LA STAMPA
La strategia da adottare in Siria, e soprattutto
quella già scelta del dialogo con l'Iran, non sono gli unici elementi che negli
ultimi tempi hanno separato l'Arabia Saudita dal tradizionale alleato
americano.
Dietro c'è anche una lotta feroce sul petrolio, con Ryad che ha
favorito il crollo del prezzo per mandare fallita l'industria dello «shale»
negli Stati Uniti. Finora, però, l'operazione non ha funzionato, e i sauditi
sono avviati a ricorrere al debito per finanziare il proprio bilancio.
Colpi
anche a Russia e Iran.
Le posizioni geopolitiche sono note. La monarchia
wahabita voleva a tutti i costi la caduta del filo-sciita Assad, e quindi ha
come minimo chiuso un occhio sull'Isis, quando non l'ha finanziato attraverso
facoltosi privati cittadini. Quanto all'Iran, unica potenza regionale in grado
di contrastare l'Arabia, la scelta del presidente Obama di negoziare l'accordo
nucleare non è mai stata digerita da Riad, che vede in Teheran la principale
minaccia e il principale ostacolo per la propria egemonia nell'area.
Il
petrolio però, e quindi i soldi, hanno esacerbato questi contrasti. L'Arabia è
il primo produttore mondiale, con circa 10 milioni di barili al giorno, ma
negli ultimi tempi si è vista minacciata dalla crescita dello shale oil negli
Usa, cioè il petrolio di scisto raccolto con nuove tecnologie. L'aumento della
produzione americana, sommato alla diminuzione della domanda provocata fra le
altre cose dalla frenata dell'economia cinese, ha fatto scendere il prezzo del
greggio dai 115 dollari al barile dell'agosto 2014, a sotto i 40 degli ultimi
giorni.
La ragione è semplice: gli analisti calcolano che al momento l'offerta
sia 2 milioni di barili al giorno più alta della domanda. Questo calo del costo
ha beneficiato i paesi importatori, come l'Italia, che hanno visto scendere i
prezzi di molti beni e quindi il contenimento dell'inflazione. Nello stesso
tempo, però, ha danneggiato gravemente i paesi produttori, tipo Venezuela e
Russia, in piena crisi economica non solo per le sanzioni relative all'Ucraina.
La
risposta più ovvia, in questi casi, è ridurre la produzione per far diminuire
l'offerta e quindi salire i prezzi. In sede Opee, però, l'Arabia si è opposta a
qualunque taglio dei barili estratti. Il motivo ufficiale era la volontà di
conservare le proprie quote di mercato, ma quello ufficioso riconosciuto da
tutti era spingere verso il fallimento l'industria americana dello shale.
Secondo i calcoli degli analisti, infatti, per rimanere economicamente
conveniente questa attività aveva bisogno che il prezzo del petrolio restasse
almeno sopra i 70 dollari al barile.
Resistenza inaspettata
Questa soglia è
stata largamente superata al ribasso, e in effetti diversi pozzi hanno sospeso
le attività, soprattutto nel bacino del North Dakota che aveva guidato il boom
dello scisto. Le aziende produttrici americane però si sono adeguate, e finora
sono riuscite a sopravvivere. Chi si trova in difficoltà economica, invece, è
proprio l'Arabia. Riad per pareggiare il suo bilancio ha bisogno che il
petrolio resti sopra i 100 dollari al barile, e quindi ha accumulato un deficit
che la Jadwa Research ha stimato in 106 miliardi di dollari per il 2015.
La
monarchia wahabita ha riserve in divisa estera per circa 640 miliardi, e quindi
può resistere, ma in estate il «Financial Times» aveva rivelato che a fronte di
questa crisi, si preparava a emettere bond per 27 miliardi di dollari. In altre
parole, entro gennaio dovrebbe ricorrere al debito.
All'ultima riunione
dell'Opec l'Arabia ha tenuto duro, impedendo una riduzione della produzione,
per cercare ancora di mandare fallito lo shale americano. Ma è una scommessa
che sta diventando sempre più complicata, visto che ormai alcuni analisti
arrivano ad azzardare un calo del petrolio fino a 20 dollari il barile. 39,88
dollari
10,3 milioni
I barili di petrolio prodotti dall'Arabia
saudita in media nel 2015
9,3 milioni
I barili di petrolio greggio prodotti
dagli Usa in media nel 2015
Lo shale oil ha contribuito con
una media di 5,2 milioni
(Fonte Eia)
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