Riflessioni a caso sulla
"giustizia degli uomini"
Per Leonardo Sciascia che sul tema si è molto intrattenuto nel suo impegno letterario “la Giustizia senza pietà è la maschera della vendetta”.
La giustizia, per Sciascia, non è stata “uno dei temi” che ha improntato la sua opera letteraria ma il “suo tema", cosi' come per Pier Paolo Pasolini il genocidio culturale è stato la conseguenza della convulsa modernizzazione entro cui siamo entrati dal secondo dopo-guerra e che ha privilegiato lo sviluppo piuttosto che il progresso.
Per Elsa Morante, il tema principale e' stato lo scandalo della Storia di fronte agli innocenti, alle vittime anonime.
Sciascia nei suoi scritti presenta il giudice che interroga non per accertare la verità ma per dimostrare una colpevolezza.
Nell'Inferno e nel Purgatorio Dante Alighieri esalta il valore della giustizia, distanziandosi pero', secondo Sciascia, dall’etica cristiana, che attribuisce il primato morale e civile all'amore e non alla giustizia.
La giustizia -nell'opera sciasciana- si fonda su due elementi proporzionali che sono la bilancia e la razionalità. L'amore, inteso in senso cristiano, si costruisce invece su una dismisura esplicitata nella gratuità e nel paradosso. L'amore cristiano alla cultura pagana ed ellenica apparve infatti "incomprensibile follia".
Nel regno della giustizia secondo Sciascia spuntano i criteri di proporzionalità, le equivalenze, i diritti, le pene e le compensazioni, le procedure. La legge deve essere impostata su un'equilibrata corrispondenza tra pena e colpa, lasciando intravedere all'orizzonte la legge del taglione col portato dell'inesorabile.
Il regno dell'amore dei cristiani invece è ripieno di misericordia e di “esagerazione”, o, secondo Papa Francesco, di «un inaudito straripamento».
Giustizia e amore, tornando a Dante hanno delle inconciliabilita' e la giustizia divina arriva a punire chi in Terra aveva pur agito bene, permeata come è di qualcosa di misterioso, di insondabile. Spunta qui una certa somiglianza con la figura del giudice che forse è sempre tentato da una hybris incontrollabile e incrollabile.
L'amore, il perdono o la carità cristiana non sono infatti formalizzabili e non fanno parte del bagaglio del giudice, ma Sciascia, da spirito laico, pascaliano e giansenista si autodefiniva “un ateo incoerente” e leggeva ogni giorno i Vangeli accanto ai maestri illuministi.
Sciascia sapeva bene che qualsiasi giustizia terrena, non attenuata dalla pietà, assume un'atroce maschera della vendetta. Quindi andrebbe amministrata non solo con equilibrio e prudenza, ma soprattutto con una dose di empatia, con un senso del tragico della condizione umana, con la consapevolezza che la verità è sempre pirandellianamente sfaccettata.
Affermava che mettere paura a un essere umano, solo e inerme, è la cosa peggiore che si possa fare.
Propose a Sandro Pertini, in una lettera, di far trascorrere a ogni nuovo giudice da insediare tre giorni dentro un carcere. Sarebbe questa la ricetta di Sciascia per acquisire quel senso del tragico e quella consapevolezza che diversamente possono essere acquisiti solo mediante una frequentazione assidua della letteratura.
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