Riflettere, studiare ...
fa bene agli umani.
Cosa conosciamo della Contemporaneità ?
Perchè la guerra in Medio Oriente ? E quella in Ucraina? E quelle in più parti del mondo, trascurate dai media?
Sono tantissimi gli interrogativi sui perchè nel e del vivere dannosamente dell'uomo.
= = =
Esistono pure tante risposte ai problemi delle società contemporanee e tante sono in contrasto l’una dall’altra. Questa circostanza dipende, molte volte, da quale ottica ci si pone.
L'ottica è il punto di vista, cioè il modo di ciascuno di vedere e di giudicare le cose e le situazioni.
Riportiamo una Lettera di Einstein indirizzata a Freud e relativa risposta.
' ' '
- Gaputh
(Potsdam), 30 luglio 1932
Caro signor Freud,
La proposta, fattami dalla Società delle
Nazioni e dal suo “Istituto internazionale di cooperazione intellettuale” di
Parigi, di invitare una persona di mio gradimento a un franco scambio
d’opinioni su un problema qualsiasi da me scelto, mi offre la gradita occasione
di dialogare con Lei circa una domanda che appare, nella presente condizione
del mondo, la più urgente fra tutte quelle che si pongono alla civiltà. La
domanda è: C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? E’:
ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa
domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi
conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di
soluzione è purtroppo approdato a qualcosa.
Penso anche che coloro cui spetta
affrontare il problema professionalmente e praticamente divengano di giorno in
giorno più consapevoli della loro impotenza in proposito, e abbiano oggi un
vivo desiderio di conoscere le opinioni di persone assorbite dalla ricerca
scientifica, le quali per ciò stesso siano in grado di osservare i problemi del
mondo con sufficiente distacco. Quanto a me, l’obiettivo cui si rivolge
abitualmente il mio pensiero non m’aiuta a discernere gli oscuri recessi della
volontà e del sentimento umano. Pertanto, riguardo a tale inchiesta, dovrò
limitarmi a cercare di porre il problema nei giusti termini, consentendoLe
così, su un terreno sbarazzato dalle soluzioni più ovvie, di avvalersi della
Sua vasta conoscenza della vita istintiva umana per far qualche luce sul
problema. Vi sono determinati ostacoli psicologici di cui chi non conosce le
scienze mentali ha un vago sentore, e di cui tuttavia non riesce a esplorare le
correlazioni e i confini; sono convinto che Lei potrà suggerire metodi educativi,
più o meno estranei all’ambito politico, che elimineranno questi ostacoli.
Essendo immune da sentimenti
nazionalistici, vedo personalmente una maniera semplice di affrontare l’aspetto
esteriore, cioè organizzativo, del problema: gli Stati creino un’autorità
legislativa e giudiziaria col mandato di comporre tutti i conflitti che sorgano
tra loro. Ogni Stato si assuma l’obbligo di rispettare i decreti di questa
autorità, di invocarne la decisione in ogni disputa, di accettarne senza
riserve il giudizio e di attuare tutti i provvedimenti che essa ritenesse
necessari per far applicare le proprie ingiunzioni. Qui s’incontra la prima
difficoltà: un tribunale è un’istituzione umana che, quanto meno è in grado di
far rispettare le proprie decisioni, tanto più soccombe alle pressioni
stragiudiziali. Vi è qui una realtà da cui non possiamo prescindere: diritto e
forza sono inscindibili, e le decisioni del diritto s’avvicinano alla
giustizia, cui aspira quella comunità nel cui nome e interesse vengono
pronunciate le sentenze, solo nella misura in cui tale comunità ha il potere
effettivo di impone il rispetto del proprio ideale legalitario. Oggi siamo però
lontanissimi dal possedere una organizzazione sovrannazionale che possa
emettere verdetti di autorità incontestata e imporre con la forza di
sottomettersi all’esecuzione delle sue sentenze. Giungo così al mio primo
assioma: la ricerca della sicurezza internazionale implica che ogni Stato
rinunci incondizionatamente a una parte della sua libertà d’azione, vale a dire
alla sua sovranità, ed è assolutamente chiaro che non v’è altra strada per arrivare
a siffatta sicurezza.
L’insuccesso, nonostante tutto, dei
tentativi intesi nell’ultimo decennio a realizzare questa meta ci fa concludere
senz’ombra di dubbio che qui operano forti fattori psicologici che paralizzano
gli sforzi. Alcuni di questi fattori sono evidenti. La sete di potere della
classe dominante è in ogni Stato contraria a qualsiasi limitazione della
sovranità nazionale. Questo smodato desiderio di potere politico si accorda con
le mire di chi cerca solo vantaggi mercenari, economici. Penso soprattutto al
piccolo ma deciso gruppo di coloro che, attivi in ogni Stato e incuranti di
ogni considerazione e restrizione sociale, vedono nella guerra, cioè nella
fabbricazione e vendita di armi, soltanto un occasione per promuovere i loro
interessi personali e ampliare la loro personale autorità.
