” della Facoltà Teologica di Sicilia, n. 21, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2009. 7 Ivi, libro II, cap. I, § III, 211.
e costituisse un valido punto d’incontro per il raggiungimento dell’unità con i fratelli ortodossi d’Oriente. Egli ha sostenuto continuamente, esercitando una fortezza eroica e costante, la tutela delle tradizioni etnico-linguistiche italo-albanesi e liturgiche bizantine, e si adoperò per l’intesa fra i diversi riti.
La sua mira principale e per la quale sacrificò tutta la sua esistenza fu la preparazione culturale e spirituale delle persone affinché divenissero d’esempio per la riconciliazione della Chiesa “greca” con la latina. Questo progetto poteva essere portato avanti solo dal vivere quotidianamente una profonda speranza cristiana, quale quella che esercitò padre Giorgio.
Il D’Angelo, che in merito a questa virtù riporta diversi scritti, confermò che: «Egli, confidando nel Signore, generosamente operava, nulla temendo. La Congregazione della Piana, il Seminario albanese, altre pie Opere da lui fondate, e dirette, finché visse, ne son di argomento, e di chiara prova»8.
P. Guzzetta, dunque, regolò tutte le sue attività confidando e sperando in Dio, e 41 Numero speciale - Venerabile Giorgio GuzzettaOC 8 Ivi, libro II, cap. III, § III, 233. Traslazione dei resti mortali del Venerabile P. Giorgio Guzzetta da Palermo a Piana degli Albanesi nella Cattedrale di S. Demetrio, 20 novembre 1954 ciò accadeva anche quando veniva criticato perché si riteneva che andasse oltre le sue forze. Dalla sua certezza nell’operato del Signore, trasse anche la forza e la magnanimità per affrontare i detrattori tanto che: “Essendogli stato una volta significato da un suo confidente, che più malevoli persone eran nell’impegno di screditarlo, con tali parole gli rispose: «Figlio, non dobbiam noi smarrirci per le calunnie degli uomini. Facci quanto vuole il demonio, Iddio finalmente governa»”9.
Le sue intense attività apostoliche furono sempre accompagnate da preghiera, meditazione, opere di carità verso il prossimo, tanto da divenire un eccellente confessore, un richiesto direttore di anime e un fervente predicatore. Il successo presso ogni categoria di fedeli non lo portò all’orgoglio e alla vanagloria, perché vi era in p. Giorgio una spiccatissima virtù dell’umiltà. A tal proposito papàs Nicola Ciulla, sacerdote di Piana degli Albanesi, ci disse in un’intervista: “L’umiltà profonda e sincera mise in ombra tutte le doti con cui Dio aveva arricchito la sua persona, aveva davanti a sé tante porte spalancate per il successo nella vita, ma preferì rimanere un servo a disposizione della sua gente”.
Infatti, per sua natura, nonostante le sue doti intellettuali e culturali, padre Giorgio fu un uomo umile e non ambì mai alla carriera e al prestigio, praticando l’umiltà eroica costantemente. Tanto è vero che nell’arco della sua vita, pur avendo contatti con personaggi illustri come papa Benedetto XIV e Carlo III, re di Napoli, e molteplici Cardinali, Arcivescovi, Vescovi e nobili del suo tempo, non si prodigò mai per suoi interessi personali, ma soltanto a beneficio delle opere da lui fondate e per il suo popolo. Si preoccupò in modo particolare della formazione dei suoi confratelli trasmettendo loro il carisma e lo spirito del fondatore S. Filippo Neri.
L’obiettivo per cui spese l’intera sua vita fu l’adoperarsi affinché i seminaristi del seminario greco-albanese diventassero degli ottimi sacerdoti, dotti e santi, occupandosi personalmente della loro formazione sia dottrinale, sia spirituale, sia culturale.
Fu caritatevole e generoso verso i poveri e i più bisognosi: voleva che chiunque bussasse all’Oratorio non andasse mai via a mani vuote. Con molta riservatezza distribuiva generose offerte, praticando una carità incessante. I più indigenti “eran da lui ammessi nel refettorio, ed ei stesso con le sue proprie mani faceasi a servirli con indicibil gioia, e compiacimento”, scrisse il biografo10.
Spesso inoltre veniva chiamato nelle parrocchie per la predicazione e per il sacramento della penitenza, data la fama che godette sin da giovane di saper trasmettere la Parola di Dio vissuta manifestamente nel quotidiano. Il clero e i fedeli che lo conoscevano erano portati a venerarlo perché constatavano la sua coerenza tra ciò che viveva e ciò che predicava.
Note
9 Ivi, libro II, cap. III, § VIII, 236.
10 Giovanni D’Angelo, Vita del Servo di Dio P. Giorgio Guzzetta, libro I, cap. IX, § VII, 62-63.
Nei paesi italo-albanesi, dove convivevano comunità spesso divise in senso etnico e liturgico, fu solito predicare incessantemente per la pace e non poche volte venne invitato a ricomporre furibonde liti. Solo nel vedere la sua figura ascetica i contendenti erano portati a più miti consigli. Rifulse, pertanto, presso i contemporanei di ogni ceto, per l’esercizio delle sue virtù, che mise eroicamente in pratica nei vari momenti della sua vita, in particolare quando divenne cieco.
Nonostante siano trascorsi più di 260 anni dalla morte, moltissime persone intervistate, circa una trentina tra laici, sacerdoti e religiose hanno attestato non solo la sua statura culturale, ma anche la fama per l’esercizio eroico delle virtù, soprattutto la fede, la carità, la speranza e l’umiltà, fama che è stata trasmessa di generazione in generazione grazie alle sue lungimiranti fondazioni.
Ad oggi vi è la piena coscienza che, se le comunità italo-sicule hanno una diocesi e vivono le tradizioni culturali e spirituali degli avi, ciò si debba a padre Guzzetta.
Papàs Eleuterio Schiadà, sacerdote di Piana degli Albanesi e parroco emerito di San Giorgio, lo ha definito “un faro luminoso in mezzo al nostro popolo”, perché ha avuto la consapevolezza dell’importanza della formazione religiosa del futuro clero greco-albanese affinché sapesse trasmettere la fede, la tradizione e il rito greco in prospettiva dell’unione delle Chiese. Questa visione trasmessa ai suoi contemporanei e poi ai posteri costituisce il fulcro della sua modernità perenne.
