I report stilati dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati parlano chiaro: il migrante climatico è colui che è costretto a scappare perché nella sua terra la crisi ambientale ha ripercussioni sulla salute, sulle condizioni sanitarie, sulla sopravvivenza e perché viene violato il principio che riconosce a ogni essere umano il diritto a costruirsi un futuro.
Gli effetti del cambiamento climatico come la desertificazione, l’aumento delle temperature, la perdita di biodiversità, l’intensificarsi di eventi atmosferici avversi e l’aumento del livello dei mari stanno gradualmente riducendo le chance di avere accesso al cibo e all’acqua, oltre a rendere certe aree del pianeta inospitali alla vita.
Non parliamo soltanto di ciò che sta capitando in Africa. L'anno scorso il segretario generale dell'Onu, António Guterres, a Roma ha detto chiaramente che non possiamo parlare più di crisi climatica, ma di vera e propria ebollizione e questa definizione scaturisce proprio dai dati sul Mediterraneo.
Cosa fare? bisogna investire nell’educazione ambientale, nello sviluppo collettivo di una coscienza ambientale. Fare divulgazione e informazione.
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