Tuttavia l’aver riconosciuto questo dato
inoppugnabile ci ha soltanto fatto fare il primo passo per capire come stiano
oggi le cose. Ci troviamo subito di fronte a un’altra domanda: com’è possibile
che la minoranza ora menzionata riesca ad asservire alle proprie cupidigie la
massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e da perdere? (Parlando
della maggioranza non escludo i soldati, di ogni grado, che hanno scelto la
guerra come loro professione convinti di giovare alla difesa dei più alti interessi
della loro stirpe e che l’attacco è spesso il miglior metodo di difesa.) Una
risposta ovvia a questa domanda sarebbe che la minoranza di quelli che di volta
in volta sono al potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e
perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò le consente di organizzare e
sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria politica.
Pure, questa risposta non dà neanch’essa
una soluzione completa e fa sorgere una ulteriore domanda: com’è possibile che
la massa si lasci infiammare con i mezzi suddetti fino al furore e
all’olocausto di sé?
Una sola risposta si impone: perché l’uomo
ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere. In tempi normali la sua
passione rimane latente, emerge solo in circostanze eccezionali; ma è
abbastanza facile attizzarla e portarla alle altezze di una psicosi collettiva.
Qui, forse, è il nocciolo del complesso di fattori che cerchiamo di districare,
un enigma che può essere risolto solo da chi è esperto nella conoscenza degli
istinti umani.
Arriviamo così all’ultima domanda. Vi è
una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che
diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione? Non
penso qui affatto solo alle cosiddette masse incolte. L’esperienza prova che
piuttosto la cosiddetta “intellighenzia” cede per prima a queste rovinose
suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la
rozza realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella
della pagina stampata.
Concludendo: ho parlato sinora soltanto di
guerre tra Stati, ossia di conflitti internazionali. Ma sono perfettamente
consapevole del fatto che l’istinto aggressivo opera anche in altre forme e in
altre circostanze (penso alle guerre civili, per esempio, dovute un tempo al
fanatismo religioso, oggi a fattori sociali; o, ancora, alla persecuzione di
minoranze razziali). Ma la mia insistenza sulla forma più tipica, crudele e
pazza di conflitto tra uomo e uomo era voluta, perché abbiamo qui l’occasione
migliore per scoprire i mezzi e le maniere mediante i quali rendere impossibili
tutti i conflitti armati.
So che nei Suoi scritti possiamo trovare
risposte esplicite o implicite a tutti gli interrogativi posti da questo
problema che è insieme urgente e imprescindibile. Sarebbe tuttavia della
massima utilità a noi tutti se Lei esponesse il problema della pace mondiale
alla luce delle Sue recenti scoperte, perché tale esposizione potrebbe indicare
la strada a nuovi e validissimi modi d’azione.
Molto cordialmente Suo
Albert Einstein
La risposta di Freud alla lettera inviatagli da Einstain
Caro signor Einstein,
Quando ho saputo che Lei aveva intenzione
di invitarmi a uno scambio di idee su di un tema che Le interessa e che Le
sembra anche degno dell’interesse di altri, ho acconsentito prontamente. Mi
aspettavo che Lei avrebbe scelto un problema al limite del conoscibile al
giorno d’oggi, cui ciascuno di noi, il fisico come lo psicologo, potesse
aprirsi la sua particolare via d’accesso, in modo che da diversi lati
s’incontrassero sul medesimo terreno. Lei mi ha pertanto sorpreso con la
domanda su che cosa si possa fare per tenere lontana dagli uomini la fatalità
della guerra. Sono stato spaventato per prima cosa dall’impressione della mia -
starei quasi per dire: della nostra - incompetenza, poiché questo mi sembrava
un compito pratico che spetta risolvere agli uomini di Stato. Ma ho compreso
poi che Lei ha sollevato la domanda non come ricercatore naturale e come
fisico, bensì come amico dell’umanità, che aveva seguito gli incitamenti della
Società delle Nazioni così come fece l’esploratore polare Fridtjof Nansen allorché
si assunse l’incarico di portare aiuto agli affamati e alle vittime senza
patria della guerra mondiale. Ho anche riflettuto che non si pretende da me che
io faccia proposte pratiche, ma che devo soltanto indicare come il problema
della prevenzione della guerra si presenta alla considerazione di uno
psicologo. Ma anche a questo riguardo quel che c’era da dire è gia stato detto
in gran parte nel Suo scritto. In certo qual modo Lei mi ha tolto un vantaggio,
ma io viaggio volentieri nella sua scia e mi preparo perciò a confermare tutto
ciò che Lei mette innanzi. nella misura in cui lo svolgo più ampiamente
seguendo le mie migliori conoscenze (o congetture).