Riprendono così vita le parole di San Cipriano nel commentare il Padre Nostro, riportate nell’Enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo II del 25 maggio 1995: “Dio non accoglie il sacrificio di chi è in discordia, anzi comanda di ritornare indietro dall’altare e di riconciliarsi prima col fratello. Solo così le nostre preghiere saranno ispirate alla pace e Dio le gradirà. Il sacrificio più grande da offrire a Dio è la nostra pace e la fraterna concordia, è il popolo radunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”11.
Queste parole spiegano bene perché la Chiesa ha stabilito che p. Giorgio Guzzetta sia “venerabile”, cioè un esempio di uomo e di sacerdote per tutti i cristiani, cattolici e ortodossi.
Note
11 Giovanni Paolo II, Ut unum sint, n. 102, 25 maggio 1995.
= = =
MASSIMO NARO (1) amanuense@tin.it
SULLA CIMA DELLO SPIRITO.
UNA LETTURA TEOLOGICA
DELLA FISIONOMIA SPIRITUALE
DI GIORGIO GUZZETTA
Nell’orizzonte della modernità
«E confido, che lo Spirito Santo siccome partendosi da Costantinopoli, d’indi a poco andò tutto a ricoverarsi nel petto del nostro Santo Padre Filippo Neri, così dal suo petto sia altra volta a far ritorno in Costantinopoli per mezzo di questi nuovi suoi figli nero-albanesi»: mi piace iniziare il mio intervento con questa frase tratta dalla chiusa di una lettera del servo di Dio padre Giorgio Guzzetta (1682-1756) indirizzata ai suoi confratelli dell’Oratorio filippino di Venezia e pubblicata proprio a Venezia, già nel 1717, in appendice ad una biografia di san Filippo Neri (2). In questa breve citazione, infatti, mi pare si concentrino gli indizi principali della sua fisionomia spirituale.
Innanzitutto l’indole oratoriana che contraddistingue la spiritualità del Guzzetta e che – vedremo – si armonizza con gli influssi gesuitici e salesiani da lui ben recepiti e rielaborati: sant’Ignazio di Loyola e san Francesco di Sales sono i santi latini che, insieme a san Filippo Neri, ritornano con maggiore insistenza negli scritti di e su p. Giorgio.
Nota
(1) Il prof. Massimo Naro, Docente di Teologia sistematica nella Facoltà Teologica di Sicilia in Palermo e direttore del Centro Studi Cammarata di San Cataldo, ha pubblicato qualche anno fa una relazione Sulla cima dello spirito. Una lettura teologica della fisionomia spirituale di Giorgio Guzzetta, in Un Vescovo per il nostro tempo. Scritti in ricordo di Cataldo Naro, Arcivescovo di Monreale, a cura di V. Sorce, Ed. Solidarietà, Caltanissetta 2007, 217-227. Costituisce un breve saggio introduttivo alla spiritualità del Guzzetta, che viene riprodotto integralmente.
(2) La lettera è citata nella prima biografia ufficiale del Guzzetta, quella redatta da Giovanni D’Angelo: Vita del servo di Dio p. Giorgio Guzzetta greco-albanese della Piana prete della Congregazione dell’Oratorio di Palermo, da Giovanni D’Angelo sacerdote palermitano ricavata da alcuni mss. del p. Luca Matranga proposito dell’Oratorio della Piana, e da altre Memorie, per le Stampe di Pietro Solli, Palermo 1798. L’opera, ormai rarissima, è stata recentemente ripubblicata; qui e di seguito cito dalla ristampa: G. D’Angelo, Vita di padre Giorgio Guzzetta, a cura di P. Manali e con nota bio-bibliografica di M. Mandalà, Sciascia Ed., Caltanissetta-Roma 2009, p. 96 (Libro I, Capo X, 3).
Coerentemente, in tale prospettiva, emerge subito anche la modernità del vissuto spirituale interpretato da p. Guzzetta: Filippo Neri, Ignazio di Loyola, Francesco di Sales, Giuseppe Calasanzio (anche quest’ultimo talvolta citato) non sono semplicemente e soltanto gli spirituali “latini” con cui p. Guzzetta si accompagna spiritualmente e ch’egli accompagna agli altrettanto amati e stimati antichi Padri della Chiesa greca; essi sono, oltre che “latini”, anche e soprattutto “moderni” e si collocano tra i protagonisti del rinnovamento spirituale post-tridentino, destinato a riformare – grazie anche al contributo di figure femminili di non minore levatura, come Angela Merici e Giovanna de Chantal – pure la vita religiosa e consacrata secondo formule ormai sganciate dagli antichi assetti tipici dei grandi ordini monastici e conventuali medievali e praticate ormai nelle cosiddette Compagnie di consacrati e di chierici regolari o anche di preti diocesani congregati comunque insieme, se non nella vita comunitaria strettamente intesa, almeno attorno ad una comune regola di vita.
Un terzo tratto della fisionomia spirituale del Guzzetta che, nella frase citata all’inizio, subito s’impone all’attenzione è quello che Vittorio Peri ha definito – in termini calibrati ma efficaci – l’«ideale di composizione cristiana» tra le due anime del cristianesimo, quella latina e quella greca(3), che p. Guzzetta ravvisava e tentava non senza travaglio di valorizzare nella tradizione e nella situazione ecclesiale degli Albanesi di Sicilia.
Su tutti questi tratti della fisionomia spirituale del Guzzetta tornerò via via nel prosieguo della mia riflessione. Intanto, però, la citazione mi offre l’opportunità di chiarire anche l’accezione che il termine “spiritualità” ha qui per me in riferimento alla vicenda di p. Giorgio Guzzetta: la spiritualità cristiana è innanzitutto vita dello Spirito nel cuore del credente, il quale perciò vive a sua volta nello Spirito e secondo lo Spirito$4). È, insomma, l’interiorizzazione personale del rapporto con Dio, che traducendosi in pneumatica inabitazione, oltrepassa le forme talvolta meramente esteriori dei riti e delle devozioni. Anche nell’annota zione di p. Guzzetta, lo Spirito Santo si «ricovera nel petto» dei santi – del suo «Santo Padre Filippo Neri» – e «dal petto» dei santi muove di nuovo per compiere le meraviglie di Dio in loro e tramite loro. È questo il significato più autentico, tipicamente neotestamentario, della spiritualità cristiana; e perciò è anche il suo significato permanentemente attuale. Ma il fatto che si colga con grande evidenza nella lettera di p. Guzzetta, testimonia ulteriormente della modernità della sua fisionomia spirituale, che assume in questa direzione contorni ormai più maturi rispetto al modello spirituale tipico della devozione tardo-medievale.
