Sulla scorta degli elaborati tecnici in materia di finanza che in questi giorni abbondano sui giornali, seguiremo la crisi che investe alcuni comparti del sistema bancario.
Tutto cominciò con le operazioni in grande di partito (non diciamo quale partito) al Monte dei Paschi di Siena.
Come sappiamo bene nessun "amministratore di quella banca" si trova in galera.
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Esiste
una crisi “strutturale” del sistema bancario italiano. In tutta Europa i
governi, consapevoli dell’importanza che il risparmio diffuso delle famiglie ha
per l’economia, da dieci anni in qua hanno varato molti provvedimenti di risanamento.
Non così è accaduto in Italia, paese in cui la classe dirigente è costituita
dai “senza mestieri”. Chi non sa fare nulla di buono nella vita, in Italia
sceglie di fare il politico. Da questo presupposto provengono i vari personaggi da macchietta che hanno
ricoperto l’incarico di ministro dell’economia.
Proviamo
di capire cosa sta succedendo.
Il
governo ha adottato un decreto legge c.d. salva banche e, a fronte delle
proteste degli azionisti ed obbligazionisti delle stesse, vorrebbe inoltre
varare delle misure di ristoro per questi.
Come -non
dovremmo mai dimenticarlo- tutti sappiamo la crisi inizia negli USA e raggiunge il suo acme con
il fallimento di Lehman Brothers il 15-09-2008.
Le
banche italiane avevano indotto poco meno di 130 mila risparmiatori italiani a
comprare le obbligazioni di detta banca d’affari e questo dopo che nel 2005 era
stata approvata una legge per tutelare il risparmio.
Il
panico si diffuse nella Unione europea ed anche in Italia, allora.
Con decreti legge e decreti
attuativi delle leggi del 2008 e 2009 sono stati previsti i c.d. Tremonti bond
di cui le banche potevano avvalersi per superare le fasi più acute della crisi
finanziaria. Solo poche di esse se ne avvalsero con una spesa nell’ordine di
50-60 miliardi mentre negli altri Paesi membri della UE i governi garantirono
prestiti per 3.800 miliardi pari al 30% del PIL e la Commissione europea in 4
anni dovette approvare deroghe alla disciplina sugli aiuti di Stato in 450
casi.
Ma era la fase dell’emergenza
ed era prioritario salvare le banche altrimenti i danni all’economia reale
sarebbero stati di gran lunga più gravi di quanto continuano ad essere.
Nel frattempo la crisi si era
trasmessa dal comparto finanziario al
settore reale dell’economia. Gli aiuti alle banche avevano portato ad un
aumento del debito pubblico di tutti i Paesi della UE. meno in quei paesi come l’Italia che
partivano con un debito molto più alto.
Secondo la narrazione
governativa, -si sosteneva e si sostiene oggi- le banche italiane erano sane e
comunque, non avevano fatto grosse speculazioni con i prodotti derivati.
Come molti ricordano il governo
Berlusconi, per tre lunghi anni, negò che la crisi interessasse il nostro
paese. Ancora nella Primavera del 2011 andava raccontando che se la crisi c’era
stata era di natura psicologica e, comunque, era già passata.
Nel frattempo
nella UE si centralizzava a Francoforte sul Meno la vigilanza e si costruivano
altri strumenti finanziari di gestione e risoluzione di nuove eventuali crisi
con l’obiettivo di creare una vera e propria Unione bancaria – tuttora da
completare.
Si definirono anche nuove
regole sulle crisi bancarie mirate da un lato a salvaguardare gli interessi dei
risparmiatori e dall’altro a disincentivare comportamenti scorretti da parte
dei manager delle.
Nel
frattempo arrivarono gli stress test della BCE e le banche italiane li superarono
“bene”. Si fa per dire perché la BCE raccomandava e continua a raccomandare il
rafforzamento patrimoniale secondo determinati parametri.
La
stampa amica delle banche, e in alcuni casi da esse sostenuta, ha continuato a ripeterci che le banche italiane sono
sane.
Crescono invece paurosamente le c.d. sofferenze. Hanno ora raggiunto i 200
miliardi di euro. Il governo vuole una bad bank per tutte le banche ma la
Commissione europea non l’autorizza perché configurerebbe una palese
fattispecie di aiuto di Stato alle imprese bancarie in una fase congiunturale
che non riguarda quelle dei principali paesi membri del centro e del Nord
Europa.
Qui
vale la pena fare una prima considerazione.
È vero che la crisi attuale
riguarda quattro banche minori (Banca Etruria, Banca delle Marche, CariChieti e
CariFerrara) e non quei tredici gruppi sottoposti agli stress test della BCE.