Lei comincia con il rapporto tra diritto e
forza. È certamente il punto di partenza giusto per la nostra indagine. Posso
sostituire la parola “forza” con la parola più incisiva e più dura “violenza”?
Diritto e violenza sono per noi oggi termini opposti. È facile mostrare che
l’uno si è sviluppato dall’altro e, se risaliamo ai primordi della vita umana
per verificare come ciò sia da principio accaduto, la soluzione del problema ci
appare senza difficoltà. Mi scusi se nel seguito parlo di ciò che è universalmente
noto come se fosse nuovo; la concatenazione dell’insieme mi obbliga a farlo.
I conflitti d’interesse tra gli uomini
sono dunque in linea di principio decisi mediante l’uso della violenza. Ciò
avviene in tutto il regno animale, di cui l’uomo fa inequivocabilmente parte;
per gli uomini si aggiungono, a dire il vero, anche i conflitti di opinione,
che arrivano fino alle più alte cime dell’astrazione e sembrano esigere, per
essere decisi, un’altra tecnica. Ma questa è una complicazione che interviene
più tardi. Inizialmente, in una piccola orda umana, la maggiore forza muscolare
decise a chi dovesse appartenere qualcosa o la volontà di chi dovesse essere
portata ad attuazione. Presto la forza muscolare viene accresciuta o sostituita
mediante l’uso di strumenti; vince chi ha le armi migliori o le adopera più
abilmente. Con l’introduzione delle armi la superiorità intellettuale comincia
già a prendere il posto della forza muscolare bruta, benché lo scopo finale
della lotta rimanga il medesimo: una delle due parti, a cagione del danno che
subisce e dell’infiacchimento delle sue forze, deve essere costretta a
desistere dalle proprie rivendicazioni od opposizioni. Ciò è ottenuto nel modo
più radicale quando la violenza toglie di mezzo l’avversario definitivamente,
vale a dire lo uccide. Il sistema ha due vantaggi, che l’avversario non può riprendere
le ostilità in altra occasione e che il suo destino distoglie gli altri dal
seguire il suo esempio. Inoltre l’uccisione del nemico soddisfa un’inclinazione
pulsionale di cui parlerò più avanti. All’intenzione di uccidere subentra
talora la riflessione che il nemico può essere impiegato in mansioni servili
utili se lo s’intimidisce e lo si lascia in vita. Allora la violenza si
accontenta di soggiogarlo, invece che ucciderlo. Si comincia così a risparmiare
il nemico, ma il vincitore da ora in poi ha da fare i conti con la smania di
vendetta del vinto, sempre in agguato, e rinuncia in parte alla propria
sicurezza.
Questo è dunque lo stato originario, il
predominio del più forte, della violenza bruta o sostenuta dall’intelligenza.
Sappiamo che questo regime è stato mutato nel corso dell’evoluzione, che una
strada condusse dalla violenza al diritto, ma quale? Una sola a mio parere:
quella che passava per l’accertamento che lo strapotere di uno solo poteva
essere bilanciato dall’unione di più deboli. L’union fait la force. La violenza
viene spezzata dall’unione di molti, la potenza di coloro che si sono uniti
rappresenta ora il diritto in opposizione alla violenza del singolo. Vediamo
così che il diritto è la potenza di una comunità. È ancora sempre violenza,
pronta a volgersi contro chiunque le si opponga, opera con gli stessi mezzi,
persegue gli stessi scopi; la differenza risiede in realtà solo nel fatto che
non è più la violenza di un singolo a trionfare, ma quella della comunità. Ma
perché si compia questo passaggio dalla violenza al nuovo diritto deve
adempiersi una condizione psicologica. L’unione dei più deve essere stabile,
durevole. Se essa si costituisse solo allo scopo di combattere il prepotente e
si dissolvesse dopo averlo sopraffatto, non si otterrebbe niente. Il prossimo
personaggio che si ritenesse più forte ambirebbe di nuovo a dominare con la
violenza, e il giuoco si ripeterebbe senza fine. La comunità deve essere
mantenuta permanentemente, organizzarsi, prescrivere gli statuti che prevengano
le temute ribellioni, istituire organi che veglino sull’osservanza delle
prescrizioni - le leggi - e che provvedano all’esecuzione degli atti di
violenza conformi alle leggi. Nel riconoscimento di una tale comunione di
interessi s’instaurano tra i membri di un gruppo umano coeso quei legami
emotivi, quei sentimenti comunitari sui quali si fonda la vera forza del gruppo.
