Una riflessione ripresa dal Corriere della Sera
Chi vince le guerre, le democrazie o le dittature?
Erodoto vide nella vittoria dei greci contro i persiani la prova che i popoli liberi sanno combattere meglio. Tra i fautori della tesi contraria c’è Alexis de Tocqueville. I governi democratici devono conquistare il consenso dell’opinione pubblica, tendono a combattere solo guerre che sono sicuri di poter vincere.
Un anno fa in questa data l’Occidente era diviso e intimorito di fronte alle minacce dell’invasione dell’Ucraina, molti leader europei si genuflettevano nei confronti dello Zar e gli offrivano di tutto: a cominciare da un diritto di veto sul futuro dell’Ucraina. In un anno Putin ha fatto il miracolo, ricompattando l’Occidente: ancora ieri alla conferenza strategica di Monaco si è avuta prova di questa coesione.
Ricordo le due profezie sbagliate di Putin, condivise da molti sedicenti pacifisti di casa nostra. Primo, che la soverchiante superiorità militare della Russia avrebbe generato una vittoria veloce e facile. Secondo, che la guerra avrebbe messo in ginocchio le nostre economie. Sbagliate tutt’e due, clamorosamente, ma non sentirete molte autocritiche dai putiniani.
Dubbio esistenziale: siamo deboli?
Torna così d’attualità un dilemma antichissimo. Qual è il sistema più adatto a vincere le guerre: la democrazia, o un regime autoritario? Noi democratici siamo afflitti da un complesso d’inferiorità atavico, siamo assaliti da mille dubbi sulla nostra capacità di tenuta. È tenace la convinzione – anche tra chi «tifa» per le democrazie – che la natura stessa del nostro sistema politico fondato sul consenso lo renda più fragile. Al contrario attribuiamo alle dittature una innata capacità militare: perché sanno sottoporre i propri popoli (e i propri soldati) a sofferenze infinite, e sanno tenere duro molto a lungo nel perseguire obiettivi strategici.
La dottrina di Erodoto
Esiste una copiosa letteratura che dimostra l’esatto contrario. Il capostipite è nientemeno che il padre della disciplina storica: Erodoto. Ne ho scritto nel libro che porta lo stesso titolo della mia rubrica quotidiana sul Corriere, Oriente Occidente (Einaudi). Erodoto vede nella vittoria dei greci contro i persiani la prova che i popoli liberi sanno combattere meglio, e vincere, quando affrontano eserciti smisurati guidati da sovrani dispotici. Dopo Erodoto, e attingendo al suo esempio, si è sviluppato un filone millenario di analisi sui diversi sistemi politici messi di fronte al test bellico. Tra i fautori della tesi contraria, per cui le democrazie sono meno capaci di vincere i conflitti, c’è nientemeno che Alexis de Tocqueville, pensatore di sicura fede democratica: a riprova che i dubbi serpeggiano nel nostro campo. Troverete due ottime sintesi delle analisi più autorevoli in questi saggi: «Democracies at War» di Dan Reiter e Allan Stam (Princeton University Press) e «The return of Great Power Rivalry» di Matthew Kroenig (Oxford University Press).
La nostra vera forza: cautela, alleanze, tecnologia
Riassumo alcune ragioni evocate dagli esperti per dimostrare che la libertà politica non è un ostacolo alla vittoria. Al primo posto viene questa constatazione: proprio perché i governi democratici devono conquistare il consenso dell’opinione pubblica, tendono a combattere solo guerre che sono sicuri di poter vincere. Al secondo posto c’è la questione delle alleanze: le nazioni democratiche ispirano più fiducia e quindi sono in grado di tessere e mantenere ampie coalizioni. Al terzo posto c’è la tecnologia: i sistemi politici liberali, tanto più se si accompagnano all’economia di mercato, generano maggiori innovazioni e quindi dispongono di tecnologie belliche più avanzate.
Due guerre mondiali, ma poi il Vietnam
In quanto agli esempi storici, un lungo elenco viene ad aggiungersi alle guerre persiane di Erodoto. Anche i successi militari di sistemi relativamente liberali o società aperte (per l’epoca) come la Repubblica Serenissima di Venezia, i Paesi Bassi, l’impero bitannico, vengono attribuiti al vantaggio di avere avuto sistemi politici meno dispotici dei loro avversari. Gli esempi-chiave rimangono la prima e seconda guerra mondiale. La Francia e l’Inghilterra democratiche, con l’aiuto finale degli Stati Uniti, ebbero la meglio sul Reich tedesco autoritario nel 1914-18. La coalizione guidata dall’America di Franklin Roosevelt finì per piegare nel 1945 i nazifascismi tedesco italiano e giapponese, benché questi avessero una chiara impronta militarista. Si potrebbe aggiungere la guerra fredda tra Occidente e Unione sovietica, 1947-89, mai combattuta in modo aperto e tuttavia conclusa con una vittoria delle democrazie. Ci sono esempi recenti che vanno in senso opposto e smorzano un eccesso di ottimismo: l’America ha combattuto in Corea, Vietnam, Afghanistan, Iraq, quattro conflitti che si sono conclusi nella migliore delle ipotesi con delle “ritirate senza vittoria”. In Vietnam si è potuto parlare di una guerra “perduta a casa propria”, perché fu l’opinione pubblica americana a decretare la sconfitta, non il verdetto dei combattimenti. Dunque la storia non è una scienza esatta, non esistono teorie che possano darci con certezza l’esito dell’attuale guerra in Ucraina. Il comportamento degli ucraini sul campo di battaglia però sembra rilanciare l’insegnamento di Erodoto: i popoli liberi combattono meglio dei popoli oppressi. Tanto più se difendono da un’aggressione la patria, la terra dei propri avi e delle proprie famiglie. La schiacciante superiorità della Russia – per arsenali di armi e per numero di soldati – si è impantanata da un anno contro un avversario più piccolo.
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