Ma come si fa a dimenticare che c’è
stato il caso
1) del
Banco Monte Paschi di Siena non ancora del tutto risolto
2) e su
tutte le banche pesa il macigno dei duecento miliardi.
3) E
c’è ancora il caso di centinaia di Banche cooperative che hanno difficoltà ad
accedere al mercato finanziario.
La
crisi delle quattro banche per le quali il governo ha emanato il decreto legge
pure contestato dalla Commissione europea è solo la punta di un iceberg in un
mare che sembra vieppiù agitato anche per la mancata crescita del PIL e
dell’occupazione.
A
suo tempo i governi dei principali paesi della UE nel 2008 e 2009 hanno fatto
dei veri e propri salvataggi delle loro banche e la Commissione europea non
sollevò la questione degli aiuti di Stato. Allora la crisi finanziaria
rischiava di produrre dei veri e propri disastri. Le decisioni sono state
assunte dal Consiglio europeo su parere della BCE, FMI e Commissione europea
mentre erano in fase di elaborazione le nuove regole – ora in vigore dal 2013.
Oggi
la crisi finanziaria generale non c’è più ma ci sono le nuove regole
formalmente più rigorose, anche se rimangono gli strascichi della seconda lunga
recessione che le insensate politiche dell’austerità hanno inflitto soprattutto
ai paesi periferici della UE.
Sulle
banche di questi ultimi si ripercuotono anche gli effetti della mancata ripresa
economica e il rallentamento della crescita mondiale. Più recentemente abbiamo
visto il caso drammatico della Grecia. Non è il caso di parlare di contagio ma è un fatto che le
quattro banche erano in pratica commissariate da circa due anni e tutto il
sistema non è così sano come sostiene la narrazione ufficiale berlusconiana prima e renziana adesso –
ovviamente per non creare pericolosi allarmismi.
C’è il
macigno dei 200 miliardi di sofferenze. Al riguardo, sarebbe molto interessante
sapere di chi sono i crediti inesigibili o, meglio, chi sono esattamente, per
nome e cognome, i clienti insolventi.
E’ noto
che storicamente le banche sono deboli con i forti e forti con i deboli.
Inoltre esse sono molto servizievoli con i governanti. Sono servizievoli anche
alcune società di rating che stanno lucrando con i derivati sui titoli del
debito pubblico italiano, nella specie sulla base di contratti derivati non
meglio individuati di cui il ministero dell’economia nega la visione anche alle
Commissioni parlamentari in violazione di fondamentali principi di chiarezza,
trasparenza e completezza del bilancio dello Stato e che devono caratterizzare
anche la gestione di un debito pubblico molto alto.
Non
solo ma una recente sentenza de TAR Lazio ha respinto il ricorso di un
giornalista che chiedeva di poter visionare i contratti derivati di cui sopra.
E
se il governo non gestisce in piena trasparenza i suoi derivati sul debito
pubblico, che cosa ci vogliamo aspettare dalle banche private?
Ma quale
problema c’è se, dopo il recente esame c.d. SREP (Supervisory Review and
Evaluation Process) prescritto dalla BCE, la società di rating Moody’s si
affretta a ripetere che 11 su 13 banche italiane godono buona salute (1-12-15)?
L'OGGI
La
situazione precipita nelle settimane scorse e il governo ha dovuto fare un
decreto-legge (180/2015) per le suddette quattro banche minori sull’orlo del
fallimento.
Il
decreto salva le banche con una spesa di 3,6 miliardi. Una spesa non
indifferente ma scoppia la rivolta dei risparmiatori che evidentemente non
conoscevano le nuove regole del bail in.
Queste
chiamano in causa in primo luogo gli azionisti e i sottoscrittori delle
obbligazioni c.d. subordinate proprio per responsabilizzare gli investitori
assumendo che essi controllino attentamente i prodotti finanziari che comprano.
L’alternativa sarebbe far pagare la generalità dei contribuenti. Dall’altro
lato, c’è anche la direttiva Mifid che impone alla banca emittente di spiegare
le caratteristiche del prodotto. Ma è evidente da un lato la bassa cultura
economico e finanziaria dei risparmiatori italiani e, dall’altro, il conflitto
di interesse delle banche e dei loro dipendenti che spesso si limitano ad
affermare che i prodotti venduti sono buoni e rispettano tutte le regole
previste. Da un lato hanno -in Italia- sempre funzionato le catene di S. Antonio e,
dall’altro, banche e imprese non bancarie di dubbia reputazione, anche se non
in situazione di stress, non si fanno tanti scrupoli ad ingannare i loro
clienti.
(Continua)
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