Al sorgere dello Stato Ebraico
(fine anni quaranta, dopo l'Olocausto)
All’inizio, l'idea degli ebrei religiosi e di taluni innamorati della terra d’Israele di tornare nella biblica terra santa parve una cosa da niente, un atto definito -però- dagli osservatori politici un poco folle: si voleva celebrare assieme alle loro famiglie la Pasqua ebraica del 1968 sulle nuove terre. L'allora governo laburista (socialista) di Levi Eshkol, in principio, storse il naso, si era infatti deciso che i «territori occupati» ai danni di Giordania, Egitto e Siria (eccetto Gerusalemme Est che era stata subito annessa allo Stato d'Israele) andavano preservati intatti, per poterli restituire agli arabi in cambio della pace e del pieno riconoscimento di Israele in un'area mediorientale, dove fanatismo e nazionalismo la facevano da protagonisti.
I nuovi coloni .
Ed intanto in campo israeliano comincia a sorgere l’euforia della recente vittoria e la suggestione romantica nell’idea di «colonizzare la terra», considerata patrimonio del primo sionismo iniziato agli inizi del Novecento. Stava covando il sorgere, in luogo di uno stato laico, nella sostanza, una entità dal carattere religioso alimentato dai coloni arrivati più recentemente, guidati da un certo rabbino Mosge Levinger. Contesto questo ben lontano dal precedente sionismo socialista. Questo predicava la necessità tutta laica di lavorare la terra per creare «l’ebreo nuovo» in grado di crescere e di creare un contesto di vicinanza col mondo arabo, Levinger parlava invece di riportare gli ebrei, da fare arrivare da ogni parte del pianeta, nelle regioni che erano state dei regni di Israele prima della distruzione del Secondo Tempio, ossia al tempo antecedente l'Impero Romano.
I primi intendevano affermare la presenza ebraica con il lavoro e l’aratro, i secondi si riferivano in termini teologici a una missione per volontà di Dio.
(Segue)
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