Con ciò, penso, tutto l’essenziale è gia
stato detto: il trionfo sulla violenza mediante la trasmissione del potere a
una comunità più vasta che viene tenuta insieme dai legami emotivi tra i suoi
membri. Tutto il resto sono precisazioni e ripetizioni.
La cosa è semplice finché la comunità
consiste solo di un certo numero di individui ugualmente forti. Le leggi di
questo sodalizio determinano allora fino a che punto debba essere limitata la
libertà di ogni individuo di usare la sua forza in modo violento, al fine di
rendere possibile una vita collettiva sicura. Ma un tale stato di pace è
pensabile solo teoricamente, nella realtà le circostanze si complicano perché
la comunità fin dall’inizio comprende elementi di forza ineguale, uomini e
donne, genitori e figli, e ben presto, in conseguenza della guerra e
dell’assoggettamento, vincitori e vinti, che si trasformano in padroni e
schiavi. Il diritto della comunità diviene allora espressione dei rapporti di
forza ineguali all’interno di essa, le leggi vengono fatte da e per quelli che
comandano e concedono scarsi diritti a quelli che sono stati assoggettati. Da
allora in poi vi sono nella comunità due fonti d’inquietudine - ma anche di
perfezionamento - del diritto. In primo luogo il tentativo di questo o quel signore
di ergersi al di sopra delle restrizioni valide per tutti, per tornare dunque
dal regno del diritto a quello della violenza; in secondo luogo gli sforzi
costanti dei sudditi per procurarsi più potere e per vedere riconosciuti dalla
legge questi mutamenti, dunque, al contrario, per inoltrarsi dal diritto
ineguale verso il diritto uguale per tutti. Questo movimento in avanti diviene
particolarmente notevole quando si danno effettivi spostamenti dei rapporti di
potere all’interno della collettività, come può accadere per l’azione di
molteplici fattori storici. Il diritto si può allora conformare gradualmente ai
nuovi rapporti di potere, oppure, cosa che accade più spesso, la classe
dominante non è pronta a tener conto di questo cambiamento, si giunge all’insurrezione,
alla guerra civile, dunque a una temporanea soppressione del diritto e a nuove
testimonianze di violenza, in seguito alle quali viene instaurato un nuovo
ordinamento giuridico. C’è anche un’altra fonte di mutamento del diritto, che
si manifesta solo in modi pacifici, cioè la trasformazione dei membri di una
collettività, ma essa appartiene a un contesto che può essere preso in
considerazione solo più avanti.
Vediamo dunque che anche all’interno di
una collettività non può venire evitata la risoluzione violenta dei conflitti.
Ma le necessità e le coincidenze di interessi che derivano dalla vita in comune
sulla medesima terra favoriscono una rapida conclusione di tali lotte, e le
probabilità che in queste condizioni si giunga a soluzioni pacifiche sono in
continuo aumento. Uno sguardo alla storia dell’umanità ci mostra tuttavia una
serie ininterrotta di conflitti tra una collettività e una o più altre, tra unità
più o meno vaste, città, paesi, tribù, popoli, Stati, conflitti che vengono
decisi quasi sempre mediante la prova di forza della guerra. Tali guerre si
risolvono o in saccheggio o in completa sottomissione, conquista dell’una parte
ad opera dell’altra. Non si possono giudicare univocamente le guerre di
conquista. Alcune, come quelle dei Mongoli e dei Turchi, hanno arrecato solo
calamità, altre al contrario hanno contribuito alla trasformazione della
violenza in diritto avendo prodotto unità più grandi, al cui interno la
possibilità di ricorrere alla violenza venne annullata e un nuovo ordinamento
giuridico riuscì a comporre i conflitti. Così le conquiste dei Romani diedero
ai paesi mediterranei la preziosa pax romana. La cupidigia dei re francesi di
ingrandire i loro possedimenti creò una Francia pacificamente unita, fiorente.
