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venerdì 11 marzo 2022

Il profilo di Putin. Sintesi di un interessante articolo sul Corriere

 Putin da bambino era povero ed era ribelle. A 16 anni si presentò al Kgb per essere arruolato. All'interno dei Servizi Segreti è stato facile per lui diventare successivamente un tiranno. 

Paolo Valentino, giornalista del Corriere della Sera, segue un motto: “Un giornalista non deve mai smettere di essere curioso”. Ed effettivamente in un lunghissimo testo pubblicato sul suo giornale traccia la figura di Putin sotto molti aspetti della "personalità", dall'infanzia sino al vertice del Potere.

Quanto segue è un libero sunto della nostra libera lettura.

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Da ragazzo Putin risiedeva nel cuore di San Pietroburgo, in  una komnunalka, una delle abitazioni nate dalla suddivisione dei grandi appartamenti signorili dell’epoca zarista, -all'interno dei quali nell’Unione Sovietica più nuclei familiari convivevano, uno per stanza, condividendo cucina, bagno e corridoio-.

  Là è nato e cresciuto, quando San Pietroburgo si denominava ancora Leningrado. Suo padre era operaio in una fabbrica di treni; in quel contesto sua passione era  la caccia ai topi, che in quel contesto sociale costituiva una continua lotta per non farli dilagare. 

 Un giorno il giovane Vladimir inseguì un topo particolarmente grosso sulle scale con un bastone in mano, fino a costringerlo in un angolo. All’improvviso il ratto gli si lanciò contro sfiorando la sua testa e con un balzo riuscì a fuggire. 

 Quell'episodio, per Putin nell’autobiografia scritta con alcuni giornalisti nel 2000, gli diede una lezione di vita: «Ognuno dovrebbe tenerlo a mente: mai mettere qualcuno in un angolo».

La lezione del topo

Recentemente Putin ha ordinato la più grande azione militare di terra in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Una guerra di aggressione contro l’Ucraina, dove i rischi ed i costi si stanno rivelando molto più alti di un’effimera definizione di vittoria e Putin l’ha motivata dicendo di esservi stato costretto, poiché «la Russia non aveva altra scelta». 

 Eppure andando indietro nella biografia  è fondamentale per capirne il mistero. La vita di Vladimir Putin è infatti costellata di  svolte traumatiche che ne hanno influenzato fortemente la personalità, fino a farla scivolare in una sorta di autocrazia paranoica che lo avvicina ai più spietati despoti della storia russa, da Pietro il Grande a Giuseppe Stalin.

La svolta dell’ex hooligan

«Ero un hooligan, un ragazzo di strada», racconta di sé Putin. Così scatenato che un giorno Vera Dmitrievna Gurevich, la maestra della scuola elementare, andò dal padre per parlargli di quel ragazzo molto intelligente ma con la tendenza a perdersi. 

 All’improvviso, all’età di 11 anni, il piccolo Volodia cambiò. Diventò il più bravo della classe in tedesco, iniziò a fare sport. Un naso rotto lo convinse che non era fatto per la boxe. Fu nelle arti marziali che però trovò la vera passione: «Il judo mi ha tolto dalla strada, non so cosa sarebbe stata la mia vita se non avessi conosciuto Anatoly Rakhlin, il mio primo maestro». Ha appreso il kuzushi, movimento che tende a far perdere l’equilibrio fisico e mentale all’avversario per poi rovesciarlo, una tecnica che ha usato anche in politica. Presto gli venne l'idea di entrar a far parte dei Servizi Segreti. All’età di 16 anni, si presentò all’Ufficio del Kgb a Leningrado chiedendo cosa dovesse fare per lavorare lì. Il funzionario gli rispose «Primo non prendiamo persone che vengono da noi di loro iniziativa», «e secondo si viene da noi o dopo essere stato nell’esercito oppure dopo aver studiato all’università». «Studiato cosa?», chiese il ragazzo. «Che so? Legge», disse quello forse con l’intenzione di toglierselo di torno. E così fu.

Tenente colonnello del Kgb in 5 anni

Nel 1975, fresco laureato in Diritto internazionale all’Università di Leningrado, Putin fu assunto dai servizi segreti sovietici. Cinque anni dopo, da tenente colonnello, sposato con l’ex hostess dell’Aeroflot Ludmilla Alexandrovna Skrebneva e già padre di una bambina, fu mandato come capo missione a Dresda, nella Germania Orientale, con l’incarico di raccogliere informazioni su dissidenti e valutare le perfomance dei colleghi. 

