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Dante
Ma d'un tratto quella breve oasi nel deserto della sua vita svanì. Egli s'era gettato all'attività politica, in apparenza la meno adatta fra tutte all'autore della Vita nuova, con la stessa veemenza fantastica e la stessa assenza di realismo con le quali s'era lanciato nel vuoto della sua avventura d'amore. Dante fraintese il tempo suo, ne mancò le occasioni e non riuscì a penetrare il futuro. Sulla via del ritorno da una ambasceria a Roma, fermatosi in Toscana, si ritrovò da un giorno all'altro proscritto, condannato durante la sua assenza dai fiorentini dapprima ad una grossa ammenda, e ad altre pene, e, poche settimane dopo, ad essere bruciato vivo se fosse caduto nelle loro mani.
La moglie non ne condivise l'esilio.
Quel crollo era il frutto di un temperamento nel quale emozioni e fantasia erano tanto tese quanto debole pareva la sua resistenza organica. Nel suo romanzo d'amore c'erano sospiri, tremori e svenimenti senza fine, ed anche fuor dalla passione amorosa sembrava facile preda della malinconias e della paura. Per quanto la storia ch'egli "divenne amico dell'uomo che lo aveva battuto" possa possa essere opera di un bugiardo, sarebbe stato impossibile inventarla se il nome di Dante giovane fosse stato circondato da quell'aurea di coraggio e di sdegno che fu poi chiamata dantesca. Ad ogni modo, l'inclinazione e disposizione del suo spirito era conformista; egli aveva fatto sua senza difficoltà la condotta suggerita dalla tradizione e dalla legge; e se la sua vita politica si era rivolta in un insuccesso, questo non rappresentava la sanzione ad una trasgressione rivoluzionaria, ma, al contrario, la conseguenza di un errato conservatorismo, che lo aveva fatto zelatore della sovranità fiorentina e oppositore d'ogni mutamento in politica interna ed estera.
Se da un lato, la sua semplicità era morbida e la sua intelligenza ristretta dinanzi alla tentazione di un pensiero ribelle e inventivo, dall'altro il fondamentale equilibrio della personalità di Dante riposa nella sua propensione per le proporzioni assolute dell'intelligenza e della bellezza, nel suo amore per la simmetria e l'unità; in altre parole, nel suo genio di classico costruttore. Ora che si trovava privato di quanto aveva posseduto nei cinque o sei anni di vita reale, si trovò spinto, se voleva sfuggire alla rovina totale, a sprofondarsi in se stesso e ad aggrapparsi alla sostanza immateriale del suo genio.
Nessun esule moderno può misurare lo strazio dell'esule medievale. La città del Medio Evo, sonora e crudele come un alveare, aveva sviluppato nel breve gioco delle sue azioni e passioni un sistema di autosufficienza psichica, che s'avvicinava alla completezza di un istinto animale. L'alveare, con tutta la sua crudeltà, è il solo modo di vita offerto all'ape; così era la città medievale, rappresentata dal comune italiano, rispetto ai suoi figli. L'espulsione era una maledizione, l'esilio una agonia.
Nei primi anni dell'esilio, Dante nutrì ancora qualche speranza di riconquistare la madrepatria, sia per mutamenti di fortuna o per forza delle armi. Poi, anche quella speranza svanì, e Dante fu solo con l'opera sua.
Egli s'era rifatto della perdita di Beatrice costruendo il reliquiario de La città nuova, una cattedrale per gioco, trasportando la morta fanciulla nel folgore del suo paradiso personale. Ora che al crollo sentimentale s'accoppiava la disgrazia politica e sociale, altri personaggi sorsero in un altro settore della sua fantasia, come un opposto polo negativo: gli empi fiorentini e i cattivi papi. Ricordò la promessa della chiusa de La Vita nuova, e mise mano ad un più vasdto edificio, il più vasto possibile: un Paradiso per il suo amore, un Inferno per i suoi nemici, un Purgatorio per se stesso, dal quale, dopo aver lottato e vinto, spiccava finalmente il volo.
Ma i fragili materiali con i quali aveva creato La Vita nuova non potevano servire al disegno di quell'altra impresa. I primi sette canti dell'Inferno, nonostante qualche preludio ad una musica assai più potente, erano ancora pieni di morbide risonanze, di smarrimenti e lacrime e timori e disperata compassione . Sembra lecito ritenere ch'egli interruppe l'opera e la riprese solo dopo una lunga pausa, quand'era un uomo ormai diverso, compiuto. Quant'era rimasto degli elementi giovanili, morbidità e debolezza, era pareggiato ora da un'aggiunta di furore, odio, orgoglio, vendetta: tutti motivi che il lettore de La vita nuova non si sarebbe atteso dallo stesso uomo. Così completato, Dante divenne un eroe e potè creare un mondo.
Mondo di perfezione e di unità. Quanto non conviene al disegno è respinto lontano.. Ciò vale per la Divina Commedia come per le altre opere filosofiche, estetiche, politiche. che sostengono la Commedia come contrafforti esterni.
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Stiamo stralciare alcune pagine, le prime, dall'Opera di Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952), scritta originariamente in inglese fra il 1935 e il 1937 durante l'esilio americano di Borgese, edita a New York nel 1937, e ripubblicata in italiano a Milano nel 1946.
Egli in queste prime pagine sta riferendo del carattere e dell'opera di Dante, il libro tende tuttavia ad una indagine delle ragioni e dei caratteri del fascismo sullo sfondo delle costanti etico-politiche della storia e della cultura italiana, e, al tempo stesso, una storia del movimento fascista dalle origini fino alla guerra di Spagna.
Come abbiamo già riferito, Borgese -nato nelle Madonie- fu professore universitario, antifascista costretto all'inizio degli anni '30 ad emigrare negli Usa dove collaborò, fra altri, con Gaetano Salvemini nell'impegno antifascista.
A fine guerra, rientrato in Italia, riottenne la cattedra universitaria.
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