Sviluppo socio-economico e
diverso regime demografico
In quegli anni lo sviluppo economico, stimolato da un’accentuata industrializzazione nelle aree settentrionali del Paese, il miglioramento nel campo dell’alimentazione, i progressi della medicina (con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale), furono capisaldi di nuovi stili di vita e soprattutto di un significativo declino della mortalità. Da quell’apertura verso nuovi stili di vita conseguì’ pure -consapevolmente nel tempo- la riduzione delle nascite. Fenomeno e passaggio storico questo che i sociologi e gli economisti hanno definito della transizione demografica.
Nell’ante seconda guerra mondiale (1930) la speranza di vita per le donne era di 65,7 anni in Norvegia, 64,4 in Svezia, 63,2 in Danimarca, tutti paesi che godevano di un vantaggio rispetto all’Italia (54,4). Da quell’ante guerra, attenendoci alla teoria della transizione demografica pure la fecondità e’ di gran lunga calata nell’Italia a cominciare dalle nuove politiche dell’allora centro-sinistra. All’inizio degli anni sessanta del Novecento le donne italiane avevano mediamente 2,4 figli ciascuna rispetto a quella di 2,2 delle donne svedesi, additate -allora- come modelli della modernità. Da qui, dall’avere additato la Svezia come modello da perseguire, ai nostri giorni in tutta l’area dell’Unione Europea si comincia a discutere su come, eventualmente, reindirizzare l’attuale “crescita zero”. Crescita zero che ha pure condotto a quella che oggi i sociologi definiscono la “famiglia nucleare”.
Conclusione:
La mortalità continua a declinare, che sia quella infantile (tanto diffusa ancora negli anni cinquanta/sessanta), che quella adulta (si parla, in questo caso di longevità). Alla convinzione che tutto dipende dal fatalismo bisogna passare alla convinzione che buona parte del destino sociale, e pure individuale, è affidato alla buona politica e alla buona formazione culturale personale (che sappiano notare nei tempi lunghi).
(Segue)
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