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lunedì 11 ottobre 2021

Mondo contadino. Per non dimenticare una realtà umana che fu -7-

Pagine tratte da

"L'Almanacco del contadino siciliano"

L’avventura del “Lunario” si conclude con un’appendice messinese nei mesi di maggio, aprile e giugno 1931: è stata un’esperienza “posticcia” (A. Di Grado) quella messinese, che vede nuovi collaboratori (Santino Caramella, Stefano Bottari, Salvatore Pugliatti) e il doppio delle pagine; ma non è più il “Lunario” di Francesco Lanza, che non è tra i collaboratori; manca l’ispirazione ideale dello scrittore di Valguarnera e prevalgono le attenzioni per le tradizioni popolari (Cocchiara, Vann’Antò, Di Giovanni) e per la letteratura nazionale. Quella che in questi mesi abbiamo sottoposto all'attenzione dei lettori del Blog è l'edizione 1924. La nostra pubblicazione proseguirà fino a completare i 12 mesi del 1924.

 OTTOBRE 

   É un mese affollato di grandi lavori: si vendemmia e si preparano i campi per le nuove sementi.       

 Nell'ultimo sole, biondo come l'oro, è festa alla vigna. Uomini e donne empiono di grappoli i canestri e stornellano d'amore, o cantano storie e contrasti. Intanto le bestie vanno e vengono cariche, e, dove ancora il contadino non è stato sì previdente da introdurre le pigiatrici meccaniche nel palmento, tutti impiastricciati di mosto, i pigiatori ballano sull'uva. Si lavano le botti e vi si fanno suffumigi di zolfo: così il vino è sicuro dagli acidi. 

   S'imbotta il mosto; e dalla vinaccia con acqua si estrae il vinello, e il resto è ottimo mangime ai colombi e alle galline. 

   Dopo si spala la vigna e si sconcano ancora gli alberi per la concimazione. Ai campi l'aratura è nel pieno, e anche, la zappa lavora per la semina delle fave e degli altri legumi.     

   Non aver fretta a spicciarti, che il tempo è con te. Si dice: - se vuoi vincere il tuo vicino, buoi al passo e solco pieno. 

   Ci voglion acque abbondanti; il seme ha bisogno di trovare pastosa la terra; e se non è piovuto e non piove non sai come andrà la semina. Acqua prima e acqua dopo. 

  Si ritira il concime chimico; si rinnovano i contratti agrari; si prende a prestito il denaro occorrente per i lavori dell'annata. 

   Si fanno in questo mese altri vivai e piantonai, scegliendo bene i semi e le gemme, e curando il terreno. Si piantano gli alberi resistenti ai geli invernali: peri, ciliegi, meli, nei luoghi in cui l'inverno non sia rigido e ventoso.

 LA SALUTE 

   La prima cosa è la salute: la salute è necessaria, la ricchezza è un sovrappiù. 

   Se non hai braccia da usare, non hai niente. 

   Mente sana, in corpo sano. 

   Cura la tua salute: non darti alle sregolatezze, ma ama il vivere ordinato e casto. 

   La tua casa se è povera non importa, ma sia sempre tersa come uno specchio: la sporcizia porta più mali che tu non immagini.    Lo sai come si dice? casa pulita, t'accresce la vita; e anche: - povero sì, sporco perché? 





















   LA VENDEMMIA 

 Allegramenti si fa la vinnigna; 

l'omu travagghia allegru e non si lagna, 

 forza e saluti n'otteni alla vigna, 

cu' cchiù travagghia cchiù assai ni guadagna. 

L'omu travagghiaturi non s'intigna, 

campa letu e cuntentu cu la magna.

Cu' cerca trova, cu' voli s'insigna,

 cu' sapi travagghiari assai guadagna. 


LE INDUSTRIE DELLA SICILIA

 La Sicilia è una regione principalmente agricola. I suoi miti e le sue leggende, le canzoni e le storie, gli Dei e gli eroi, ogni cosa in Sicilia ha un principio agricolo.


 Essa non ha avuto in passato nessuna grande industria. Le sue industrie sono tutte moderne, e perciò ancora bambine. 

