Qui attorno chiunque si proclama democratico, i politici, gli intellettuali, i nonni, le zie. Ma se tutti sono democratici, nessuno è democratico. L’identità si ritaglia in opposizione all’altro, così come il popolo italiano si distingue dal popolo russo o americano. Nel febbraio 2007 il manifesto fondativo del Pd esordiva con questa frasetta: «Noi, i democratici, amiamo l’Italia». Sarebbe possibile volgerla al contrario? Avrebbe senso scrivere: «Noi, gli antidemocratici, odiamo l’Italia»? No, e allora quella frase non significa più nulla.
C’è mai stato un governo che non si sia dichiarato riformista? Mai: tutti i governi, di destra e di sinistra, di sopra e di sotto, ci hanno sventolato sul naso le proprie riforme. D’altronde ogni legge introduce una riforma sulla legislazione preesistente, e i governi stanno lì per dettare le leggi. Tuttavia, di nuovo: se tutti sono riformisti, nessuno è riformista. Forse è questo a intossicare la nostra vita pubblica, l’assenza d’un linguaggio rigoroso. E più onesto, più sincero. Una riforma, se è davvero tale, pesta qualche piede, e ne riceve in contraccambio dei calcioni. Se tutti stanno buoni e zitti, significa che non è successo niente.
Destra e sinistra restano categorie del codice stradale, non più della politica. Sono di sinistra i 5 Stelle? Probabilmente no, però neanche di destra, e men che mai di centro. Allora cosa sono? Per definirli, un’altra pioggia di parole trite: populismo, estremismo, antipolitica. Le stesse che usiamo per la Lega di Salvini, benché i due movimenti muovano verso contrarie direzioni. Il senso di marcia, ecco il senso di cui sono ormai prive le parole. In quello specchio verbale si riflette il nostro spaesamento.
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