14 Gennaio 1968
Ero giovane studente e vivevo a Palermo, primo anno di Università. Però la notte del terremoto mi trovavo a Contessa perché in quel giorno si sarebbe dovuto svolgere il funerale del nonno, ma non fu possibile eseguirlo perché in più punti del tragitto dalla chiesa al cimitero la neve superava il metro di altezza. Ricordo oltre alla neve pure le grida che, nella notte del terremoto, arrivavano nello Spiazzo Greco (affollato da gente che aveva abbandonato le abitazioni) provenienti dalla zona Rahjo nella cui area era deceduto il giovane concittadino Merendino, persona simpatica ed allegra. Quando ancora a Contessa non esisteva la Scuola Media eravamo oltre una ventina di ragazzi che in quegli anni precedenti il sisma frequentavamo la scuola media e la scuola di “avviamento” a Bisacquino ed ogni mattina, col bus Stassi, ci ritrovavamo studenti e passeggeri (questi per le più motivazioni si recavano nel vicino paese per sbrigare situazioni familiari). Frequentemente viaggiava Merendino che attirava noi, i ragazzi-studenti, nella parte posteriore del bus raccontandoci barzellette. Era una gran brava persona, persona allegra.
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Uno dei tanti volumi, dalla stampa di allora, definiti “Libri dei sogni” |
Ricordo le grandi promesse di riscatto sociale delle popolazioni del Belice da parte dei politici di quegli anni. La Valle quasi giornalmente, per oltre un anno dagli eventi sismici, giornalmente, venne visitata da autorità regionali e nazionali di ogni livello e rilevanza; tutti promettevano, tutti si mostravano sensibili della grave situazione che il sisma mise a nudo: la Valle era terremotata (non va dimenticato) ancor prima che avvenisse il sisma, ma i politici (quelli di Roma, così li si appellava) non si erano mai accorti che quasi il novanta per cento delle abitazioni della Valle consistevano in case solo per modo di dire.
Per un ventennio dopo gli eventi sismici mi capitò di lavorare in Municipio, in ruoli amministrativi, e di poter seguire il processo della ricostruzione, di cui fu insuperabile artefice Francesco Di Martino. Gli enti locali nell’allora assetto pubblico-amministrativo garantirono in tempi congrui i progetti e le nuove visioni della pianificazione urbanistica, ma i politici romani che avevano mostrato sconcerto sulle condizioni di arretratezza della Valle, trascinarono per oltre un cinquantennio le realizzazioni urbanistiche e quelle abitative e li si fermarono. Nulla si fece infatti dell’industrializzazione da localizzare a Capo Granitola e nulla del risveglio socio-umano finalizzato a bloccare la massiccia emigrazione che invece si espanse sia verso il Nord Europa, che verso il Sud America e persino verso l’Australia, col viaggio pagato dallo Stato. Si preferì destinare risorse per disperdere capacità e risorse umane piuttosto che immaginare Piani di impiego e sviluppo all’interno del territorio nazionale. Piani che comunque furono redatti, ben pagati ai professionisti esterni alla p.a., che rimasero inattuati e che costituirono “offesa” nei confronti delle migliaia di lavoratori della Valle a cui -nella sostanza- fu proposto di emigrare col biglietto pagato, in molte direzioni.
Ed il Piano integrato di sviluppo rimase uno delle centinaia e centinaia di elaborazioni senza alcun seguito, se non quello dell’edilizia abitativa, protrattasi per oltre un trentennio e forse più.
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