Dalla rivista Limes stralciamo alcuni testi
Quanto si dice dei villaggi di Kastoria è, anzitutto,
un mezzo per parlare del passato e di opporre una situazione precedente,
giudicata migliore, a quella attuale, per molti aspetti insoddisfacente. Si tratta, dunque, di una situazione storica
che, come nel caso degli illirici, permette di dare un senso alla storia e di
presentare la situazione attuale come una ingiusta regressione. Le persone che
abbandonarono i villaggi di Kastoria possono così sostenere che «i villaggi
albanesi in Grecia erano ricchi e sviluppati» e raccontare quanto fossero
poveri e privi di tutto i greci che vi arrivarono nel 1924 e come abbiano
potuto cavarsela soltanto con l’aiuto e l’accoglienza offerti dagli albanesi.
In questo modo, prospettano un’immagine rovesciata della situazione attuale,
presentando gli albanesi come i passati benefattori dei loro benefattori
attuali.
In secondo luogo, rievocare il contatto tra greci e
albanesi nei villaggi di Kastoria è l’occasione per definire ciascuno dei due
gruppi in rapporto all’altro e per tracciare la frontiera che li separa. Tra gli albanesi si racconta anche come i greci
venuti dall’Asia minore non sapessero fare il pane e conoscessero soltanto
la pita e come fosse difficile la comunicazione tra i due
gruppi, che parlavano lingue differenti. Se si pensa al lungo periodo – dal
1944 al 1991 – durante il quale la frontiera è stata invalicabile e i contatti
tra i due paesi impossibili, si ha l’impressione che il confine tra i due Stati
sia stato troppo chiuso e troppo irreale, che abbia separato le sole unità
politiche e che l’evocazione dei villaggi albanesi di Kastoria permetta oggi di
spostare questo confine su un piano più umano, facendone non più soltanto una
frontiera politica, ma la frontiera tra due identità collettive, consentendo
così di dare un senso e un contenuto a ciascuna delle due comunità nazionali.
Poiché parlare della frontiera e di ciò che esisteva al di là di essa era
proibito e passibile di carcere durante il comunismo, l’attuale rievocazione
dei villaggi di Kastoria appare come un mezzo per riprendere contatto con
l’altra parte, reintegrando la regione frontaliera in una storia al tempo
stesso nazionale e locale.
La gente che «rivendica» i villaggi di Kastoria aspira
non tanto a ottenere un cambiamento – molto improbabile – della frontiera
politica, quanto a rompere il suo isolamento
e a sentirsi implicata in una identità collettiva che la riavvicini al tempo
stesso alla sua comunità nazionale e alla Grecia, senza la quale sa di non
essere niente. In questo senso, i villaggi di Kastoria formano quella che può
dirsi, distorcendo la formula di Benedict Anderson [6], una «minoranza
immaginaria»: non si tratta propriamente di una minoranza, ma esistono persone
interessate a creare e a mantenere la finzione di una minoranza in una
strategia di identità collettiva.
Paesaggio con frontiera
Fino al 1991, la frontiera con la Grecia è stata
ermeticamente chiusa dalla parte albanese e i soli racconti che vi si
riferiscono riguardano il dispositivo di sorveglianza e i tentativi di fuga
verso la Grecia. Per il resto, l’altro lato della
frontiera era il dominio dell’ignoto. Con l’apertura, la frontiera è tornata ad
essere un luogo di transito e di contatto tra i due paesi, facendo di nuovo
parte del paesaggio locale. I passaggi, tuttavia, sono limitati a causa delle
restrizioni imposte dalla Grecia e sono per la maggior parte illegali, sia che
si tratti di immigrazione clandestina che di contrabbando. Ciò non toglie che
la frontiera costituisca nei discorsi locali il supporto di una concezione del
tempo e dello spazio nazionale dei due paesi, mediante la quale si afferma
ancora la preminenza del locale.
Gli abitanti delle regioni frontaliere distinguono
così in primo luogo due tipi di emigranti, a seconda che siano originari di
queste regioni oppure del resto dell’Albania. La
denominazione di «rifugiati» (refugjat), a quanto sembra, è riservata
alla seconda categoria, mentre per gli emigranti del luogo ci si contenta di
dire che «sono in Grecia», o che «lavorano in Grecia». La distinzione tra i due
tipi è facilmente osservabile. Nei villaggi frontalieri che servono da punti di
partenza verso la Grecia, le due categorie non si mescolano: i «rifugiati» si
tengono in disparte dalla popolazione locale, dormono nei boschi o nei campi,
frequentano pochissimo i caffè e i negozi. Come la maggior parte della gente
proveniente da fuori, i «rifugiati» sono considerati una minaccia e una fonte di
insicurezza dalla popolazione locale. Gli abitanti dei villaggi spiegano che
chiudono le porte a catenaccio e le donne confessano che evitano di camminare
da sole per le strade. «È vero che al tempo del comunismo non c’era denaro né
da mangiare», racconta una donna, quando un gruppo di «rifugiati» passa davanti
a casa sua, «ma c’era la tranquillità e la sicurezza. Allora facevo spesso da
sola la strada per andare dai miei genitori e oggi non posso più farlo. Prima,
non avevamo paura per la nostra casa; oggi, passano per la via persone che non
si conoscono e ci chiediamo chi sono». Nei villaggi per i quali transitano
molti «rifugiati» le madri minacciano i loro figli dicendo: «Stai buono,
altrimenti i rifugiati ti porteranno in Grecia». I «rifugiati», in realtà
provocano pochi problemi nella regione e quando lo fanno è perché litigano tra
loro, raramente con gli abitanti del posto.