Per quanto ciò possa sembrare paradossale, si deve tuttavia ammettere che la
guerra non sarebbe un mezzo inadatto alla costruzione dell’agognata pace
“eterna”, poiché potrebbe riuscire a creare quelle più vaste unità al cui
interno un forte potere centrale rende impossibili ulteriori guerre. Tuttavia
la guerra non ottiene questo risultato perché i successi della conquista di
regola non sono durevoli; le unità appena create si disintegrano, perlopiù a
causa della insufficiente coesione delle parti unite forzatamente. E inoltre la
conquista ha potuto fino ad oggi creare soltanto unificazioni parziali, anche
se di grande estensione, e sono proprio i conflitti sorti all’interno di queste
unificazioni che hanno reso inevitabile il ricorso alla violenza. Così l’unica
conseguenza di tutti questi sforzi bellici è che l’umanità ha sostituito alle
continue guerricciole le grandi guerre, tanto più devastatrici quanto meno
frequenti.
Per quanto riguarda la nostra epoca, si
impone la medesima conclusione a cui Lei è giunto per una via più breve. Una
prevenzione sicura della guerra è possibile solo se gli uomini si accordano per
costituire un’autorità centrale, al cui verdetto vengano deferiti tutti i
conflitti di interessi. Sono qui chiaramente racchiuse due esigenze diverse:
quella di creare una simile Corte suprema, e quella di assicurarle il potere
che le abbisogna. La prima senza la seconda non gioverebbe a nulla. Ora la
Società delle Nazioni è stata concepita come suprema potestà del genere, ma la
seconda condizione non è stata adempiuta; la Società delle Nazioni non dispone
di forza propria e può averne una solo se i membri della nuova associazione - i
singoli Stati - gliela concedono. Tuttavia per il momento ci sono scarse
probabilità che ciò avvenga. Ci sfuggirebbe il significato di un’istituzione
come quella della Società delle Nazioni, se ignorassimo il fatto che qui ci
troviamo di fronte a un tentativo coraggioso, raramente intrapreso nella storia
dell’umanità e forse mai in questa misura. Essa è il tentativo di acquisire
mediante il richiamo a determinati princìpi ideali l’autorità (cioè l’influenza
coercitiva) che di solito si basa sul possesso della forza. Abbiamo visto che gli
elementi che tengono insieme una comunità sono due: la coercizione violenta e i
legami emotivi tra i suoi membri (ossia, in termini tecnici, quelle che si
chiamano identificazioni). Nel caso in cui venga a mancare uno dei due fattori
non è escluso che l’altro possa tener unita la comunità. Le idee cui ci si
appella hanno naturalmente un significato solo se esprimono importanti elementi
comuni ai membri di una determinata comunità. Sorge poi il problema: Che forza
si può attribuire a queste idee? La storia insegna che una certa funzione
l’hanno pur svolta. L’idea panellenica, per esempio, la coscienza di essere
qualche cosa di meglio che i barbari confinanti, idea che trovò così potente
espressione nelle anfizionie, negli oracoli e nei Giuochi, fu abbastanza forte
per mitigare i costumi nella conduzione della guerra fra i Greci, ma ovviamente
non fu in grado di impedire il ricorso alle armi fra le diverse componenti del
popolo ellenico, e neppure fu mai in grado di trattenere una città o una
federazione di città dallo stringere alleanza con il nemico persiano per
abbattere un rivale. Parimenti il sentimento che accomunava i Cristiani, che
pure fu abbastanza potente, non impedì durante il Rinascimento a Stati
cristiani grandi e piccoli di sollecitare l’aiuto del Sultano nelle loro guerre
intestine. Anche nella nostra epoca non vi è alcuna idea cui si possa
attribuire un’autorità unificante del genere. È fin troppo chiaro che gli
ideali nazionali da cui oggi i popoli sono dominati spingono in tutt’altra
direzione. C’è chi predice che soltanto la penetrazione universale del modo di
pensare bolscevico potrà mettere fine alle guerre, ma in ogni caso siamo oggi
ben lontani da tale meta, che forse sarà raggiungibile solo a prezzo di
spaventose guerre civili. Sembra dunque che il tentativo di sostituire la forza
reale con la forza delle idee sia per il momento votato all’insuccesso. È un
errore di calcolo non considerare il fatto che il diritto originariamente era
violenza bruta e che esso ancor oggi non può fare a meno di ricorrere alla
violenza.
Posso ora procedere a commentare un’altra
delle Sue proposizioni. Lei si meraviglia che sia tanto facile infiammare gli
uomini alla guerra, e presume che in loro ci sia effettivamente qualcosa, una
pulsione all’odio e alla distruzione, che è pronta ad accogliere un’istigazione
siffatta. Di nuovo non posso far altro che convenire senza riserve con Lei. Noi
crediamo all’esistenza di tale istinto e negli ultimi anni abbiamo appunto
tentato di studiare le sue manifestazioni. Mi consente, in proposito, di esporLe
parte della teoria delle pulsioni cui siamo giunti nella psicoanalisi dopo
molti passi falsi e molte esitazioni?
