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venerdì 20 marzo 2020

20 Marzo

20 Marzo 1986
 Nel supercarcere di Voghera viene avvelenato Michele Sindona con un caffè al cianuro. Sindona era stato condannato per l’omicidio Ambrosoli. Morirà due giorni dopo.

Aveva bevuto un caffè nella chiuso della sua cella e pochi istanti dopo era stramazzato sulla sua branda, gridando: “Mi hanno avvelenato, mi hanno avvelenato”. 
Nella tazzina di carta che conteneva il caffè i periti troveranno tracce di cianuro, un veleno dalle caratteristiche asfissianti perché blocca l’afflusso di ossigeno al cervello.
Suicidio od omicidio?
Il 23 luglio 1987 la magistratura di Pavia archivierà la morte di Sindona, sposando la prima tesi: uccidendosi, colui che era stato il banchiere italiano più potente del mondo – “il salvatore della Lira”, secondo una definizione di Giulio Andreotti – aveva attuato una sorta di messinscena, quasi una vendetta postuma contro coloro che, dopo averne avuto ampi favori, lo avevano abbandonato al suo destino giudiziario: una condanna a 25 anni da scontare negli Stati Uniti per bancarotta, ma soprattutto un ergastolo per l’assassinio del curatore fallimentare di una sua banca, Giorgio Ambrosoli. 
Nella sua cella il detenuto viveva in assoluto isolamento, guardato a vista – giorno e notte – da 15 secondini, nessuno dei quali – secondo il rigido regolamento del penitenziario – poteva sapere se sarebbe stato destinato a fare la guardia a Sindona fino al momento di prendere servizio. La consegna dei pasti (colazione compresa) avveniva seguendo un rituale complesso, destinato a garantire che solo poche persone, tutte identificabili, maneggiassero le vivande le quali arrivavano nella cella di Sindona in contenitori di acciaio, chiusi da un lucchetto.
Eppure la mattina del 20 marzo 1986 Sindona muore avvelenato, sorseggiando un caffè. Com’è arrivato il cianuro nella cella di quel detenuto eccellente? 
Chi lo ha messo nel suo caffè?

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