  Al violoncellista e suo grande amico Sergeij Roldugin, che un giorno gli chiese in cosa consistesse il suo lavoro al Kgb, rispose: «Ero uno specialista in relazioni umane». 

  

  Durante gli anni della perestrojka di Gorbaciov, che i capi comunisti della Germania Est rifiutarono di seguire, gli capitò il 5 dicembre 1989, meno di un mese dopo la caduta del Muro di Berlino, di trascorrere giorni e notti bruciando documenti riservati e pure di chiamare la guarnigione sovietica di stanza a Potsdam chiedendo aiuto e sollecitando un intervento armato. Una folla inferocita aveva infatti circondato la palazzina del Kgb e minacciava di assaltarla. La risposta fu negativa: «Aspettiamo ordini da Mosca, ma il centro tace».

Quella frase pare abbia segnato la sua vita. La paralisi del potere e il caos della piazza sono stati da allora i suoi incubi. Nel 2000, l’anno in cui fu eletto presidente della Russia spiegò «in quelle circostanze funziona una cosa sola: devi colpire per primo e colpire così duro che il tuo avversario non dev’essere più in grado di reggersi in piedi». «Avremmo evitato molti problemi» aveva aggiunto «se non avessimo lasciato così frettolosamente l’Europa orientale». Il più macroscopico degli errori, secondo Putin, fu il successivo crollo dell’Unione Sovietica, quando la secessione delle Repubbliche, soprattutto di quelle slave, «fece dei russi il più grande gruppo etnico del mondo a essere diviso da confini di Stato». 

Ritorno a San Pietroburgo

Aveva 38 anni nel 1990, Vladimir Putin, quando tornò sulla Nieva insieme a Ludmilla e alle due figlie piccole, portandosi dietro una lavatrice usata caricata sopra il tetto della Volga. 

 A dargli un nuovo lavoro fu Anatoly Sobchak, il nuovo sindaco e uno dei personaggi più in vista della nuova Russia. Fu lui a cambiare il nome della città da Leningrado nell’antico San Pietroburgo. Diventò il suo vice. Nel suo ufficio appese un ritratto di Pietro il Grande al posto di quello di Lenin. Lì nella città più europea della Russia nacque la “banda degli amici pietroburghesi”, la filiera in parte legata al Kgb che l’avrebbe accompagnato per il resto della vita.

La banda dei pietroburghesi e Medvedev

Lavoravano lì il futuro premier e presidente Dmitrij Medvedev, il futuro ministro delle Finanze Alexeij Kudrin, il capo di Gazprom Igor Sechin, il boss dello sport russo Vitaly Mutko, il capo della Guardia Nazionale Viktor Zolotov, quello dei servizi segreti Sergeij Naryshkin. C’erano pure i compagni di judo, i fratelli Rotenberg, Arkady e Boris, che sarebbe diventati i “suoi” oligarchi. E c’era il proprietario di un ristorante che lui frequentava, Egvenij Prigozhin, detto il cuoco di Putin, miliardario grazie ai catering per il Cremlino e fondatore della Wagner, la milizia mercenaria che interviene nel mondo, dalla Siria alla Libia, in nome e per conto di Mosca

Nel 1991, alla caduta dell’URSS, lascia il Kgb, «la decisione più dolorosa della mia vita» scriverà. Quando Sobchak, travolto dalle accuse di corruzione, perse le elezioni del 1996, per lui si aprì un posto nell’amministrazione presidenziale di Boris Eltsin.

Poche parole

In due anni imparare i codici di comportamento non scritti del Cremlino.  E' uomo discreto, efficiente, di poche parole, sempre con la soluzione pronta. 

Nel 1998 Eltsin lo nominò capo del Fsb, erede del Kgb. Ed egli seppe sfruttare l’incarico mostrando totale lealtà al capo. 

Quando il Procuratore federale Yurij Skuratov aprì un’indagine per corruzione sulla famiglia di Eltsin, un video andò in onda improvvisamente su tutte le televisioni russe: mostrava Skuratov senza veli, in azione con due acrobatiche prostitute

 Fu Putin in persona a spiegare in tv che il filmato non era un falso. Skuratov si dimise poche ore dopo. Eltsin lo ricompensò meno di un anno dopo, nominandolo a sorpresa primo ministro. 