La più importante è l'industria della estrazione e della lavorazione dello zolfo, che costituisce buona parte della ricchezza di due province: Girgenti e Caltanissetta, e che ora ha, di fronte al passato, migliori metodi tecnici. Il lavoro nelle miniere è divenuto più umano; più umane sono le condizioni economiche e sanitarie dei solfatai. Molto a questo scopo ha giovato l'istituzione del Sindacato obbligatorio per gli infortuni degli operai delle miniere. 

La Sicilia produceva fino al 1915 più di due milioni di tonnellate all'anno di zolfo, per un valore di circa trenta milioni di lire.  Di grande avvenire è l'industria degli agrumi, che vengono utilizzati per l'estrazione di essenze, o per la fabbricazione di agro crudo e cotto, di citrato di calcio e di acido citrico.  Centri agrumari per l'estrazione di derivati sono Messina, Catania, Palermo. 

Povere sono le industrie del legname, dei trasporti, del caseificio. 

Ricca è invece l’industria del vino, il cui emporio è il porto di Riposto. Di fama mondiale sono i vini di Marsala, di Mascali, dell'Etna, i moscati di Siracusa e di Pantelleria, la malvasia di Lipari. 

Industrie che molto permettono sono quelle della molitura, del pastificio, delle conserve di pomodoro in scatole. 

Di grande importanza è la pesca: specialmente quella del tonno, di cui si hanno parecchie tonnare celebri come quelle di Trapani, Favignana, ecc.; delle sardelle e delle alici che salate e preparate in barili vengono pure esportate. Scarsa importanza ha ora la pesca del corallo e delle spugne.

 EMPEDOCLE 

Empedocle fu un antico filosofo di Agrigento. 

Giovane ancora, volendo conoscere i misteri del mondo creato, abbandonò il facile vivere, e si diede allo studio della natura. Frequentò tutte le scuole di filosofia che fiorivano in Sicilia e in Italia, e per ascoltare la voce dei sapienti più famosi, viaggiò in Grecia e in Egitto. 

Egli diventò ben presto dotto in ogni scienza: conobbe l'arte delle stelle e dei pianeti, la medicina, la geometria, la matematica, la poesia e la musica, e fu tra i filosofi più pregiati del suo tempo. 

Andava di città in città e insegnava all'aria aperta, e tutti i giovani ansiosi di istruirsi correvano a fui.

 Molto per questa sua sapienza egli era onorato, e poiché operò cose prodigiose, usando della sua arte medica come nessun altro in quei tempi, ebbe fama di mago presso il popolo ignorante e superstizioso.

 Liberò Selinunte dalla malaria, dando moto alle acque stagnanti per mezzo di due fiumi che v'incanalò a sue spese; guarì facilmente una donna caduta in asfissia, e si gridò al miracolo essendo quella creduta morta da tutti; liberò ancora Agrigento dalle esalazioni pestilenziali che venivano dalla gola di un monte, ostruendone con un gran masso il passaggio; e molti altri furono i suoi prodigi.

 Stanco finalmente della sua vita fra gli uomini, sì ritirò sul monte Etna, attrattovi dai fenomeni del vulcano, e si diede a studiare le vicende del fuoco che sotto rombava e in alto splendeva. 

Venuto in più grande curiosità, egli decise di scandagliare l'interno del monte per vedere come il fuoco nascesse e si alimentasse, e lasciati fuori i calzari, si slanciò nel cratere. Ciò che vide nessuno lo sa, perché egli non tornò più, e invano gli abitatori del monte lo cercarono. 

Rinvenuti infine i suoi calzari, corse tra il popolino una curiosa leggenda, che egli cioè sì fosse gettato nel cratere per far credere d'essere stato rapito dagli Dei, ma che Vulcano geloso lo avesse divorato, e ne avesse quindi sputato fuori i calzari. 

 GIOVANNI MELI 

 Chi non ha sentito nominare Giovanni Meli? 

Egli è il poeta della Sicilia. 

Gli antichi, al momento propizio, recitano lietamente i versi di lui, e c'è ancora chi ne sa a memoria intere canzoni e poemi, e quando comincia non finisce più. 

Egli fu un piccolo abate di Palermo, uomo di lettere e di corte, assai caro ai potenti e ai ricchi. 

Ma, amante della vita semplice e rustica, egli sentiva nelle sue vene scorrere sangue popolano, e nella naturale parlata si mise a cantare la vita del popolo. 