Note
(3) Cf. V. Peri, L’ideale unionistico di p. Giorgio Guzzetta. La pace da ristabilire tra la Chiesa greca e la Chiesa romana, in «Oriente Cristiano» 25 (2-3/1985) pp. 18-41, riproposto – per onorare la memoria dell’Autore ormai scomparso – in «Oriente Cristiano» 46 (1-4/2006) p. 145-173.
(4) È questo il significato di “spiritualità” caro a Mons. Cataldo Naro e da lui tante volte argomentato e rintracciato nel vissuto credente dei testimoni della fede studiati nel corso della sua più che trentennale produzione storiografica: cf. C. Naro, Per una storia della spiritualità in Sicilia in età contemporanea, in La Chiesa di Sicilia dal Vaticano I al Vaticano II, a cura di F. Flores d’Arcais, Sciascia Ed., Caltanissetta Roma 1994, I, 483-547.
Appunto come avveniva nella vicenda di Filippo Neri e di Ignazio di Loyola e, ancora, di Francesco di Sales. Giovanni D’Angelo, nella sua importante biografia del Guzzetta, riporta opportunamente, in una nota, il racconto di una visione che la venerabile suor Serafina di Capri ebbe di san Filippo Neri e che p. Guzzetta era solito riferire ai giovani del suo seminario e ai confratelli filippini per stimolarli a coltivare la loro vita spirituale: nella visione il Fondatore dell’Oratorio chiamava i suoi discepoli «figli dello Spirito Santo», per sottolineare l’importanza della relazione personale con Dio quale forma principale della santità cristiana.
Questa personalizzazione del rapporto con Dio sfronda la spiritualità di ogni superfluo appesantimento etico ed ascetico e punta direttamente alla «cima» che il religioso filippino deve raggiungere, cioè – sempre per citare il racconto riportato dal biografo di p. Guzzetta – il «non aver altr’obbligo, che solo l’amare il Signore, ch’è [appunto] la cima, e perfezione d’ogni cosa». Da qui la bellissima definizione degli oratoriani, che p. Guzzetta certamente riferì a se stesso quando poco più che ventenne entrò nell’Oratorio dell’Olivella a Palermo e che riferì di certo poi anche ai suoi discepoli quando trapiantò l’Oratorio a Piana degli Albanesi, partecipando ai suoi conterranei di rito greco la nuova spiritualità filippina: «figli della cima dello spirito»(5) .
Nota
5 Cf. G. D’Angelo, Vita di padre Giorgio Guzzetta, cit., p. 76 (Libro I, Capo VII, 6, in nota).
La coerente continuità con un lungo filone spirituale
Ponendosi alla scuola di Filippo Neri, Guzzetta si inserisce in un filone spirituale – e direi anche teologico e pastorale – che rimane fondamentale nella parte occidentale della Sicilia dalla seconda metà del XVI secolo sino alla fine del XIX. Monreale, Palermo e Piana degli Albanesi – i luoghi del Guzzetta – sono tra i punti di maggiore emergenza di questo complesso e articolato filone. Si tratta di una spiritualità e di una sensibilità ecclesiale che, derivando dalla riforma cattolica propugnata dal concilio di Trento e, perciò, incoraggiata dai pontefici, si distingue nettamente rispetto al filogiansenismo e al gallicanesimo che pure si affermeranno nell’Isola nel corso del Settecento e con cui dovranno fare aspramente i conti i gesuiti – addirittura temporaneamente soppressi anche a seguito di tali conflitti – e poi, dal 1761, pure i redentoristi di sant’Alfonso, eredi delle missioni popolari e delle scuole 46 OCOriente Cristiano di catechismo gesuitiche. Il rispetto per gli orientamenti pontifici, l’impegno peculiarmente pedagogico per la formazione cristiana delle popolazioni che – dal Seicento in poi – andavano colonizzando le campagne siciliane (impegno pedagogico espletato in forza di quella che all’osservazione degli studiosi si è rivelata una vera e propria politica linguistica, basata sulla valorizzazione catechetica delle lingue volgari nazionali e regionali e di cui proprio a Piana degli Albanesi fu esempio – forse non esente da qualche ambiguità “colonialistica” – la traduzione in lingua albanese del catechismo del gesuita Giacomo Ledesma ad opera del p. Luca Matranga e per volontà dell’Arcivescovo di Monreale Ludovico II Torres (7) ), l’attenzione particolare riservata all’educazione dei giovani anche e soprattutto di quelli appartenenti a famiglie non agiate, il rifiuto del rigorismo morale, la predicazione della serietà della giustizia divina di missionari come il gesuita Luigi La Nuza mitigata però dall’annuncio della tenerezza e della misericordia di Dio intese come irrinunciabile buona novella del cristianesimo (8) , la compassione verso i bisogni dei più poveri, costituivano i tratti salienti di questo filone, che del resto risultava precipuamente dall’intreccio della tradizione filippina con quella gesuitica.
Il già citato Arcivescovo di Monreale Ludovico II Torres, discepolo di san Filippo e amico dei primi insigni oratoriani – si pensi al Philippus, sive de christiana laetitia dialogus scritto nel 1591 dal card. Agostino Valier9 , in cui il Torres è annoverato tra i primi sette discepoli di san Filippo, insieme al cardinale Federigo Borromeo, al cardinale Agostino Cusani, all’Arcivescovo Silvio Antoniano, all’abate Marcantonio Maffa, e agli oratoriani Cesare Baronio e Giovan Francesco Bordini – può essere considerato l’iniziatore di questo filone.
