I mulini ad acqua sfruttavano la forza di caduta dell'acqua medesima, convogliata attraverso canali (detti "saie") in vasche ("botte di carico"), che cadevano su ruote idrauliche per azionare il meccanismo di macinazione. Il grano veniva versato in una tramoggia (trimoia) e macinato tra due pietre, una fissa (statore) e una rotante (rotore), con una rotazione azionata da un sistema di ingranaggi. La proprietà lungo tutto il periodo della "modernità" (dal 1450 alla rivoluzione francese) fu dei feudatari sia ecclesiastici (S. Maria del Bosco), che degli aristocratici (i Baroni Gioeni, Colonna). Ovviamente la gestione operativa dei mulini veniva data in gestione, in affitto, ai mugnai, alla loro corporazione, che nella vasta area della Valle del Belice era rappresentata, in linea di massima, da membri della patriarcale famiglia dei Clesi (=mulinara).
Questi mulini rappresentano una testimonianza dell'ingegno tecnico e dell'organizzazione economica che ha caratterizzato la Sicilia feudale, un'eredità che ha influenzato profondamente lo sviluppo di molte aree dell'isola. Nell'area prossima a Contessa Entellina fino agli anni cinquanta del Novecento funzionarono in c.da Alvano e in c.da Vaccarizzotto (entrambi territorio di Bisacquino) due mulini ad acqua, storicamente appartenenti al Monastero di Santa Maria del Bosco, e a fine Ottocento acquistati all'asta indetta dallo Stato liberale dal bisnonno di chi scrive queste righe, previo assenso del suo amico, parroco Nicolò Genovese, dal momento che si trattava di beni già ecclesiastici posti all’asta dallo Stato liberale.
Ai nostri giorni questi mulini, sia restaurati che diroccati, narrano la storia di una tradizione contadina e artigianale che ha plasmato il territorio di quest'area di Sicilia fra Contessa Entellina e Bisacquino. La presenza di mulini storici sul territorio è infatti testimonianza dell'economia rurale che caratterizzava l'intera Vallata del Belice fino a non molti decenni fa.

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