Fu con mutata voce il continuatore di Teocrito, poeta dell'antica Sicilia: celebrò la vita dei campi e dei rioni popolari, in succose satire mise in ridicolo i vizi dei potenti e fece amare le virtù degli umili. 

Coi suoi versi grandemente onorò il dialetto siciliano, così melodioso e pittoresco, e mostrò all'Italia che si può essere poeti col modesto parlare del popolo. 

 LA VICENDA 

 I campi vogliono la vicenda: ora grano, ora fave, e un anno riposo. 

 Non bisogna sfruttare eccessivamente la terra; se troppo le chiedi, ti rende meno. Dalle modo di rafforzarsi e nutrirsi: essa è come la nutrice, che ha bisogno di riposo e di buon nutrimento per aver latte alle mammelle. 

Alterna il frumento all’orzo o alle fave, e un anno lascia la terra vacante. Ne avrai pascoli per il bestiame, e perciò latte e stallatico.

 Utile, ma in Sicilia poco seguita, è la diretta coltivazione a prati: di sulla, erba medica, trifoglio e lupinella, perché queste piante ingrassano la terra e non l’affaticano. 

Dopo un anno o due di simile coltivazione tu avrai campi che con una semplice aratura ti daranno frumento in abbondanza. 

 LA BARONESSA DI CARINI 

Chianci Palermu, chianci Siragusa, 

Carini cc'è lu luttu ad ogni casa. 

Cu’ la purtau sta nova dulurusa mai 

paci pozz'aviri a la so’ casa. 

Aju la menti mia tantu cunfusa 

lu cori abbunna, lu sangu stravasa; 

vurria na canzunnedda rispittusa,

 chiancissi la culonna a la me’ casa:

 la megghiu stidda chi rideva‘n celu, 

arma senza cappotta e senza velu; 

la megghiu stidda di li Sarafini, 

povira barunissa di Carini! 

chiancissi la culonna a la me’ casa: 

Ucchiuzzi fini di vermi manciati

ca sutta terra vurvicati siti, 

d'amici e di parenti abbannunati 

di lu me’ Amuri parrati e diciti. 

Pinsati a idda e chiù nun la turbati

 Ca un jornu com’è idda ci sariti: 

limosina faciti e caritati 

ca un jornu avanti vi la truviriti.

 Ciumi, muntagni, arvuli chianciti: 

suli cu luna chiù nun affacciati:

 la bella Barunissa chi pirditi 

vi dava li raj ‘nnammurati: 

acciduzzi di l’aria, chi vuliti? 

la vostra gioia ‘nùtuli circati: 

varcuzzi, chi a sti praj lenti viniti,

li viliddi spincitili alluttati.

 Ed alluttati ccu li lutti scuri, 

ca morsi la Signura di l'amuri. 

 Amuri, amuri chiànciti la sditta, 

ddu gran curuzzu cchiù nun t'arrisetta: 

dd'ucchiuzzi, dda vuccuzza biniditta, 

oh Diu! ca mancu l'ummira nni resta! 

Ma cc'e' lu sangu chi grida vinnitta 

russu a lu muru e vinnitta nn'aspetta! 

E cc'è Cu’ veni cu pedi di chiummu, 

Chiddu chi sulu cuverna lu munnu: e

 cc'è Cu’ veni cu lentu camminu, 

ti junci sempri, arma di Cainu! 

Vicinu lu casteddu di Carini 

giria di longu un bellu cavaleri, 

lu Vernagallu di sangu gintili, 

chi di la giuvintù l'onuri teni: 

giria comu l'apuzza di l'aprili 

‘ntunnu a li ciuri a surbiri lu meli: 

di comu annarba finu a ‘ntrabbuniri 

sempri di vista li finestri teni: 

Ed ora pri lu chianu vi cumpari 

supra d'un baju chi vola senz'ali: 

ora dintra la cresia lu truvati, 

chi sfaiddia ccu l'occhi ‘nnamurati:

 ora di notti cu lu minnulinu 

sintiti la so’ vuci a lu jardinu. 