Filone destinato a dipanarsi lungo tante generazioni di preti monrealesi, molti dei quali superiori del seminario arcivescovile di Monreale, sino al canonico monrealese Alberto Greco Carlino amico stimato del Guzzetta e maestro del poeta Antonino Diliberto, quel Binidittu Annuleru autore delle famose novene natalizie e della Duttrina cristiana in versi siciliani in cui sono dedicate non a caso bellissime pagine a san Filippo Neri, proprio là dove si parla dei doni dello Spirito Santo, e alla Madonna
Note:
(6) un’ampia ed interessante recensione fatta da Cataldo Naro al volume curato da Salvatore Giammusso: Lettere dalla Sicilia a S. Alfonso, Collegium S. Alfonsi de Urbe, Roma 1991, in «Ho Theológos» n.s. 3 (1993), 445-454. Cf. inoltre C. Naro, Biagio Garzia, prete di S. Cataldo, primo redentorista di Sicilia, in «Notiziario» del Centro Studi Cammarata, n. 28 del maggio 1998, 22-26.
(7) Cf. L. Matranga, E mbsuame e krështerë. Edizione critica dei testi manoscritti e a stampa (1592), a cura di M. Mandalà, Sciscia Ed., Caltanissetta-Roma, 2004.
(8) Cf. C. Naro, Un predicatore gesuita nella Sicilia del Seicento: Luigi La Nuza, in Aa.Vv., La predicazione in Italia dopo il concilio di Trento tra Cinquecento e Settecento, a cura di G. Martina e U. Dovere, Dehoniane, Roma 1996, 333-345.
(9) Cf. A. Valier, Il dialogo della gioia cristiana, a cura di A. Cistellini, La Scuola, Brescia 1975.
dell’Orto (10), così venerata in quella chiesetta monrealese che fu cenacolo filippino animato da uno dei superiori del seminario monrealese, il p. Giuseppe Lombardo – poi fattosi oratoriano a Palermo nel 1706 –, e frequentato dal giovanissimo Guzzetta, che non a caso seguì il suo antico superiore passando nel 1706 dal seminario di Monreale all’Oratorio palermitano dove, nel dicembre 1707, fu ordinato presbitero (11). Filone, peraltro, prolungatosi tenacemente sino ad arrivare a Giacomo Cusmano, a Nunzio Russo e a Giuseppe Guarino, protagonisti del cristianesimo caritativo di fine Ottocento e accomunati tutti dal magistero spirituale di Mons. Domenico Turano, oratoriano dell’Olivella, lucido professore di teologia nell’Università palermitana, acuto interprete degli scritti spirituali di san Francesco di Sales e direttore d’anime raffinatissimo, dal 1872 Vescovo di Girgenti, suggeritore dell’idea del cosiddetto boccone del povero e teorico della divina metamorfosi dell’uomo vecchio peccatore nell’uomo nuovo cristificato (12).
Il Torres si pone all’inizio di un così lungo filone soprattutto per l’impegno profuso nella fondazione – nel 1590 – del seminario monrealese in ottemperanza ai canoni tridentini e sulla scorta dell’esempio dato a Milano dal cardinale Carlo Borromeo, cugino del suo amico Federigo. L’Arcivescovo Torres per un verso aveva fatto redigere una regola del seminario che si rifaceva costantemente alle Massime di san Filippo e aveva posto a caposaldo del programma formativo il volume sull’Educazione cristiana de’ figliuoli dell’amico Silvio Antoniano, come lui e con lui amico di Filippo Neri; è in questo senso che il D’Angelo, parlando degli anni della formazione seminaristica del Guzzetta, trascorsi proprio nel seminario monrealese dov’era stato ammesso dall’Arcivescovo Giovanni Roano, accredita la tradizione secondo cui la regola del seminario di Monreale era stata scritta dallo stesso san Filippo (13), mentre anche il Millunzi, scrivendo la storia del seminario monrealese ormai alla fine dell’Ottocento,
Note
(10) Cf. A. Diliberto, Dottrina cristiana. Un catechismo del XVIII secolo in dialetto siciliano, introd. di G. Di Fazio, a cura di S. Ferina, Archivio Storico dell’Arcidiocesi di Monreale - Provincia Regionale di Palermo, Palermo 2004, 92-107 e 236-245. Cf. inoltre F. Conigliaro - A. Lipari - C. Scordato, Narrazione, teologia, spiritualità del Natale. Viaggiu dulurusu di Maria Santissima e lu Patriarca S. Giuseppi in Betlemmi. Canzunetti siciliani di Binidittu Annuleru […], introd. di C. Naro, Abadir, Palermo, 2004.
(11) Si può seguire il dipanarsi di tale filone leggendo il testo importantissimo di G. Millunzi, Storia del Seminario Arcivescovile di Monreale, Bernardino Ed., Siena 1895, specialmente 93-132. 12
(12) Mi permetto di rimandare a M. Naro, Divina metamorfosi. L’antropologia cristiana di Domenico Turano, Sciascia Ed., Caltanissetta-Roma 2002 e Id., Domenico Turano. Cattolicesimo militante e modernità, Centro Siciliano Sturzo, Palermo 2003. Anche il magistero spirituale di p. Guzzetta, rivolto ai confratelli dell’Olivella e ai seminaristi di Piana, si sviluppava precipuamente in questa prospettiva, del resto tipicamente paolina: «Egli verso loro tutti i modi adoprava per indurli a spogliarsi coraggiosamente dell’uomo vecchio, e a rivestirsi del nuovo» (G. D’Angelo, Vita di padre Giorgio Guzzetta, cit., p. 80 [Libro I, Capo VIII, 3]).
(13) Cf. G. D’Angelo, Vita di padre Giorgio Guzzetta, cit., p. 54 (Libro I, Capo III, 4).
ammette un forte influsso filippino sulla regola voluta dal Torres e fors’anche dei ritocchi personali di san Filippo, pregato dall’Arcivescovo di leggere e valutare quella regola (14). Per altro verso il Torres aveva chiesto la consulenza dei gesuiti, coinvolti così nella conduzione del seminario, e lo stesso Millunzi rileva il «tipo» gesuitico nel dettato di non poche pagine della regola del seminario monrealese (15).