La distinzione tra emigranti locali e gente di fuori
assume il suo senso quando si mette in relazione con la concezione dello spazio
nazionale. Visti dal Sud, tutti i «rifugiati»
vengono dal Nord e sono dei «montanari» (malok). Nell’immaginario
locale, la gente del Nord ha una cattiva fama, fatta di povertà, violenza e
arretratezza. La gente del Sud, al contrario, è fiera della sua cultura (kulturë),
un insieme di sviluppo e buona educazione.
Che la maggior parte dei «rifugiati»
siano effettivamente poveri tende a ribadire tale rappresentazione negativa. Le
due categorie di emigranti si contrappongono anche per quanto riguarda il loro
comportamento in Grecia. «I rifugiati provenienti da Korçë e da Argirocastro»,
spiega un albanese, «si integrano più facilmente e sono lavoratori migliori di
quelli del Nord, che cercano soltanto il denaro facile». Si afferma che quelli
del Nord pensano soltanto ad arricchirsi il più rapidamente possibile, ma senza
affaticarsi a lavorare. Sono, dunque, portati al furto e all’imbroglio, in
particolare se gli si propone un lavoro che non gradiscono. Quelli del Sud, al
contrario, si presentano come persone affidabili, pronte a lavorare duramente.
Essi dicono di esser troppo fieri per non rispettare i greci che gli danno un
lavoro. Pretendono anche, sempre a causa della loro fierezza, di andare in
Grecia solo come estrema risorsa, preferendo restare a casa propria e lavorare
in Albania. «La gente del Sud ha amor proprio e fierezza», dice un albanese, «e
non vuole abbassarsi al di sotto della sua condizione: un ingegnere non lavora
come operaio, neppure se non trova altro lavoro… Quelli del Sud vogliono lavorare
per se stessi, occuparsi dei propri affari, e per questo, sebbene la Grecia sia
vicina, pochissimi sono andati dall’altra parte della frontiera».
Si sostiene,
invece, che quelli del Nord sono così poveri che non possono fare altrimenti
che andare in Grecia. «È anche vero», afferma lo stesso albanese, «che nel Sud
una persona dispone di quattro o cinque dynym di terra
(un dynym equivale a mille metri quadrati), mentre al Nord c’è
un solo dynym per cinque persone. È per questo che tutti i
rifugiati che vediamo passare vengono dal Nord».
I «rifugiati» del Nord attraversano la frontiera in
gruppi di dieci-venti persone, con una guida del luogo; quelli delle regioni
frontaliere, invece, l’attraversano in gruppi che raramente comprendono più di
cinque persone e possono contare sulla loro personale conoscenza del terreno e
sui loro contatti con l’altro lato del confine, nei villaggi greci. A seguito dei contatti avuti sin dall’apertura
delle frontiere essi godono di rapporti privilegiati con la popolazione greca e
anche con l’esercito e la polizia. «C’è una strada tra Vërnik e Smërdesh
(Kristalopigi, in Grecia) che è sorvegliata dall’esercito greco», dice un
consigliere comunale di Vërnik. «Ma la gente di Vërnik conosce i soldati e può
passare. I soldati sanno che si tratta di persone per bene, che vanno a
lavorare. Non portano i sacchi bianchi sulle spalle con le provviste per il
viaggio, tipici dei rifugiati». I negozianti delle città frontaliere offrono
grandi quantità di questi sacchi, usati abitualmente come contenitori per la
farina o i fagioli. Nel confrontarsi con la gente del Nord, quella del Sud
ricorre facilmente a questa familiarità con la frontiera. A tal punto che,
prima delle elezioni parlamentari del maggio 1996, un cristiano abitante in un
villaggio frontaliero, Niko, considerando i rapporti esistenti ormai tra la sua
regione e la Grecia ha detto: «Alle prossime elezioni, tutta la regione voterà
per il Partito dei diritti dell’uomo (collegato all’organizzazione greca
Omonia, favorevole all’unione dell’Epiro settentrionale alla Grecia) perché è
il più vicino alla Grecia e la gente vuole avere buone relazioni con questo
paese per poterci lavorare. Berisha, però, non vuol stabilire buoni rapporti
con la Grecia. Il fatto di votare per un partito che chiede l’unione di Korçë e
Argirocastro alla Grecia non ci imbarazza: tra un po’ di tempo, qui tutti
parleranno il greco – sono tutti andati in Grecia – smetteranno di essere
albanesi e se ne infischieranno. Preferiranno che la frontiera cambi per vivere
come greci, piuttosto che sopravvivere come albanesi». Nessun albanese chiede
apertamente l’unione con la Grecia. Il ricordo dell’erezione della frontiera
greco-albanese è ancora troppo presente perché i confini possano essere rimessi
in discussione. E tuttavia Niko ha ragione quando sostiene che gli albanesi
preferirebbero vivere come greci: molti di loro, in realtà, sono pronti a
diventare greci non appena se ne presenti l’occasione, vale a dire quando,
regolarizzando la loro posizione, possono vivere e lavorare in Grecia in modo
permanente.
