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domenica 23 agosto 2020

24 Agosto

 24 Agosto 1991

Michail Gorbačëv si dimette da capo del Partito Comunista dell’Unione Sovietica.

Quello di Gorbačëv è  il destino rovesciato di un gigante senza pace, il comunista che senza volerlo seppellì il comunismo, il patriota che con le migliori intenzioni scavò la fossa allo Stato fondato da Lenin.

In una memorabile intervista a Der Spiegel ebbe a dichiarare che la perestrojka fu un passo obbligato, ultimo, inevitabile tentativo di riformare un sistema ormai ossificato, in bancarotta politica ed economica. 

Al contrario di quanto fecero i compagni cinesi, che aprirono al capitalismo e però strinsero le viti sulla democrazia, Gorbačëv cominciò dalla sovrastruttura politica (la glasnost, le opposizioni, il diritto a manifestare) e si mosse male e poco sulla struttura economica, con mezze riforme e aperture al mercato confuse che più confuse non si poteva. Si trovò costretto dalla pressione del riarmo dell’America reaganiana e sperò negli aiuti dell’Occidente cui aveva promesso di togliere il nemico; cedette pezzo per pezzo i cardini della potenza sovietica, fossero gli euromissili, le armi strategiche e quelle convenzionali o le aree di influenza.

Michail Gorbaciov non si pentì su quantò si trovò a governare. Questo gli fa onore. Sostenne sempre che non si potevano negare i diritti di libertà e democrazia ai popoli vicini, i polacchi, i cechi, gli ungheresi, i tedeschi dell’Est. La frase con cui ammonì Erich Honecker, l’eterno leader della Ddr, innescando la sua fine, risuona ancora oggi: «La vita punisce chi arriva in ritardo».

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