di Zef Chiaramonte
“Ogni
diritto e imperio nostro sia, pertanto, sempre comune con te e i tuoi, niente
sia da te diviso, niente seperato. Sia la potestà del regnare fra noi entrambi
eguale, con pari bilancia e proporzione.”
Ferrante I d’Aragona
re di Napoli a Giorgio Castriota
(cfr. Marinus Baletius, De Vita moribua ac rebus...gestis
G.Castrioti..., Strasburgo, Milio, 1537, p.CCLXXXV. Seconda edizione della
medesima opera , già data alle stampe nel 1508-10)
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Un pomeriggio del giugno 1819 la
popolazione di Piana degli Albanesi correva per le strade del paese in preda al
panico per l’insolito suono delle campane della chiesa di S.Vito, l’unica
chiesa latina in Piana.
Impaurita, la gente si chiedeva cosa fosse
successo. Gli uomini più svelti
trovarono il parroco ai piedi del campanile a tirare su e giù a tutta forza la
corda della campana grande.
- Che succede, Signore (Padre)?
- E’ finita, è finita! Da oggi in poi non
abbiamo più né greci né latini.
- Ma cosa dici, reverenza tua, greci e latini ci
sono sempre stati dai tempi di
Costantino in qua. E poi ... che c’entra
questo scampanio: le donne e i bambini
sono
atterriti come se fossero entrati i turchi!
- Ve lo ripeto ancora una volta: da oggi in poi
non ci sono più né arbëreshë e né
litinjë!
Il prete, di contro alla costernazione degli accorsi, sprizzava gioia da
ogni poro!
Qual’era il motivo riposto di tanto strombazzo nell’annunciare che ex nunc non ci sarebbero stati più né arbëreshë né litinjë?
Anche se il parroco di questa chiesa poteva non essere arbëresh ( quindi un latino o litì ), egli parlava arbërisht, così come arbërisht parlavano i suoi fedeli.
Perché i litinjë che immigravano e si stabilivano nei paesi arbëreshë ,
finivano per parlare arbërisht, come generalmente succede anche oggi.
Infatti, per quanto riguarda l’ordinario uso della lingua di
comunicazione, nelle Colonie albanesi è stato sempre usato l’arbërisht. Cambiava
soltanto la lingua della Messa che, per gli arbëreshë era il greco e per i litinjë il latino.
Quest’ultimo aspetto segnala senz’altro una differenza degli abitanti
all’interno della stessa comunità: da una parte gli arbëreshë fondatori, che
godevano dei diritti sanzionati dai contratti stipulati con Capitoli sin dall’inizio del loro
arrivo in Sicilia e rinnovati molte volte (generalmente a ogni cambio di
feudatario o di dinastia regnante) e, dall’altra, i litinjë che sono stati sempre considerati sopaggiunti.
Poiché i litinjë giungevano tra gli arbëreshë a fondazione avvenuta, non
ebbero diritto di esercitare le funzioni di rappresentanza della comunità, in
quanto tali funzioni erano riservate e garantite agli arbëreshë sin dal loro
primo impianto in Sicilia.
Ma come veniva certificata l’appartenenza all’una o all’altra
componente, dal momento che tutti parlavano arbërisht?
Di fatto l’unica differenza esternamente percepibile era rappresentata
dalla tradizione liturgica seguita.
Gli arbëreshë, stretti alla chiesa di Roma da legami storici che passano
dalla crisi iconoclasta (sec.VIII) al Concilio di Firenze (sec.XV), si sono
sempre riconosciuti nella Chiesa Orientale, celebrando la liturgia “arbërisht”.
Quando parliamo di liturgia “arbërisht” non ci riferiamo alla lingua
degli albanesi, ma all’uso liturgico proprio degli albanesi, cioè alla loro
liturgia bizantina in lingua greca, di contro alla liturgia dei litinjë di rito romano in lingua latina.
L’avverbio “arbërisht”, infatti, non si usa solo per indicare la lingua:
flas arbërisht, ma anche per il
costume tradizionale: vishem arbërisht
e per la Messa bizantina: thom Meshën
arbërisht.
Dal momento, però, che anche i sopraggiunti che venivano a stabilirsi
nel contesto arbëresh, oltre alla lingua prendevano molte altre costumanze arbëreshe,
l’unico modo per distinguerli era il Certificato di Battesimo. Questo, oltre a certificare il rito col quale
il Battesimo era stato amministrato, comportava altre implicazioni di carattere
socio-giuridico.
