Dalla rivista Limes stralciamo alcuni testi
Precisazione: I testi "Su cosa significa essere albanesi. .."
risalgono ad oltre un ventennio fa.
Da ciò si vede che nelle regioni frontaliere, dove
l’identità nazionale è incessantemente messa a confronto con quella della
nazione vicina da una serie di esperienze vissute, l’associazione storica
funziona solo al livello dei grandi miti fondatori della nazione (gli illirici,
Skënderbe). La storia vissuta, che prende
spesso la forma di una storia di famiglia (i protagonisti sono un nonno, un
padre, uno zio), è costantemente utilizzata per mantenere le differenze o
ristabilire un equilibrio da una parte e dall’altra della frontiera.
L’identità
nazionale assume pertanto un orientamento locale piuttosto pronunciato, come se
la nazione dovesse essere costruita e conservata nei suoi limiti. Questa
osservazione è in linea con le conclusioni dei lavori inerenti ad altre
frontiere in rapporto all’identità nazionale [7]: l’identità nazionale non è
soltanto costruita e imposta dal centro verso la periferia, ma, nella
situazione locale, è spesso commisurata anzitutto alla frontiera.
In Albania,
gli elementi di identità nazionale elaborati localmente (migrazioni, prossimità
della Grecia) non sono sempre ripresi a livello nazionale, ma sarebbe
interessante, su un piano più generale, considerare l’identità nazionale
albanese dal punto di vista delle sue frontiere.
Se si considerano i comportamenti e i discorsi locali
in materia di identità nazionale, si nota uno scarto tra «nazione colta», la
cui costruzione è iniziata nel XIX secolo ed è stata proseguita dal partito
comunista tra il 1944 e il 1991, e «nazione vissuta», continuamente negoziata e
reinterpretata dalla popolazione, in particolare nelle regioni frontaliere.
Insegnata e trasmessa dalla scuola, dalla classe
politica e dai media, la «nazione colta» ha sofferto e soffre ancora per la
disintegrazione dello Stato derivante dalla caduta del regime comunista, per il
discredito della classe politica emergente in democrazia e per la mancanza di
fiducia nella stampa e nella televisione, accusate di essere asservite all’uno
o all’altro partito politico e di difendere i loro interessi anziché quelli
della nazione. Ancorata nella storia locale e costruita in modo meno rigido, la
«nazione vissuta», al contrario, attraversa i vortici della storia regionale e
offre alla popolazione un quadro permanente nel quale stabilire gli elementi
dell’identità nazionale. La lingua, segno dell’identità nazionale nella
versione colta, diventa segno di «cultura» nella nazione vissuta (vedi
riquadro); la religione, che nella versione colta è definita solo
negativamente («musulmano o cristiano, un albanese è anzitutto un albanese»,
«la religione degli albanesi è l’albanità») funziona invece in modo assai più
complesso a livello locale: da un lato, l’islam è rivendicato come mezzo per
distinguersi dai vicini cristiani, greci e slavi; dall’altro, il cristianesimo
appare come la prova dell’autoctonia e lo strumento per una certa apertura
sull’Occidente moderno. Le associazioni storiche, che danno un senso alla
storia della nazione e ne giustificano l’esistenza e le caratteristiche, ricorrono,
infine, tanto alla storia locale e familiare, così com’è vissuta e trasmessa
dalla memoria collettiva delle comunità locali, quanto – se non di più – alle
grandi figure della storia colta.
Che significa essere albanese?
Prima di tutto, forse, non sapere ciò che essere
albanese significhi, né in che modo l’appartenenza nazionale possa avere una
valenza positiva, dato che l’immaginario che se ne riceve, sia dall’estero che
dall’interno dello Stato, non ha nulla di glorioso. Significa anche definirsi in
primo luogo in base alle categorie della società locale – famiglia, religione,
relazioni di vicinato e successo professionale – e, in misura minore, in base a
caratteristiche o ad avvenimenti nazionali, spesso sprovvisti di contenuto
concreto. L’aspetto esagerato e ridicolo di alcune affermazioni di carattere
nazionale (sull’alfabeto, sull’estensione geografica dell’Albania,
sull’antichità della nazione albanese) nasconde spesso l’incertezza su ciò che
significa essere albanese. Un certo numero di albanesi, senza arrivare al punto
di rimettere in discussione l’esistenza di una nazione albanese, esprime
d’altronde dubbi circa il valore stesso di tale nazione e circa la sua capacità
di rimanere salda, come se si trattasse di un edificio malsicuro. «Il problema
degli albanesi come nazione», afferma una di queste persone, «è che a loro
manca un uomo di Stato nazionale, come il de Gaulle dei francesi o l’Atatürk
dei turchi».
La preminenza del locale sul nazionale nella
definizione dell’identità collettiva non è che il risultato della lettura di un
certo numero di osservazioni; lo
affermano, più o meno, gli stessi albanesi, che spesso lamentano di «non essere
abbastanza nazionalisti»: tra tutti gli uomini politici che hanno agito per
l’indipendenza dell’Albania a partire dal XIX secolo, nessuno ha incarnato la
nazione nel suo insieme e tutti quelli attivi dal dopoguerra ad oggi sono
accusati di aver pensato più a se stessi che alla nazione.
In un villaggio dell’Albania meridionale, un gruppo di
muratori, tutti musulmani, originari di una città vicina, stava restaurando la
chiesa ortodossa.
Uno di essi ci ha spiegato di
essere nato nel 1967, l’anno in cui il regime comunista mise al bando la
religione, e di essere stato educato senza averne mai sentito parlare. Quando
abbiamo visitato l’interno della chiesa, invaso dalle impalcature, ci ha detto
che tutto era da rifare. «Dopo la messa al bando, la chiesa è stata trasformata
in un magazzino per le patate; le icone erano antiche e molto belle, ma sono
state distrutte, il sistema le ha “divorate”.
Qui, il popolo e la nazione sono
fatti per distruggere. I greci, i turchi, gli italiani, i tedeschi sono venuti
in Albania e hanno costruito un mucchio di cose: strade, chiese, moschee,
porti, caserme. Gli albanesi, invece, non hanno fatto che distruggere. Quale
altra nazione al mondo non fa che distruggere, senza mai costruire niente?».
Eravamo allora nell’agosto del 1996; qualche mese più tardi, durante l’inverno
1996-’97, gli albanesi avrebbero confermato questa constatazione, mettendo in
atto una grande campagna di distruzione nazionale.
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