L’emigrazione in particolare e la traversata della
frontiera in generale sono soltanto un viaggio nello spazio; ma, dal punto di vista albanese, sono anche un
viaggio nel tempo, nel quale l’Albania rappresenta il passato e la Grecia il
futuro. Si presume che gli emigranti riportino a casa loro una parte di questo
futuro, sotto forma di oggetti moderni (televisioni, indumenti) e di nuovi
comportamenti, cioè, secondo le concezioni locali, di «cultura». In questo
senso, l’emigrazione non è soltanto una risposta alla mancanza di denaro, ma è
anche una risposta alla mancanza di modernità.
In rapporto a questa ricerca di cultura, alla mente
degli albanesi – sia che facciano parte degli emigranti o di coloro che restano
in Albania – si presentano due associazioni di carattere storico.La prima collega, in forma di ripetizione, il periodo
attuale di emigrazione a quello precedente la seconda guerra mondiale, quando
numerosi albanesi, soprattutto delle regioni sudorientali, partivano per gli
Stati Uniti o per l’Australia. Questo periodo è sempre presente nella memoria
collettiva come un’epoca di progresso e di innovazione. Bisogna notare che
questa emigrazione è soprattutto considerata come un fenomeno cristiano e può
essere ritenuta una delle cause della superiorità culturale che i musulmani
riconoscono ai cristiani. Oggi, invece, l’emigrazione in Grecia riguarda più i
musulmani che i cristiani, i quali preferiscono emigrare verso le città
albanesi piuttosto che all’estero. Dal punto di vista musulmano, il periodo
attuale di emigrazione è dunque visto come una rivincita sui cristiani: i
contatti con l’Occidente e con la sua civiltà non sono più privilegio dei
cristiani; anche i musulmani hanno un accesso alla modernità. Dal punto di vista
cristiano, viceversa, gli emigranti musulmani sono dei traditori – il che fa
parte della loro immagine tradizionale – che abbandonano il loro paese e la
loro religione in un momento di crisi.
La seconda associazione storica si riallaccia al periodo
della seconda guerra mondiale. Molti
abitanti dei villaggi albanesi ricordano che allora i villaggi greci situati
dall’altra parte del confine erano poverissimi e privi di tutto e perciò i loro
abitanti erano spinti a recarsi nei villaggi albanesi più prosperi a cercarvi
lavoro o pane. Nel 1991 e nel 1992, quando gli albanesi hanno cominciato ad
attraversare la frontiera in cerca di indumenti, di cibo e di lavoro, alcuni –
a quanto si dice – sono stati accolti da famiglie greche che si ricordavano della
loro situazione durante la guerra. «Nel 1940», spiega un albanese, «la Grecia
era poverissima e i contadini greci venivano in cerca di pane in Albania. Erano
bene accolti. Non parlavano albanese, ma impararono qualche parola. Sapevano
dire “pane”. Un giorno, una madre venne con il suo bambino; quando ritornò la
volta successiva era sola. La gente le chiese dov’era suo figlio e rispose che
era morto di fame. Così, quando la frontiera è stata aperta, i primi rifugiati
sono stati in alcuni casi accolti dalle famiglie che la loro famiglia aveva
aiutato. Le persone non erano più le stesse, ma ci si ricordava dei nomi».
«Durante la seconda guerra mondiale», racconta un poliziotto, «i greci venivano
a lavorare in Albania, anche quelli delle zone interne, lontane dal confine.
Mio padre, che possedeva 27 ettari di terra, accoglieva i greci, gli dava
lavoro. Oggi, maltrattando gli albanesi che vanno a lavorare in Grecia, i greci
dimenticano che i loro genitori sono andati a lavorare in Germania e i loro
nonni in Albania e che è in questo modo che se la sono cavata».
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