Per quanto ci riguarda, in riferimento alla fisionomia spirituale del Guzzetta, non possiamo non ricordare che egli si formò appunto lì dove la spiritualità filippina e quella gesuitica si intrecciavano più strettamente, cioè nel seminario monrealese, proprio negli anni in cui continuavano ad esserne professori i religiosi della Compagnia di Gesù e mentre ne era ministro – cioè vice-rettore – prima e poi rettore Giuseppe Lombardo, il quale fu sensibilissimo al fascino filippino tanto da ritirarsi, alla fine del suo rettorato, presso l’Oratorio di Palermo, per poi morirvi in fama di santità (16). Tenendo conto che il giovane Guzzetta fu dapprima alunno delle scuole umanistiche interne al collegio gesuitico di Trapani, poi simpatizzante dell’Oratorio presso la chiesa della Madonna dell’Orto in Monreale e, contemporaneamente, allievo del seminario monrealese, nel cui regolamento le pagine filippine si alternavano armoniosamente con quelle gesuitiche, gli si può riferire il profilo che il tipico seminarista monrealese aveva nei secc. XVII e nel XVIII secondo quanto ha scritto il Millunzi: totalmente obbediente ai superiori e insieme educato alla responsabilità del dialogo, attento e ligio agli insegnamenti dei maestri ma anche già impegnato nell’insegnare ai più giovani i fondamenti della dottrina cristiana, disposto alle mortificazioni più dure ma sempre gioioso con tutti e ovunque. Nel regolamento da lui stesso redatto in seguito per il seminario greco-albanese di Palermo, questa medesima doppia anima rimarrà evidentissima: i suoi seminaristi avrebbero dovuto fare annualmente gli esercizi spirituali di sant’Ignazio e quotidianamente avrebbero dovuto studiare gli scritti di san Filippo, insieme alle Massime del Sales – dallo stesso Guzzetta pubblicate in versione italiana (17) –, oltre che alle Regole ascetiche di san Basilio Magno. Del resto, la conduzione del seminario greco-albanese fondato nel 1734 dal Guzzetta, per statuto, doveva essere condivisa oltre che da un rettore tratto sempre dal clero grecoalbanese di Piana, anche dagli oratoriani dell’Olivella per quanto riguardava la formazione spirituale e dai gesuiti del Collegio palermitano per quanto riguardava l’insegnamento scolastico (18).
Note
(14) Cf. G. Millunzi, Storia del Seminario Arcivescovile di Monreale, cit., 31-34.
(15) Cf. ivi, 30.
(16) Cf. ivi, 100-103. 17 Cf. G. D’Angelo, Vita di padre Giorgio Guzzetta, cit., p. 241 (Libro II, Capo II, 12); p. 270 (Libro II, Capo VI, 10).
(18) Cf. ivi, 124 ss. (Libro I, Capo XIV, 5).
I tratti originali: l’incondizionatezza di Dio e la gratuità della santità
Al di là della continuità con il contesto prossimo e remoto (una sorta di «mare protetto» lo ha definito Pietro Manali (19) in cui si inserisce la figura del Guzzetta – il lungo filone che inizia, come già detto, col Torres alla fine del Cinquecento e che continua sino alla fine dell’Ottocento con i discepoli del Turano –, la sua fisionomia spirituale può e deve esser delineata nel suo profilo più specifico ed originale. Si può fare ricorso, a tal scopo, alla biografia pubblicata da Giovanni D’Angelo circa quarant’anni dopo la morte del Guzzetta e redatta come se fosse una sorta di positio risultante dalle ricerche e dai lavori per il processo della sua beatificazione: importantissime in tal senso le testimonianze autorevoli che il biografo recensisce per fissare il ricordo del Guzzetta; e ancora più importanti e utili le numerose citazioni degli scritti dello stesso Guzzetta, in cui – più o meno esplicitamente e talvolta soltanto tra le righe – emergono i tratti più peculiari della sua vicenda spirituale e della sua esperienza credente.
Un primo efficace abbozzo del profilo spirituale di p. Guzzetta si ha già nelle pagine che descrivono il giovane seminarista, fresco di studi gesuitici e impegnato nella scuola di catechismo da lui tenuta a Piana per i fanciulli e i ragazzi della comunità albanese. Dal racconto del biografo si possono ricavare le dimensioni più importanti dell’impegno apostolico e della testimonianza di fede resi tra la sua gente dal Guzzetta. Si registra innanzitutto la preoccupazione dottrinale, tradotta in ammaestramenti di tenore prevalentemente edificatorio e devoto, vertente su argomenti come il «timor santo di Dio», l’«orrore del peccato», l’«amore alla santa purità», la «dolorosa Passione di Gesù Cristo» e «Maria Vergine Addolorata» (20), tematiche tutte care ai predicatori che percorrevano la Sicilia in epoca moderna per le loro missioni popolari: tra gli appunti del venerabile Ignazio Capizzi, prete secolare originario di Bronte che predicò nella prima metà Settecento nelle città e nelle terre del Palermitano e che fu ascoltato anche dall’Arcivescovo monrealese Francesco Testa21, si ritrovano alcuni di quegli argomenti trattati dal giovane Guzzetta nella sua piccola scuola a Piana degli Albanesi. Del resto sono gli stessi argomenti che riecheggiano nel cate chismo del Ledesma tradotto a Piana dal Matranga e nel piccolo catechismo in siciliano pubblicato a Monreale da Mons. Testa nel 1764 (22). Nel contegno educativo del giovane Guzzetta, però, si assommavano e si armonizzavano anche altri registri.
Note
(19) Cf. P. Manali, Introduzione, in G. Costantini, Cenni della Vita e delle Opere di padre Giorgio Guzzetta, Tip. Luxograph, Palermo 2007, 5.
(20) Cf. G. D’Angelo, Vita di padre Giorgio Guzzetta, cit., p. 55 (Libro I, Capo III, 7).
(21) Cf. G. Millunzi, Storia del Seminario Arcivescovile di Monreale, cit., p. 184; sulla predicazione missionaria in Sicilia durante il Settecento e sul corrispondente modello ideale di prete di quell’epoca cf. C. Naro, La Chiesa di Caltanissetta tra le due guerre. I: Ideale sacerdotale e prassi pastorale, Sciascia Ed., Caltanissetta-Roma 1991, 25-37. Interessanti risultano anche le riflessioni di Cataldo Naro sulla vicenda spirituale e pastorale di un prete oratoriano di San Cataldo, Rosario Pirrelli, morto nel 1861 in fama di santità, che ancora nella prima metà dell’Ottocento percorreva l’entroterra siciliano predicando come missionario secondo lo stile del Capizzi: Un esempio di agiografia nella tradizione del popolo. Vite popolari del padre Pirrelli da S. Cataldo, a cura di C. Naro, Ed. del Seminario, Caltanissetta, 1984.
