L’insuccesso della consultazione referendaria sicuramente non vuole significare che gli italiani siano in linea generale soddisfatti delle condizioni in cui versa il mercato del lavoro. Al contrario, e’ diffusa la preoccupazione per la produttività che risulta stagnante da decenni, come conseguentemente risultano stagnanti le retribuzioni medie. Peculiarità del nostro sistema produttivo è che in gran parte e’ carente di capacità innovativa (ultimo nella UE per questo aspetto) e conseguentemente incapace di attrarre gli investimenti stranieri che portano aziende mediamente meglio strutturate e più capaci di valorizzare il lavoro dei loro dipendenti rispetto a quelle indigene.
Preoccupante è inoltre l’incapacità dell’Italia di trattenere i propri talenti migliori e di attirarne dagli altri Paesi; il sistema di formazione professionale è privo di un monitoraggio capillare che misuri permanentemente l’efficacia di ciascuna struttura finanziata con il denaro pubblico (previsto dal Jobs Act – d.lgs. n. 150/2015, articoli 13-16 – ma oggetto della sorda opposizione degli apparati e mai attuato). L’arretratezza del nostro sistema dei servizi al mercato del lavoro contribuisce a rendere difettoso l’incontro fra domanda e offerta di manodopera.
Nessuno dei quesiti referendari era capace di far balenare nell’immaginario dell’elettorato un colpo di reni del Paese per scrollarsi di dosso le tare ereditate da decenni di politiche del lavoro assenti o patologicamente «passive».
Realtà che grava e’ inoltre, e non poco, che i nostri giovani più brillanti che, conseguono il diploma o la laurea, se ne vanno a lavorare all’estero e non sono per nulla interessati se l’articolo 18 sia o meno vigente e cosa esso tuteli.

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