Proprio qui risiedeva il motivo
di tanta esaltazione da parte del parroco latino di Piana degli Albanesi: dopo
quattro secoli, con l’abolizione del sistama feudale e l’impianto dei Comuni, gli
era giunta notizia che i diritti civili dei latini si livellavano con quelli
degli arbëreshë!
Perciò il parroco latino si felicitava segretamente del fatto che una
volta per tutte poteva affrancarsi dall’arciprete arbëresh, mentre i suoi
fedeli conquistavano in un sol colpo il diritto all’elettorato attivo e passivo
nelle elezioni del Comune, appena sorto dalle ceneri dello Stato arcivescovile
di Monreale.
Il
Regno delle Due Sicilie, di fatto creato nel 1734 con l’accorpamento del Regno
di Napoli e del Regno di Sicilia attraverso l’unione dinastica in capo ai
Borbone, nel 1817 aveva emanato la Legge
Organica sulla formazione dei Comuni, seguita alla rinuncia dei signori feudali ad amministrare
le comunità rurali, avvenuta nel 1812.
Questa Legge, già in vigore nel Regno di Napoli, dall’1 gennaio 1818
venne estesa anche nei possedimenti ultra pharum, cioè in Sicilia. La sua
applicazione, però, venne a scontrarsi con le diverse tradizioni locali preesistenti, tanto
radicate nelle popolazioni dell’Isola e sopattutto nelle comunità arbëreshe.
Questa legge abbatteva in maniera definitiva la piramide feudale
costruita dai Normanni sin dal XII secolo, allorquando, dopo un’aspra e lunga
lotta contro l’emirato arabo di Sicilia, occuparono definitivamente l’Isola più
grande del Mediterraneo e la dichiararono Stato sovrano.
I Normanni, con la loro politica equidistante verso Costantinopoli e
verso il Sacro Romano Impero d’Occidente, trassero il titolo di Re di Sicilia
dalle mani del Papa di Roma e si trovarono ad esercitare il loro potere su una
popolazione siciliana composta da tre etnie:
- i greci cristiani, tra i quali
va annoverato un buon numero di albanesi quale residuo dell’amministrazione
bizantina, quando il Tema d’Italia, con la Sicilia, era in mano agli Albanesi
che lo amministravano da Durazzo nel quadro dell’ isopoliteia di cui godevano all’interno dello Stato multietnico
bizantino;
- gli arabi musulmani, eredi del
precedente emirato arabo; e
- i latini cristiani, nella
componente locale e in quella pervenuta in Sicilia coi Normanni.
La corte, composta da personalità di estrazione mista, esercitava una
esemplare tolleranza della quale srivono molti autori dell’epoca, soprattutto i
viaggiatori arabi nei loro diari.
Ancora oggi molti edifici
religiosi e le residenze reali normnne, nonché gli archivi e le biblioteche
siciliane conservano moltissime iscrizioni, platee e codici miniati scritti in
tre lingue: greco, latino e arabo, oltre a una lapide marmorea decorata a
mosaico che, alle tre lingue menzionate, aggiunge anche l’ebraico.
Al vertice della piramide di questo Stato, come in tutti gli stati
feudali, stava il monarca quale signore e padrone. Ma in Sicilia operava anche un Parlamento
formato da un braccio militare e da un braccio ecclesistico, cioé dai commilitoni
della famiglia reale, da una parte, e dai capi religiosi cristiani, dall’altra.
Il braccio ecclesiastico, a sua volta, si componeva di vescovi greci,
subito rimpiazzati con elementi latini, e di monasteri e archimandritati, quasi
tutti di estrazione greca, quale eredità del cristianesimo bizantino prearabo.
Tra il braccio militare e quello
ecclesiastico, i Normanni avevano scelto le città più ragguardevoli come
proprietà personale del re e della regina, creando così il demanio pubblico.
La posizione socio-giuridica di queste città, con i privilegi accordati,
con le attività culturali che vi si svolgevano, con la presenza della cattedra
vescovile e di molti monasteri e conventi, con l’apparato del senato cittadino,
ecc., era assai lontano dalla posizione in cui si dibattevano le comunità
agricole feudali: le universitates o terre. Qui veniva esercitata ogni sorta di
angaria tipica del medioevo. Le tasse venivano pagate due volte, e per il
signore feudale e per la corte regia. Qui non si godeva di alcun diritto di
contro ai molteplici obblighi addossati alla maggioranza della popolazione e,
se un qualche spiraglio di civiltà si poteva scorgere, esso proveniva solo dalla capillarità dell’amministrazione
ecclesiastica, presente con le parrocchie in ogni borgo pur piccolissimo.