22 Cf. [Francesco Testa], Elementi della dottrina cristiana esposti in Lingua Siciliana ad uso della Diocesi di Monreale, Stamp. Pietro Bentivegna, Monreale, 1764.
L’ascetica si accompagnava con l’odegetica e con la filantropia (d’«amore per l’umanità» parla il suo biografo (23), raccontando lo zelo del Guzzetta nel dotare le comunità albanesi di Sicilia di un loro seminario e di un loro collegio di studi ecclesiastici, istituito a Palermo nel 1734). Si sforzava così di insegnare ciò che aveva egli stesso da poco appreso e a cui annetteva grande importanza: abituava gradualmente i suoi giovanissimi allievi al dominio di sé («li avvezzava a tener da buon ora il loro spirito soggetto alla ragione colla mortificazione de’ sensi, e con moderati digiuni»), li conduceva a messa, li faceva accostare al sacramento della confessione e li preparava alla periodica comunione eucaristica («di tanto in tanto»), li educava all’altruismo e alla carità evangelica («ad usar generosità, ed esser liberali verso i poveri»). Tutto ciò con l’attenzione a praticare lui per primo quanto insegnava al fine di non «smentire per via di opposti esempi quelle virtù», annotazione quest’ultima che ci lascia intuire come in realtà il biografo riferisca queste informazioni per illustrare già il ritratto cristiano del Guzzetta (24). Il suo profilo spirituale, tuttavia, acquista sfumature originali allorché si riescono a rintracciare, nelle pagine del suo maggiore biografo, le annotazioni dello stesso Guzzetta, risalenti agli anni trascorsi all’Olivella: «Il fine primario, per cui Iddio ci ha chiamati alla Congregazione, non fu perché i sacerdoti con le lettere, studi, prediche, e confessioni giovassero all’anime, e colle loro altre abilità, e talenti illustrassero la casa, promovessero i loro interessi; né che i fratelli laici si abilitassero a divenir chi esattore, chi buon compratore, chi buon infermiere; ma per farci veri santi Sacerdoti, virtuosi, e santi congregati rispetto a noi medesimi, e poi servir la Comunità, e le anime. Chi trascura il proprio profitto, e l’avanzarsi nell’acquisto delle sante virtù, tuttoché riesca un gran Predicatore, un Confessore di molta gente, uomo di gran portata negli affari della Congregazione, renderebbe delusi i fini, che Iddio ebbe nella di lui vocazione. La nostra mira principale, se non vogliamo operare da stolti, dobbiamo averla al nostro bene ed all’acquisto delle sante virtù, che sono una purità angelica, una carità sviscerata, ed un distacco totale dal mondo, e dalle sue vanità» (25).
Note
(23) Cf. G. D’Angelo, Vita di padre Giorgio Guzzetta, cit., p. 105 (Libro I, Capo XII, 2).
(24) Cf. ivi, 56 (Libro I, Capo III, 8).
(25) Ivi, 65-66 (Libro I, Capo V, 6).
Forse anche queste annotazioni sono l’eco degli insegnamenti filippini che il giovane Guzzetta riceveva nei primi tempi della sua aggregazione all’Oratorio. Ma indubbiamente c’è già anche la sua personale rielaborazione, che lo porta ad affermare 23 Cf. G. D’Angelo, Vita di padre Giorgio Guzzetta, cit., p. 105 (Libro I, Capo XII, 2). 24 Cf. ivi, 56 (Libro I, Capo III, 8). 25 Ivi, 65-66 (Libro I, Capo V, 6). con una abbastanza singolare chiarezza ciò che davvero importa nella vita del religioso: e cioè il dover rispondere a Dio prima che a chiunque altro della vocazione alla santità. L’eminenza spirituale del Guzzetta comincia ad emergere proprio in questa discontinuità – singolare, appunto, per quei suoi tempi – rispetto al contesto, generalmente ancora poco sensibile alle ragioni gratuite e graziose della santità intesa e vissuta come l’unica vera chiamata di Dio, la cui importanza sarà da pochi altri e poche altre volte affermata in termini così icastici e suggestivi. C’è, nelle annotazioni del Guzzetta, la netta preferenza per l’essere piuttosto che per il fare: la santità cristiana, per i preti filippini, non è questione di attivismo pastorale; e per i confratelli laici dell’Oratorio non si riduce a svolgere bene la propria mansione per il buon andamento della casa e del collegio. Guzzetta mostra la consapevolezza dello scarto rischioso che c’è tra ministero e vita interiore, fra impegno per l’altrui redenzione e fatica del perfezionare se stessi: per lui la cura animarum è intesa qui come il campo d’azione di chi sa che deve comunque restare come un contemplativo, al cospetto di Dio, presso di sé, in sé, per sé. Del resto Dio è al di là di tutto e di tutti e la santità è il rapporto di ciascuno con Lui, senza strategie, senza scelte funzionali di sorta, persino senza premi cui aspirare e senza castighi da evitare. La santità è amare Dio perché è Dio, incondizionatamente e assolutamente.
Vale la pena citare un altro brano dalle annotazioni del Guzzetta, emblematico della stupefacente e formidabile modernità con cui egli vive e interpreta – con un’efficacia letteraria così suggestiva e vigorosa da sembrare curiosamente nietzschiana – l’esperienza spirituale, andando al di là delle convenienze e delle convenzioni religiose, all’interno delle quali le pur nobili e tremende parole della tradizione cristiana – paradiso e inferno – si rivelano come maschere della paura e dell’impotenza umane: «Quel, che l’immensa bontà di Dio con man pietosa porse in rimedio alla svogliatezza del nostro cuore, l’assaggiamo in cibo cotidiano al sostegno del nostro spirito.