 Già nel Capodanno del 1999, Eltsin lo designò suo successore al vertice della Russia

A capo della Federazione Russa: «Riporteremo l’ordine»

Il 23 marzo 2000, dopo un breve interim al vertice, Vladimir Putin venne eletto presidente della Federazione russa con il 52,9% dei voti. «Riporteremo l’ordine», fu la sua promessa. 

Il suo dichiarato intento fu di dove4r recuperare  l’onore perduto della Russia, paese declassato dal ruolo di Superpotenza.

  Nei primi anni alla guida della Russia, oltre a ricostruire economicamente e politicamente un Paese sfiduciato, si adoperò a mettere in riga gli oligarchi ed a reprimere brutalmente la ribellione della Cecenia

 Avviò un dialogo stretto con gli Usa e con l'intero Occidente; addirittura sottoscrisse l’accordo di cooperazione Nato-Russia e  teorizzò che un giorno Mosca avrebbe potuto far parte dell’Alleanza Atlantica.

BENISSIMO». LA SVOLTA ANTI OCCIDENTALE

Alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco (2007) però lanciò un attacco a tutto campo contro gli occidentali, denunciando l’ordine creato dopo la Guerra Fredda, l’invasione americana dell’Iraq e soprattutto l’espansione della Nato fino ai confini della  Da quel momento, il leader russo iniziò l’inversione di rotta, avvitandosi in una spirale sempre più autoritaria all’interno, nazionalista e aggressiva all’esterno. 

 Nel 2008 occupò l’Abkhazia, territorio della Georgia.  Nella metamorfosi possono aver influito le primavere arabe e la fine violenta di Gheddafi. La prima rivoluzione ucraina, quella color arancione, fu un altro segnale devastante che gli segnalò da vicino un pericoloso esempio di ribellione, rivendicazioni democratiche, caos.

Il giudizio e la rivoluzione di Euromaidan

La mancata comprensione con l’Amministrazione Obama fu motivo di ulteriore diffidenza nei confronti dell'Occidente. Nel 2011 incontrò per la prima volta, l’allora vicepresidente Joe Biden: «L’ho guardato negli occhi e ho potuto vedere la sua anima». Biden ebbe un’impressione opposta: «Signor primo ministro, la sto guardando negli occhi e non credo che lei abbia un’anima». Putin rispose sorridendo: «Vedo che ci capiamo benissimo». 

Dopo l’annessione della Crimea nel 2014, decisa in seguito alla rivoluzione di Euromaidan a Kiev  nulla è stato più lo stesso. Le sanzioni occidentali hanno accelerato la sua narrazione di un Paese accerchiato, che gli è valsa altissimi livelli di consenso all'interno del Paese. 

La polemica di Putin contro l’Occidente decadente e depravato è divenuta la sua idea di fondo. 

Le Olimpiadi degli oligarchi

Con i Giochi Olimpici invernali del 2014, una stravaganza miliardaria pagata dagli oligarchi, lanciò -sul piano turistico-  la località prediletta da Stalin come nuova capitale diplomatica della Russia. In quegli anni i leader del mondo passarono tutti da lì, -a Sochi- da Erdogan, a Netanyahu, ad Angela Merkel, che Putin, conoscendone la paura dei cani, accolse facendo entrare nella stanza il suo labrador. Lì concepì l’annessione della Crimea e poi nel 2015 l’avventura in Siria, trovando sponda nei tentennamenti dell’Amministrazione Obama. Scommetteva e vinceva. 

L’isolamento dello Zar

A 22 anni dall’arrivo al vertice della Russia. Putin ha cambiato la Costituzione, assegnando a sè il potere fino al 2036

 I suoi consiglieri sono diventati un piccolissimo gruppo di assoluta fiducia, l'isolamento da mondo reale è diventato grande. Egli è solo. 

Il consenso popolare si è eclissato parecchio. La pandemia ha accentuato la lontananza dal "paese". Nessuno sa quali saranno le prossime decisioni

Ormai 70enne, con una condizione di salute diventata segreto di Stato e secondo molti a rischio, Putin ha fretta. Vuole unificare l'Impero Russo, salvare la Russia Storica e resuscitare l'antica Grande Potenza. Non ammette che l'antica e fedele Ucraina “pretenda” di scegliere da sola il proprio destino.

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