Nell'approssimarsi delle festività pasquali riprenderemo da giornali, libri e documenti di varia origine eventi e riflessioni sulla vicenda di due millenni di Cristianesimo.
Secondo l'idea che l'ortodossia cristiana ha accolto, Gesù di Nazareth fu condannato a morte e crocifisso dal governatore romano della Giudea che, tuttavia, era convinto della sua innocenza: il suo regno non era di questo mondo e il crimen laesae maiestatis non poteva riguardare le sue rivendicazioni messianiche. Egli agì in stato di necessità, sotto la pressione del sinedrio che aveva organizzato un complotto contro Gesù e aizzato il popolo per farlo morire . L'autorità romana fu il braccio secolare dell'autorità ebraica.L'analisi puntigliosa e spregiudicata delle fonti, esito di decenni di ricerche, conduce Cheim Cohn a conclusioni del tutto diverse: la morte di Gesù fu responsabilità esclusiva dei romani che lo condannarono per sedizione; gli ebrei non svolsero nè avrebbero potuto svolgere parte nel processo romano, nè per accusare Gesù nè per costringere Pilato a condannarlo; la seduta notturna del sinedrio fu determinata da un intento del tutto diverso da quello di ottenerne la morte. Solo nei decenni successivi agli avvenimenti, in una situazione politica mutata, la vicenda venne ricostruita e narrata nei Vangeli in modo tale che Pilato potesse essere assolto, trasferendone la responsabilità sugli ebrei.
Questa tesi storiografica si colloca in una revisione del destino di Gesù che ha profonde implicazioni teologiche: considerando la sua morte innanzitutto come una tragedia ebraica, perché "Gesù era un ebreo che, a Gerusalemme, col suo popolo visse , insegnò, combattè e morì", Cohn partecipa a quello che è ormai un importante tentativo a più voci di comprendere la figura di Gesù e la sua vicenda nell'ambito proprio della storia politica e religiosa ebraica: dopo duemila anni di Gesù-cristiano, una storia di Gesù-ebreo, figlio legittimo del popolo d'Israele.
Gustavo Zagrebelsky
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