Noi presumiamo che le pulsioni dell’uomo
siano soltanto di due specie, quelle che tendono a conservare e a unire - da
noi chiamate sia erotiche (esattamente nel senso di Eros nel Convivio di
Platone) sia sessuali, estendendo intenzionalmente il concetto popolare di
sessualità, - e quelle che tendono a distruggere e a uccidere; queste ultime le
comprendiamo tutte nella denominazione di pulsione aggressiva o distruttiva.
Lei vede che propriamente si tratta
soltanto della dilucidazione teorica della contrapposizione tra amore e odio,
universalmente nota, e che forse è originariamente connessa con la polarità di
attrazione e repulsione che interviene anche nel Suo campo di studi. Non ci
chieda ora di passare troppo rapidamente ai valori di bene e di male. Tutte e
due le pulsioni sono parimenti indispensabili, perché i fenomeni della vita
dipendono dal loro concorso e dal loro contrasto. Ora, sembra che quasi mai una
pulsione di un tipo possa agire isolatamente, essa è sempre legata - vincolata,
come noi diciamo - con un certo ammontare della controparte, che ne modifica la
meta o, talvolta, solo così ne permette il raggiungimento. Per esempio, la
pulsione di autoconservazione è certamente esotica, ma ciò non toglie che debba
ricorrere all’aggressività per compiere quanto si ripromette. Allo stesso modo
la pulsione amorosa, rivolta a oggetti, necessita un quid della pulsione di
appropriazione, se veramente vuole impadronirsi del suo oggetto. La difficoltà
di isolare le due specie di pulsioni nelle loro manifestazioni ci ha impedito
per tanto tempo di riconoscerle.
Se Lei è disposto a proseguire con me
ancora un poco, vedrà che le azioni umane rivelano anche una complicazione di
altro genere. E’ assai raro che l’azione sia opera di un singolo moto
pulsionale, il quale d’altronde deve essere già una combinazione di Eros e
distruzione. Di regola devono concorrere parecchi motivi similmente strutturati
per rendere possibile l’azione. Uno dei Suoi colleghi l’aveva già avvertito, un
certo professor G. C. Lichtenberg, che insegnava fisica a Gottinga al tempo dei
nostri classici; ma forse egli era anche più notevole come psicologo di quel
che fosse come fisico. Egli scoprì la rosa dei moventi, nell’atto in cui
dichiarò: “I motivi per i quali si agisce si potrebbero ripartire come i
trentadue venti e indicarli con nomi analoghi, per esempio ‘Pane-Pane-Fama’ o
‘Fama-Fama-Pane’.” Pertanto, quando gli uomini vengono incitati alla guerra, è
possibile che si destino in loro un’intera serie di motivi consenzienti, nobili
e volgari, quelli di cui si parla apertamente e altri che vengono taciuti. Non
è il caso di enumerarli tutti. Il piacere di aggredire e distruggere ne fa
certamente parte; innumerevoli crudeltà della storia e della vita quotidiana
confermano la loro esistenza e la loro forza. Il fatto che questi impulsi
distruttivi siano mescolati con altri impulsi, erotici e ideali, facilita
naturalmente il loro soddisfacimento. Talvolta, quando sentiamo parlare delle
atrocità della storia, abbiamo l’impressione che i motivi ideali siano serviti
da paravento alle brame di distruzione; altre volte, trattandosi per esempio
crudeltà della Santa Inquisizione, che i motivi ideali fossero preminenti nella
coscienza, mentre i motivi distruttivi recassero loro un rafforzamento
inconscio. Entrambi i casi sono possibili.
Ho qualche scrupolo ad abusare del Suo
interesse, che si rivolge alla prevenzione della guerra e non alle nostre
teorie. Tuttavia vorrei intrattenermi ancora un attimo sulla nostra pulsione
distruttiva, meno nota di quanto richiederebbe la sua importanza. Con un po’ di
speculazione ci siamo convinti che essa opera in ogni essere vivente e che la
sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato
della materia inanimata. Con tutta serietà le si addice il nome di pulsione di
morte, mentre le pulsioni erotiche stanno a rappresentare gli sforzi verso la
vita. La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva allorquando, con
l’aiuto di certi organi, si rivolge all’esterno, verso gli oggetti. L’essere
vivente protegge, per così dire, la propria vita distruggendone una estranea.
