Appartengo ad una generazione disgraziata
a cavallo fra i vecchi tempi e i nuovi, e
che si trova a disagio in tutti e due. Per di
più, come lei non avrà potuto fare a meno
di accorgersi, sono privo di illusioni.
(Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo)
Il romanzo di Lampedusa ai nostri giorni viene letto con distacco. Eppure si tratta di una lettura tutt’altro che indolore. Si tratta "dell’elogio del sempre uguale” pur senza essere tuttavia un elogio; si tratta infatti di una amara constatazione. In Italia (non solo in Sicilia!) e in quasi tutti i paesi del mondo la trasformazione rapida (il progresso?) convive con un fondo di immobilità, con una resistenza contro i mutamenti.
Chi si adegua a qualsiasi diversa situazione lo fa per non essere travolto. E' capitato tantissime volte (Quasi tutti fascisti, quasi tutti democristiani, tanti craxiani, tantissimi berlusconiani, ...).
Don Fabrizio, principe di Salina, è l'incarnazione del “Gattopardo”, è il protagonista che domina il romanzo di Giuseppe Tomasi, principe di Lampedusa. Autore del libro e personaggio si rispecchiano l’uno nell’altro a un secolo di distanza.
L’autore ci dice che per lui la Storia era già finita nel 1860, nel momento in cui con la fine del regno borbonico delle Due Sicilie e con l’ascesa in Italia della borghesia, il declino della nobiltà coincideva con la fine di un mondo e di una cultura: quella a cui i due principi, autore e personaggio, appartenevano: la nobiltà.
Per il principe Tomasi di Lampedusa era inoltre ovvio che morisse ciò che di meglio quella classe aveva saputo produrre nel corso dei secoli.
Il romanzo è una malinconica elegia, scritta quando, con la fine davvero poco nobile del Regno dei Savoia e con l’avvento della Repubblica, la nobiltà in Italia muore per la seconda volta, essendo già morta da tempo, mentre la borghesia, quella degli anni Cinquanta, continua ad ascendere e ad incrementare la propria ricchezza e il proprio potere.
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