Non ci moviamo ad amarlo, che o stimolati dal pungolo del timore, o portati a volo delle ali della speranza. Ma questo alla fine è un gran torto, che si fa alla divina bontà, che se non l’oltraggia, almen la scredita, quasi non bastasse da sé medesima a meritarsi tutto l’ossequio de’ nostri affetti, e bisognasse andar pascendo i nostri cuori, come i pesci coll’amo, e addomesticarseli, come i timidi fanciulli collo spavento. Sicché avea ben ragione quell’anima infervorata di camminare per le pubbliche piazze con una fiaccola accesa e con un vaso d’acqua alle mani, gridando di voler con quella fiaccola abbruciar il paradiso, e con quell’acqua estinguer l’inferno perché Dio non si amasse per isperanza di premio, o per timor di castigo. È cresciuta tanto la bontà di Dio ne’ suoi due sì grand’eccessi di dolore, ed amore fu ‘l Calvario, e fu dell’altare, che per amarla vi vorrà forse più paradiso? Che paradiso! Che inferno! siamo posti in dolce necessità di amarlo per lei medesima, non per allettamento di premio, né per timor di supplizio» (26).
In tale prospettiva la vita cristiana e il ministero sacerdotale stesso diventano un serissimo affare personale, la forma fondamentale della propria relazione con Dio, più e prima ancora che un servizio reso agli altri. Men che meno sono riducibili al mero calcolo nei confronti di Dio, o ad un magico gioco d’azzardo in cui si possa barare o bluffare. E la santità appare non più come il premio ricevuto dopo e a causa delle proprie fatiche apostoliche, ma come la ragione propulsiva in forza di cui ci si può davvero e fruttuosamente impegnare anche per gli altri: «[…] che profitto potremmo fare, ne’ prossimi, ove noi medesimi non profittiamo? Qual fuoco riscalda mai, se in sé non abbrucia? Qual madre può allattare il tenero figlio, se prima non si mette in forze col cibo? Chi mai poté dare spirito senza spirito? Oh sapessimo noi quanti crolli, quante cadute saran di dietro a chi non avendo spirito, vuol vendere spirito!» (27). Un dono ricevuto, non una mercede guadagnata è la santità, secondo Guzzetta. Un esigente punto di partenza, non l’ipoteca dell’approdo.
La «misticità» al di là dell’ascesi
Manovrando in questo orizzonte vertiginosamente verticale, in cui Dio è l’Incondizionato e la santità è avere a che fare con Lui, principalmente e anzi solamente con Lui, p. Guzzetta, da buon discepolo di Filippo Neri e da ammiratore convinto di Francesco di Sales, sa comunque che l’uomo non può vivere l’esperienza spirituale se non che umanamente. Perciò diventa esperto di tutti quei modi umani che aiutano a lasciarsi incontrare da Dio.
Tra questi innanzitutto l’orazione mentale, vale a dire la meditazione della Sacra Scrittura e delle testimonianze patristiche28. La meditazione è, per Guzzetta, esercizio teologico più che semplice orazione. La «ragione unita coll’Evangelio»29, come già era stato per Francesco di Sales. Studio e preghiera, ratio et oratio, si accompagnano sempre anche nella vita di p. Guzzetta. Quando, ormai anziano, diventerà cieco e incapace di leggere, supplirà al deficit di studio con un sovrappiù di preghiera. Ma mai tralascerà del tutto la ricerca e la riflessione, facendosi leggere dai suoi allievi o dai suoi confratelli i libri utili alla sua meditazione (30).
Del resto così aveva anche prescritto all’inizio del regolamento del suo seminario greco-albanese, disponendo che i seminaristi stessero attenti a non rimanere mono53 Numero speciale - Venerabile Giorgio GuzzettaOC 26 Ivi, 255 (Libro II, Capo IV, 7). 27 Ivi, 66 (Libro I, Capo V, 7). 28 Cf. ivi, 68-69 (Libro I, Capo VI, 4). 29 Ivi, 241 (Libro II, Capo II, 12). 30 Ivi, 67-68 (Libro I, Capo VI, 2); 75 (Libro I, Capo VII, 5). phthalmoì, «monocoli», e piuttosto si preoccupassero di essere «provvisti di entrambi gli occhi, cioè di santità, e di dottrina» (31).
Anche alla direzione spirituale il p. Guzzetta attribuiva molta importanza. Con uno stile colloquiale e familiare, tipicamente filippino e salesiano insieme – secondo le testimonianze riferite dal suo maggiore biografo – egli fu oltre che confessore della tantissima gente che chiedeva di lui anche maestro spirituale dei suoi confratelli e dei suoi seminaristi, come pure di alti prelati, di principi e di nobildonne. A tutti insegnava ad «avere il cuore fatto per Dio»32 e a «sempre più avanzarsi nella via del Signore»33, come efficacemente è scritto nella regola del seminario greco-albanese da lui fondato, mentre – riprendendo san Paolo – invitava i suoi discepoli alla conversione, «per indurli – secondo il suo biografo – a spogliarsi coraggiosamente dell’uomo vecchio, e a rivestirsi del nuovo» (34).
Inoltre, il contegno del credente davanti a Dio dev’essere, per Guzzetta, come già per san Filippo, l’umiltà, la quale in realtà è l’abbandono alla volontà divina e la fiducia nel Signore, anche quando Egli mette alla prova l’uomo, facendogli sperimentare, come p. Giorgio scrive al Balì Bonannì, «contradizione [sic] equivalente al martirio»35. Da qui la «santa allegria» tipicamente filippina che anche Guzzetta consigliava ai suoi discepoli, «essendo l’allegrezza – annota il D’Angelo, quasi parafrasando le battute dell’Arcivescovo Torres nel dialogo sulla gioia scritto dal Valier – quell’effusione di cuore, o per meglio dire, quel vivo piacere, che la nostr’anima prova alla considerazione del possesso di un bene presente, o futuro riguardato come certo» (36). All’umiltà verso Dio corrisponde «una carità più che tenera verso il prossimo»37, che nella vita del Guzzetta si traduce in preferenza per i più poveri (38).
Come si vede non è l’ascesi la cifra principale del vissuto spirituale di p. Guzzetta. Piuttosto è quella che, insieme con un altro suo biografo, Giorgio Costantini, potremmo anche noi chiamare la sua «misticità»39, vale a dire il radicale senso della profonda comunione con Dio. Non è un caso che Guzzetta non pratichi, pur ancora in pieno Settecento, nessuna disciplina e non usi né faccia usare ai suoi discepoli cilizi di sorta. E non è un caso che la pratica devota più ricorrentemente ricordata a suo riguardo e che egli stesso prescrive nella sua regola seminaristica sia la comunione spirituale e, ancor più, la meditazione della passione di Cristo Gesù in preparazione alla comunione eucaristica (40).