Una parte della pulsione di morte, tuttavia, rimane attiva all’interno
dell’essere vivente e noi abbiamo tentato di derivare tutta una serie di
fenomeni normali e patologici da questa interiorizzazione della pulsione
distruttiva. Siamo perfino giunti all’eresia di spiegare l’origine della nostra
coscienza morale con questo rivolgersi dell’aggressività verso l’interno. Noti
che non è affatto indifferente se questo processo è spinto troppo oltre in modo
diretto; in questo caso è certamente malsano. Invece il volgersi di queste
forze pulsionali alla distruzione nel mondo esterno scarica l’essere vivente e
non può non avere un effetto benefico. Ciò serve come scusa biologica a tutti
gli impulsi esecrabili e pericolosi contro i quali noi combattiamo. Si deve
ammettere che essi sono più vicini alla natura di quanto lo sia la resistenza
con cui li contrastiamo e di cui ancora dobbiamo trovare una spiegazione. Forse
Lei ha l’impressione che le nostre teorie siano una specie di mitologia, in
questo caso neppure festosa. Ma non approda forse ogni scienza naturale in una
sorta di mitologia? Non è così oggi anche per Lei, nel campo della fisica?
Per gli scopi immediati che ci siamo
proposti da quanto precede ricaviamo la conclusione che non c’è speranza di
poter sopprimere le tendenze aggressive degli uomini. Si dice che in contrade
felici, dove la natura offre a profusione tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno,
ci sono popoli la cui vita scorre nella mitezza. presso cui la coercizione e
l’aggressione sono sconosciute. Posso a malapena crederci; mi piacerebbe
saperne di più, su questi popoli felici. Anche i bolscevichi sperano di
riuscire a far scomparire l’aggressività umana, garantendo il soddisfacimento
dei bisogni materiali e stabilendo l’uguaglianza sotto tutti gli altri aspetti
tra i membri della comunità. Io la ritengo un’illusione. Intanto, essi sono
diligentemente armati, e fra i modi con cui tengono uniti i loro seguaci non
ultimo è il ricorso all’odio contro tutti gli stranieri. D’altronde non si
tratta, come Lei stesso osserva, di abolire completamente l’aggressività umana;
si può cercare di deviarla al punto che non debba trovare espressione nella
guerra.
Partendo dalla nostra dottrina mitologica
delle pulsioni, giungiamo facilmente a una formula per definire le vie
indirette di lotta alla guerra. Se la propensione alla guerra è un prodotto
della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all’antagonista di
questa pulsione: l’Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini
deve agire contro la guerra. Questi legami possono essere di due tipi. In primo
luogo relazioni che pur essendo prive di meta sessuale assomiglino a quelle che
si hanno con un oggetto d’amore. La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi
se qui parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: “ama il
prossimo tuo come te stesso”.
Ora, questo è un precetto facile da
esigere, ma difficile da attuare. L’altro tipo di legame emotivo è quello per
identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà significative tra gli uomini
risveglia sentimenti comuni di questo genere, le identificazioni. Su di esse
riposa in buona parte l’assetto della società umana.
L’abuso di autorità da Lei lamentato mi
suggerisce un secondo metodo per combattere indirettamente la tendenza alla
guerra. Fa parte dell’innata e ineliminabile diseguaglianza tra gli uomini la
loro distinzione in capi e seguaci. Questi ultimi sono la stragrande
maggioranza, hanno bisogno di un’autorità che prenda decisioni per loro, alla
quale perlopiù si sottomettono incondizionatamente. Richiamandosi a questa
realtà, si dovrebbero dedicare maggiori cure, più di quanto si sia fatto finora
all’educazione di una categoria superiore di persone dotate di indipendenza di
pensiero, inaccessibili alle intimidazioni e cultrici della verità, alle quali
dovrebbe spettare la guida delle masse prive di autonomia. Che le intrusioni
del potere statale e la proibizione di pensare sancita dalla Chiesa non siano
favorevoli ad allevare cittadini simili non ha bisogno di dimostrazione. La
condizione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse
assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione. Nient’altro
potrebbe produrre un’unione tra gli uomini così perfetta e così tenace, perfino
in assenza di reciproci legami emotivi. Ma secondo ogni probabilità questa è
una speranza utopistica. Le altre vie per impedire indirettamente la guerra
sono certo più praticabili, ma non promettono alcun rapido successo. E’ triste
pensare a mulini che macinano talmente adagio che la gente muore di fame prima
di ricevere la farina.
