Per più pagine ci proponiamo sul blog di
fornire indicazioni sui percorsi democratici delle società del terzo millennio.
Riteniamo noi: Non è la stessa cosa affidarsi a prospettive neo-naziste o -di contro- a società che hanno orientamenti sociali e democratici.
Procederemo riportando punti di vista di sociologi e di economisti.
Il fine è che tutti dobbiamo ricordarci che il governo degli oligarchi che siano russi o americani non operano per la libertà e il benessere di tutti.
Si tratterà di letture che appaiono tecniche, e di fatto in parte lo sono,
via via tutto però apparirà comprensibile
Giorgio Ruffolo, (Roma, 14 agosto 1926 – Roma, 16 febbraio 2023) è stato un politico, economista, dirigente d'azienda, giornalista e saggista) ebbe a scrivere:
Se gli economisti avessero un sogno
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Proviamo a capire Lo spettro della disuguaglianza non minaccia solo l’Italia. Tocca partner europei come Francia e Germania, e altri paesi nel mondo. Non a caso, il Global Wealth Report, ha rilevato che nella nazione più ricca del pianeta, gli Stati Uniti, l’1% delle famiglie detiene ben il 31,7% della ricchezza dell’intero Paese. Anche per la seconda classificata, la Cina, il divario tra ricchi e poveri negli ultimi anni non ha fatto altro che aumentare.
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“Se gli economisti avessero un sogno, sognerebbero una società dell’abbondanza. Eppure, la scienza economica è basata sul concetto di scarsità. Quello degli economisti sarebbe dunque un sogno di autodistruzione. Nella realtà, essi sono stati accusati spesso di gretto materialismo. Eppure, con la loro insistenza sull’importanza dei beni materiali hanno contribuito più loro al benessere dell’umanità di quanto abbia fatto Carlyle, uno dei più severi accusatori, col suo spiritualismo romantico. Il loro assunto fondamentale, implicito o esplicito, è che una società ricca e’ la più vicina all’ideale di una società felice. E che dunque la crescita della ricchezza e’ una via regia alla felicità (si tratta ovviamente di felicità pubblica -direbbe Hirschman- la felicità privata e’ un’altra cosa). Qualcuno si sente davvero di negarlo? E di affermare che le società della pietra, rozza o levigata che fosse, o quelle pastorali, o quelle del medioevo o ancora quelle di cento anni fa, prive di acqua corrente e di anestesia e con vita media inferiore ai cinquant’anni, fossero più felici delle nostre?
Tutti i grandi economisti classici, da Smith a Marx a Keynes, hanno però considerato la ricchezza e la sua crescita come un mezzo e non come un fine. Prima di essere economisti erano umanisti. Il segreto della crescita, e il solo modo concreto per perseguire il sogno dell’abbondanza, secondo loro, era il progresso tecnico. Sostanzialmente, si tratta di sostituire le macchine agli uomini: una possibilità che anche gli antichi greci e romani prospettavano, considerandola però o utopistica o dannosa. “Se ogni mezzo potesse eseguire su ordinazione, o per suo proprio conto, il compito che gli è assegnato, l’architetto non avrebbe più bisogno di manovali, ne’ il padrone di schiavi. Se la spola potesse correre da sola sulla trama, l’industria non avrebbe bisogno di operai” diceva Aristotele. E l’imperatore Diocleziano comandava all’inventore di un marchingegno che permetteva di sollevare meccanicamente le immani colonne dei suoi templi, di bruciare quel suo progetto, che avrebbe provocato disoccupazione e fame “per i suoi poveri proletari”. Più recentemente l’economista Sismonde de Sismondi configurò l’esito estremo dell’automazione in una metafora settecentesca: il re d’Inghilterra che, girando una manovella, produce tutto quanto è necessario ai suoi sudditi. E si domandava: che ne sarà dei sudditi? Marx aderiva con gioia a quest’idea, facendo a meno, naturalmente, anche del re. Il suo genero, Paul Lafargue, meno radicalmente prevedeva una progressiva riduzione dell’orario di lavoro obbligato e una corrispondente espansione dell’ozio che rivendicava come diritto. Ai nostri tempi anche John Maynard Keynes formulò una profezia ottimistica. Il progresso tecnico era andato ormai tanto avanti da far prevedere che assai presto gli uomini avrebbero potuto procurarsi tutti i beni necessari alla loro sopravvivenza e al loro confort con due o tre ore di lavoro al giorno, dedicando il resto al riposo e a cose più serie, come l’amore e la cultura.
In effetti, se c’è un secolo nel quale ci si è più avvicinati a quel sogno, e’ proprio il nostro, quello di cui abbiamo appena doppiato il capo: il Novecento. Nell’insieme del Novecento la produzione complessiva di beni e servizi è cresciuta del 2,9 per cento all’anno e il prodotto pro-capite dell’1,4%, rispetto all’1,3 e allo 0,8 per cento rispettivamente nell’Ottocento; e cifre molto vicine al niente per cento nella media dei secoli precedenti. Se come indice sintetico della “felicità pubblica” si assume quello della durata media dell’esistenza (per la ricchezza quella del prodotto nazionale è altrettanto grossolano) constateremo che essa è aumentata da meno di 40 anni nel 1820 a circa 50 nel 1900 e a 77 nell’ultimo decennio del XX secolo nei paesi industriali (60 nei paesi arretrati).
Naturalmente, parlare del Novecento come di un periodo omogeneo sarebbe del tutto fuorviante. Il “secolo lungo” che abbiamo alle spalle dovrebbe essere diviso, per quanto riguarda lo sviluppo economico e il benessere sociale dei paesi capitalisti più avanzati, in quattro fasi distinte: una prima belle epoque di prosperità economica e di aumento, di relativa pace mondiale e di parallelo miglioramento del benessere sociale, nonostante l’incombente minaccia della catastrofe nucleare, fino agli anni Settanta; è una quarta fase, che e’ quella nella quale viviamo, e alla quale non sappiamo ancora dare un nome. Si tratta di una nuova età dei torbidi? O di una rinnovata belle epoque?
Il quadro che ci si presenta non è né catastrofico, né rassicurante. Certo: non c’è alcuna catastrofe, né alcuna depressione paragonabile a quella tragica che segnò gli anni trenta. Negli anni Settanta l’inflazione e la crisi petrolifera avevano già fatto temere che il sistema capitalistico potesse precipitare in una nuova crisi verticale. Ma già verso la fine del decennio l’economia riprendeva il cammino, il cammino della crescita. Tuttavia, ad un ritmo sensibilmente e progressivamente più lento: 5 per cento negli anni Sessanta, 3,6 nei Settanta, 2,8 negli Ottanta, 2 per cento nei primi cinque anni dei Novanta.
Inoltre è emerso per la prima volta nella storia lo spettro dei limiti della crescita e della sostenibilità ecologica. Infine, mentre la crescita ha continuato ad aumentare , si sono fatti sempre più evidenti i segni di un peggioramento della qualità sociale.
Molti sono gli indizi di incupimento del morale e di aumento del disagio sociale. Nella prima belle epoque era stridente, tra la fine del XIX e l’inizio del XX, il contrasto tra la relativa soddisfazione della maggioranza della popolazione e l’inquietudine talvolta disperata dei suoi intellettuali. Se si può avanzare una opinione azzardata, oggi si ha la sensazione di una inquietudine delle masse cui fa riscontro un narcisistico e soddisfatto compiacimento degli “intellettuali”.