I successori dei Normanni: gli Svevi, gli Angioini, gli Aragonesi non
cambiarono nulla nello sfruttamento della situazione così come l’avevano
ereditata.
Saranno proprio gli Albanesi, al tempo degli Aragonesi, a rompere,
almeno marginalmente, lo status quo socio-giuridico delle comunità agricole in
Sicilia.
La venuta degli Albanesi in massa
e in manieta organizzata, assicurava benefici tangibili all’economia dell’Isola
che aveva bisogno della manodopera di questi contadini-soldati per la messa a
coltura di nuove terre e, quando occorreva, per servizi al Re. Ma segnava anche
un primo colpo alla demolizione del sistema feudale per la particolare
posizione giuridica che essi acquisivano.
Gli Albanesi infatti, riuscirono ad ottenere:
- la sottoscrizione di contratti
notarili con il signore feudale;
- il rifiuto delle “angherie”
medievali;
- l’autogestione
nell’amministrazione locale, con la scelta di propri ufficiali a rappresentanza del popolo albanese: i
giurati, il capitano, il maestro-notaro, il bajulo, l’archivario, l’arciprete e
il vicario foraneo;
- la garanzia di poter avere
propri sacerdoti per l’esercizio delle funzioni liturgiche e per
l’amministrazione dei sacramenti all’uso della Chiesa Orientale di
appartenenza.
In prosieguo di tempo accettarono anche la presenza del sacerdote latino
a favore della popolazione non arbëreshe che veniva a stabilisi tra di essi,
concedendo l’uso di chiese in precedenza adibite al culto bizantino.
Da quanto sopra, risulta che:
- la popolazione arbëreshe di
Sicilia era molto compatta, sia che si trattasse di hjimarioti, epiroti, çami o
coronei;
- i loro capi-comunità (qefalitë)
che insieme ai sacerdoti avevano organizzato la migrazione, continuano a
esercitare in maniera esemplare il loro ufficio e a firmare gli atti notarili
in rappresentanza dei profughi, mentre i sacerdoti conservano il riserbo e non appaiono quali protagonisti,
rispettando l’epitropia dei laici
secondo le costumanze della Chiesa Orientale;
- la tradizione ecclesiastica
arbëreshe, attraverso la lingua greca che usava nella liturgia, mise in buona
luce tra gli uomini di cultura questa nuova popolazione a motivo
dell’importanza che l’Umanesimo e il Rinascimento, allora in atto, annettevano
alle lingue classiche;
- la maniera arbëreshe di
costruire le proprie cittadine, lo stile
e la struttura loro, influirono nella costruzione delle cosiddette Città Nuove
di Sicilia;
- il loro stato giuridico
travalicava il sistema feudale e inglobava elementi demaniali: questo accadeva
più facilmente dove gli Albanesi erano inserit in realtà feudali del braccio
ecclesiastico, come Monreale.
Qui essi ebbero la capacità di fondare chiese, ospedali, conventi e
monasteri, sodalizi e biblioteche e di ostentare i loro stemmi con tre spighe o
con l’aquila bicipite, sempre col cartiglio S.P.Q.A., Senatus Populusque
Albanensis.
Quando l’inglese Denis Mek Smith, nella sua Storia
della Sicilia medievale e moderna,
1971, p. 245,246,269, primo fra gli
storici, sottolineava lo scacco subito
da parte del sistema feudale medievale siciliano dallo stabilirsi degli
Albanesi nell’Isola, non possedeva, come molti ancora oggi, “le coordinate di
partenza” dei profughi.
Non si chiese, pertanto, com fosse possibile che un gruppo di fuggiashi,
a mani vuote, abbia potuto avere la forza di scalfire un sistema collaudato dal
tempo e così ben radicato nella società siciliana?
Per comprendere appieno tale fenomeno bisogna, perciò, avere chiare non
solo le “coordinate di arrivo” nella Sicilia del tempo, come abbiamo cercato
qui di sintetizzare, ma soprattutto le
coordinate della “pre-istoria” degli Arbëreshë, legate alla loro tradizione
umanistica, al Kanùn e alla Chiesa
illiro-bizantina.
Era questo il capitale storico e la
particolare Weltanschauung con cui partivano
dalla loro patria!
Dobbiamo interrogarci su quali esperienze avevano
maturato per giungere alla formazione del primo Stato moderno d’ Europa, plasmato
da Scanderbeg su basi democratiche, con una vasta ed efficiente rete diplomatica,
creato con il consenso dei Pari e non con la contrapposizione e lo spargimento
di sangue fraterno.
Quali conoscenze e quali capacità avevano acqusito al servizio di
Venezia, sia come soldati stradioti, sia come comandanti delle fortezze in
Morea?