Vede che, quando si consulta il teorico
estraneo al mondo per compiti pratici urgenti, non ne vien fuori molto. E’
meglio se in ciascun caso particolare si cerca di affrontare il pericolo con i
mezzi che sono a portata di mano. Vorrei tuttavia trattare ancora un problema,
che nel Suo scritto Lei non solleva e che m’interessa particolarmente. Perché
ci indigniamo tanto contro la guerra, Lei e io e tanti altri, perché non la
prendiamo come una delle molte e penose calamità della vita? La guerra sembra
conforme alla natura, pienamente giustificata biologicamente, in pratica assai
poco evitabile. Non inorridisca perché pongo la domanda. Al fine di compiere
un’indagine come questa è forse lecito fingere un distacco di cui in realtà non
si dispone. La risposta è: perché ogni uomo ha diritto alla propria vita,
perché la guerra annienta vite umane piene di promesse, pone i singoli
individui in condizioni che li disonorano, li costringe, contro la propria
volontà, a uccidere altri individui, distrugge preziosi valori materiali,
prodotto del lavoro umano, e altre cose ancora. Inoltre la guerra nella sua
forma attuale non dà più alcuna opportunità di attuare l’antico ideale eroico,
e la guerra di domani, a causa del perfezionamento dei mezzi di distruzione,
significherebbe lo sterminio di uno o forse di entrambi i contendenti. Tutto
ciò è vero e sembra così incontestabile che ci meravigliamo soltanto che il
ricorso alla guerra non sia stato ancora ripudiato mediante un accordo generale
dell’umanità. Qualcuno dei punti qui enumerati può evidentemente essere
discusso: ci si può chiedere se la comunità non debba anch’essa avere un
diritto sulla vita del singolo; non si possono condannare nella stessa misura
tutti i tipi di guerra; finché esistono stati e nazioni pronti ad annientare
senza pietà altri stati e altre nazioni, questi sono necessitati a prepararsi
alla guerra. Ma noi vogliamo sorvolare rapidamente su tutto ciò, giacché non è
questa la discussione a cui Lei mi ha impegnato. Ho in mente qualcos’altro,
credo che la ragione principale per cui ci indigniamo contro la guerra è che
non possiamo fare a meno di farlo. Siamo pacifisti perché dobbiamo esserlo per
ragioni organiche: ci è poi facile giustificare il nostro atteggiamento con
argomentazioni.
So di dovermi spiegare, altrimenti non
sarò capito. Ecco quello che voglio dire: Da tempi immemorabili l’umanità è
soggetta al processo dell’incivilimento (altri, lo so, chiamano più volentieri
questo processo: civilizzazione). Dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo
divenuti e buona parte di ciò di cui soffriamo.
Le sue cause e origini sono oscure, il suo
esito incerto, alcuni dei suoi caratteri facilmente visibili. Forse porta
all’estinzione del genere umano, giacché in più di una guisa pregiudica la
funzione sessuale, e già oggi si moltiplicano in proporzioni più forti le razze
incolte e gli strati arretrati della popolazione che non quelli altamente
coltivati. Forse questo processo si può paragonare all’addomesticamento di
certe specie animali; senza dubbio comporta modificazioni fisiche; tuttavia non
ci si è ancora familiarizzati con l’idea che l’incivilimento sia un processo
organico di tale natura. Le modificazioni psichiche che intervengono con
l’incivilimento sono invece vistose e per nulla equivoche. Esse consistono in
uno spostamento progressivo delle mete pulsiona!i. Sensazioni che per i nostri
progenitori erano cariche di piacere, sono diventate per noi indifferenti o
addirittura intollerabili; esistono fondamenti organici del fatto che le nostre
esigenze ideali, sia etiche che estetiche, sono mutate. Dei caratteri
psicologici della civiltà, due sembrano i più importanti: il rafforzamento
dell’intelletto, che comincia a dominare la vita pulsionale, e
l’interiorizzazione dell’aggressività, con tutti i vantaggi e i pericoli che ne
conseguono. Orbene, poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto
l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, dobbiamo
necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo
più; non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale e affettivo, per noi
pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, per così dire della
massima idiosincrasia. E mi sembra che le degradazioni estetiche della guerra
non abbiano nel nostro rifiuto una parte molto minore delle sue crudeltà.
Quanto dovremo aspettare perché anche gli
altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza
utopistica che l’influsso di due fattori - un atteggiamento più civile e il
giustificato timore degli effetti di una guerra futura - ponga fine alle guerre
in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo
indovinarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione
civile lavora anche contro la guerra.
La saluto cordialmente e Le chiedo scusa
se le mie osservazioni L’hanno delusa.
Suo Sigm. Freud
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