Note
31 Ivi, 121 (Libro I, Capo XIV, 5).
2 Ivi, 80 (Libro I, Capo VIII, 3).
33 Ivi, 132 (Libro I, Capo XIV, 5).
34 Ivi, 80 (Libro I, Capo VIII, 3).
35 Ivi, 242 (Libro II, Capo II, 13).
36 Ivi, 89 (Libro I, Capo IX,4); cf. A. Valier, Il dialogo della gioia cristiana, cit., pp. 26-39.
37 G. D’Angelo, Vita di padre Giorgio Guzzetta, cit., p. 103 (Libro I, Capo XI, 4).
38 Cf. ivi, pp. 285-295 (Libro II, Capo VIII).
39 Cf. G. Costantini, Cenni della Vita e delle Opere di padre Giorgio Guzzetta, cit., p. 35.
40 Cf. G. D’Angelo, Vita di padre Giorgio Guzzetta, cit., p. 132 (Libro I, Capo XIV, 5).
La croce, per p. Guzzetta, non è qualcosa di esteriore: non è una semplice pratica ascetica che mortifichi soltanto il corpo, non è men che meno una medaglietta o un mero orpello con cui ci si possa paludare. È invece un abito interiore, il rivestirsi di Cristo, la partecipazione misterica e spirituale alla sua Pasqua e, quindi, alla comunione di Cristo stesso con Dio. Vale la pena, a questo proposito, citare la chiusa dell’apologia redatta dal Guzzetta nel 1722 in difesa del diritto delle suore basiliane di Palermo a portare sul petto, come parte integrante del loro abito religioso, la crocetta: «Questa è la maniera di portarsi gloriosamente la Santa Croce: portarsi come col corpo, così ancor colla mente. Ma se la mente distratta, e vagante tutto dì in bagattelle di mondo, pensi a tutt’altro, che al patire, o al compatire; vana è la vostra religiosità in portare la Croce nell’Abito, senza punto abituare alla Croce la mente. E pure questo è l’obligo della vostra professione, ed a ciò dovreste impiegare principalmente tutto il vostro zelo [...]. Ed ecco finalmente in che impegno vi costituisce l’uso di vostra Crocetta, a portarla non singolarmente nel petto, ma siccome nel petto, così anche portarla moltiplicata colla Santa Mortificazione e nella Mente e nel Cuore, ed in tutti i membri, e sentimenti del vostro Corpo» (41).
A mo’ di conclusione: la concretezza della santità
Il nome del servo di Dio Giorgio Guzzetta è ricordato ai nostri giorni nella litania delle figure di santità della Chiesa di Monreale composta dal compianto Arcivescovo Cataldo Naro: «Vanto degli Albanesi di Sicilia e insigne riformatore» sono i titoli con cui questi lo invocava (42). Da questa invocazione ricavo un’importante indicazione: c’è da mettere difatti in conto, fra i tratti della sua fisionomia spirituale, anche quelli ben riconoscibili della storia della sua comunità, entro cui egli maturò la misura della sua santità43. Il suo impegno sociale, culturale e politico in favore della popolazione albanese
Note
(41) Ellenio Agricola [pseudonimo di G. Guzzetta], Apologia istorica dell’uso della crocetta d’argento che portano pendente sul petto le Monache Basiliane del Real Monasterio del Santissimo Salvatore della Città di Palermo, Stamp. Felice Mosca, Napoli 1722, 121.
(42) Cf. C. Naro, Amiamo la nostra Chiesa, in «Il Regno/Documenti» 50 (21/2005) pp. 615-631, precisamente p. 631.
(43) Cf. i due fascicoli della rivista «Oriente Cristiano» dedicati interamente a Giorgio Guzzetta: 25 (1985) nn. 2-3 e il più recente 46 (2006) nn. 1-4 (in cui ci sono anche alcune pagine che ragguagliano circa lo stato della causa di canonizzazione del servo di Dio e un inserto speciale che riproduce il Breve compendio della vita del servo di Dio p. Giorgio Guzzetta, pubblicato a Piana degli Albanesi da Rosolino Petrotta nel 1956). Per una ricostruzione del contesto storico-culturale cf. Albanesi in Sicilia, a cura di M. Mandalà, A.C. Mirror, Palermo 2003.
di Sicilia, di cui era orgogliosamente figlio, non è un fattore indifferente o secondario nel suo cammino di perfezione cristiana. Aver innestato l’Oratorio filippino tra i preti della Piana, l’aver fondato il seminario greco-albanese a Palermo, l’aver incoraggiato gli studi di molti giovani albanesi siciliani, l’aver aperto più di un collegio di Maria nei paesi della Piana per l’educazione della bambine e delle ragazze, l’aver contribuito al ripristino e al rinnovamento della liturgia secondo il rito greco, l’aver promosso la divulgazione della migliore letteratura patristica greca oltre che degli scritti dei maggiori spirituali italiani del suo tempo, l’aver ricostruito la memoria storica del suo popolo (44), l’essersi fatto interprete e difensore dei diritti della sua gente sia presso l’autorità monarchica sia presso quella pontificia, l’aver lavorato per il reciproco riconoscimento nell’unico abbraccio della fede cattolica dei cristiani di rito latino e di quelli di rito greco in Sicilia (come lascia intendere lo stemma del suo seminario, in cui campeggia un cuore infiammato che si fregia del segno pacifico dell’ulivo e dell’insegna martiriale della palma (45), non sono elementi spuri rispetto alla sua vicenda spirituale. Al contrario: marcano ancor più i lineamenti del suo profilo credente e conferiscono volto concreto e tangibile alla sua esperienza di santità. Soprattutto se ci si ricorda che – secondo la lezione e la testimonianza di Giorgio Guzzetta – niente vale se non è per Dio, tutto acquista valore se è rimesso e consegnato a Lui.
Note
(44) Cf. G. Guzzetta, L’osservanza del rito presso gli Albanesi d’Italia perché giovino a se stessi e a tutta la Chiesa, introd. di M. Mandalà, trad. di P. Ortaggio, Biblioteca Comunale «G. Schirò», Piana degli Albanesi 2007.
(45) Cf. G. D'Amgelo Vita di Padre Giorgio Guzzetta, cit., pp 12123 (libro I, Capo XIV,5)2
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