Quanto ha pesato sulla loro sistemazione in Italia l’apprezzamento e il
sostegno di Carlo V e del Papato?
E’mancato sinora il confronto tra queste due coordinate.
Perciò la storiografia sugli arbëreshë,
sviluppata da loro stessi e dagli albanesi d’oltre mare, rimane ancora molto
frammentaria, perché gli albanesi non conoscono i fatti storici relativi alla Sicilia,
mentre gli studiosi arbëreshë non hanno ben chiare le condizioni sociali e
culturali dei Padri prima che lasciassero la patria.
A ciò va aggiunto che il
perpetuarsi dell’approccio non sempre scientifico nello studio del
fenomeno arbëresh, sconta cinquant’anni di imperante ideologia comunista in
Albania e in Kosovo che, in parte, ha influenzato anche gli arbëreshë.
All’Albania comunista serviva propagandare,
contro il campo capitalista, discriminazioni e miseria degli arbëreshë, per proclamare il sistema
stalinista enveriano come il migliore in assoluto.
Alla Jugoslavia titina, invece, interessava far passare la versione
della corruzione del sangue, come se gli Arbëreshë, praticando per secoli
l’endogamia - cosa assolutamente falsa - sono ammalati e soffrono di pazzia! Così
era facile fare il paio coi Kosovari!
Mi piace qui sottolineare le
preziose informazioni che ho ricavato dalla lettura del 2° volume di Historia e Popullit Shqiptar, opera edita
nell’ultimo decennio dall’Accademia delle Scienze d’Albania.
In questa opera, un gruppo di storici di alto livello scientifico hanno
chiarito, senza schemi né remore ideologiche come mai era accaduto prima, la
situazione degli arbëreshë prima dell’esodo dall’Albania. E’ consigliabile che
gli arbëreshë la leggano se vogliono dare basi solide alla loro identità.
Impiantatisi in Sicilia, essi continuarono a godere dei loro particolari
diritti anche durante la dominazione
spagnola, dando il proprio contribuendo alla società dell’epoca con
personaggi di rilievo in ogni campo e
nelle sedi più alte, persino negli organi dell’Inquisizione.
E, tuttavia, il periodo più
florido per essi è stato quello della dinastia borbonica (1734-1860).
Sia gli arbëreshë che gli skipetari consideravano come proprio lo Stato
borbonico e
il Reggimento Real Macedone fu l’unico
corpo militare a seguire i Borbone in Sicilia durante l’occupazione francese
del regno di Napoli. Esso era composto solo da
albanesi e da arbëreshë.
La crescita economica verificatasi durante la dinastia borbonica, è
all’origine del consolidamento di una ricca borghersia arbëreshe in Sicilia che
volle sottolneare la propria gratitudine a re Ferdinando sostituendo nello scudo della cintura d’argento, brezi, delle signore, la simbolica corona
“aperta” con la corona “chiusa" o reale borbonica.
Per gli arbëreshë furono creati e sovvenzionati due collegi di studi,
uno in Calabria e l’altro in Sicilia.
Ad essi furono concessi due vescovati particolari, mentre la loro
tradizione ecclesiastica era tenuta in così alta considerazione che nel palazzo
reale a Napoli era presente una cappella bizantina, così come nella residenza
di caccia, a Ficuzza, troviamo tutt’oggi paramenti e libri liturgici per la
celebrazione della Divina Liturgia arbërisht, all’albanese.
La ragione fondante di tutta la
questione, cioé il modo di autoamministrasi degli arbëreshë, venne a cessare
con la Legge Organica sulla formazione dei Comuni.
Con essa decaddero i privilegi già goduti e gli arbëreshë si ritrovarono
in grosse difficoltà, perché insieme ai privilegi anche la loro economia si
impoverì.
Così, mentre la nuova legge sui
Comuni rallegrava oltre misura il parroco della campana, gli arbëreshë
cominciarono a voltar la schiena ai Borbone: così facendo, di fatto, tagliarono
il ramo su cui erano seduti!
Lo Stato italiano unitario, per
la formazione del quale pure gli arbëreshë ebbero grandi meriti, con il
concetto moderno dell’uguaglianza dei cittadini, mise in ombra le particolarità
degli arbëreshë. Sicché l’odierna legge di salvaguardia della lingua
minoritaria, senza alcun riferimento alla situazione economica e culturale, ci
appare come la foglia di fico che copre il vuoto.
(Il testo, in albanese, è stato
letto al Seminario Internazionale di Lingua
Letteratura e Cultura Albanese, Prishtina 18-29 agosto 2013)
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