Il Corriere della Sera, da ieri, 26 gennaio, ha messo in vendita il libro di Frediano Sessi che racconta la discesa verso gli inferi di Arturo e dei suoi cari, condannati senza possibilità di riscatto per una colpa ontologica, di cui non hanno responsabilità: essere nati ebrei.
Arturo ha nove anni e frequenta la quarta elementare: non ha nessuna cognizione e non coglie significato dalla parola «ebreo». In Italia si era nell'anno 1938, in un Paese ormai ubriaco di propaganda fascista ed inebriato da illusioni di grandezza.
Il papà, la mamma, la sorella — fatti tutti battezzati cattolici da tempo, per «vivere tranquilli» e confondersi nel grande e prestigioso mare dell’italianità pura, della ritrovata romanità ad opera del Duce-.
Arturo Finzi non sa cosa significhi essere ebreo. Ma un giorno di primavera il maestro — con il piglio marziale richiesto dalla nuova educazione fascista — gli fa sapere che per «quelli come lui» la pacchia è finita: il ragazzo dovrà d’ora in poi sedersi nel banco dei puniti, in silenzio, e nessuno in classe potrà più rivolgergli la parola: perché lui è un nemico della patria.
Ultima fermata Auschwitz di Frediano Sessi, è un libro scritto in prima persona, in forma di diario, con il tono semplice, diretto ed efficace come potrebbe essere quello di un ragazzino che scopre prima del tempo la realtà, la crudeltà della storia che a tratti penetra nell’esistenza quotidiana volgendo in tragedia una vita fin lì serena e spensierata.
L'estensore del diario non si è mai accorto di essere «qualcos’altro», di appartenere a una diversa declinazione umana. Tutti gli italiani, chi più e chi meno coltivavano la propria appartenenza religiosa nel privato. Tanti avevano addirittura abbandonato l'ebraismo senza necessariamente abbracciarne un'altra.
Arturo, segregato ancor prima che le leggi razziali faccessero la loro comparsa ufficiale (l’annuncio dei provvedimenti arriverà alla fine dell’estate) nello spazio di un mattino si vede crollare addosso una presunta diversità di genere umano: suo padre, un fascista della prima ora («ho la tessera del fascio dal 1922», spiega la sera al figlio in lacrime) provò a cancellare l’umiliazione del figliolo imponendo la sua autorità al direttore della scuola, facendo presente la particolare situazione familiare, tutti fascisti e tutti battezzati cattolici, da «veri italiani».
Non ci fu nulla da fare; la realtà genetica secondo l’interpretazione nazi-fascista sancisce che non ha alcuna validità l'avere abbandonato la religione dei Padri.
Il libro di Frediano Sessi racconta la discesa verso gli inferi di Arturo e dei suoi cari, condannati senza possibilità di riscatto per una colpa ontologica, essere nati ebrei.
Il diario riporta i passaggi attraversati in quegli anni terribili da migliaia di italiani «non di razza ariana». Seppure cittadini fino ad allora inseriti nella vita nazionale, presenti in tutti mestieri, dai più umili ai più prestigiosi, titolari di decorazioni per le loro azioni in guerra, artisti e letterati, medici e avvocati, insegnanti e impiegati, furono tutti spogliati gradualmente dei loro diritti, delle loro proprietà, della loro identità.
L’estraniamento degli ebrei dalla vita nazionale non incontrò ostacolo alcuno, proseguì fino all’inevitabile conseguenza, quando le sorti della guerra trasformeranno l'Italia esecutrice della volontà e degli slogan del nazifascismo: gli ebrei, non tutti riusciranno a salvare la loro vita.
Si arrivò al punto di denunciare una famiglia per denaro, per «farsi belli» con i tedeschi e comportare per le vittime deportazioni, lutti e dolore, ad opera di italiani delatori per denaro.
Ad Arturo Finzi e alla sua famiglia che speravano di «essere come tutti gli altri» toccò un’esperienza tragica, un destino senza vie d’uscita nel vortice della malvagità che a tratti sembrò oscurare senza rimedio la storia.
Molti italiani sacrificarono la loro vita pur di aiutare esseri umani che non avevano mai visto e conosciuti prima, che erano perseguitati soltanto perché nati ebrei. Tuttavia per i Finzi non ci fu riscatto. Per loro l’ultima fermata fu ad Auschwitz, il simbolo più potente del pozzo nero che l’umanità porta in sé, spesso senza nemmeno rendersene conto.
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