Lu gigghiu finu chi l'oduri spanni 

ammugghiateddu a li so’ stissi frunni, 

voli cansari l'amurusi affanni 

e a tutti sti primuri non rispunni: 

ma dintra adduma di putenti ciammi, 

va strasinnata e tutta si cunfunni: 

e sempri chi lu senziu cci smacedda, 

ch'havi davanti ‘na figura bedda: 

e sempri chi lu senziu cci macina 

e dici: “Comu arreggi, Catarina?” 

e sempri chi lu senziu ‘un ha valuri 

ca tutti cosi domina l'Amuri. (continua) 

I MOTTI 

A carne dura, coltello tagliente. 

Alla festa del Santo non ci mancare. 

 Chi veramente vuole, fa le pietre pane. 

Invece di parlare, mettici paglia. 

Chi sente, risente. 

Chi ha le brache strette, stia all’impiedi. 

Giusta misura a lungo dura.

 Non bastano gli anni, ci vuole il talento.

 II martedì non è lunedì. 

Il piede regge la testa. 

LA FUGA IN EGITTO 

Era Giuseppi Santu addurmisciutu, 

ed avia Gesù l'età di tri anni, 

lu 'nfami Erodi era arrisulutu d

'occidillu pi mani d' 'i tiranni; 

e un Ancilu di celu ci ha scinnutu s

upra Giuseppi lu gran Santu 

ranni e 'n sonnu sti paroli cci dicia: 

- Giuseppi Santu, ascuta un pocu a mia. 

 Pìgghiati la tò spusa e lu Misia, 

e pàrtiti 'i stu locu prestamenti, 

pirchì Re Erodi cu gran tirannia 

sta dannu morti a semila 'nnucenti; 

ancora voli occidiri a Maria e 

a lu Bamminu Gesù onniputenti. 

Partiti prestu senza cchiù tardari, 

pi li so' vogghi putiri scansari. 

 Giuseppi si svigghiau senza tardari, 

e stu sonnu a Maria cci arraccuntau 

non circau né robba né dinari, 

'mmrazza lu Bammineddu si pigghiau. 

Misiru 'a stissa notti a camminari 

'n Ancilu versu Egittu li guidau, l

'accumpagnava l'Ancilu pi via a Gesù, 

a San Giuseppi ed a Maria. 

 Passannu Gesù, Giuseppi e Maria, 

ogn'arvulu di chiddi si calava, 

e riverenza ognunu cci facia, 

cà comu Diu ognunu l'adurava. 

 'Na nuvula lu suli ci apparava supra 

la sagra testa di Maria; 

in chiddi parti unna Maria passava comu

 'n'apparasuli cci facia. 

L'Arabia l'oduri cci mannava, 

la terra meli e manna cci affiria, 

a lu ciumi Giurdanu li rubini e 

all'Orienti li perni cchiù fini. 

 Avennu siti la Vergini pia pi lu 

gran caudu chi sintia pi strata,

 e allura di 'na petra ddà niscia 

un'acqua frisca, duci e 'nzuccarata.

 Pari che chidda petra cci dicia: 

- «viviti puru, Vergini Biata.» - 

Ubbidienti a Diu nostru Signuri 

L’erbi e li chianti tutti cu li ciuri. 

 Niscianu armali di li grutti scuri, 

e ognunu cu sò lingua cci cantava, 

facennu sàuti e balli di fururi di chiddi 

parti unna Maria passava.

 E ongi ocidduzzu 'mmenzu li friscuri 

'na famusa armunia cci cuncirtava; 

ubbidienti s'arrinnianu tutti l’erbi, 

li curi e li cchiù duci frutti. 

 Cc'era un latru chi Ddima si 

chiamava, e supra un munti 'a guardia facia; 

e di ddu locu sti cosi ammirava e 

dintra d'iddu parrava e dicia: 

- «Oggi l'Eternu Diu di ccà passava; 

Chistu è lu veru Diu, veru Misia ch'ora 

si vinni a stu munnu a 'ncarnari 

pi nuàtri piccaturi arriscattari. 

 Allura Ddima d' 'a muntagna scinniu e 

ê pedi di Maria si prisintau; 

di zoccu avia di bonu cci affiriu, 

ed alla casa so si li purtau, 

affirennuci roba e quantu avia a 

Gesù a San Giuseppi ed a Maria. 

Allura Cristu cu Ddima parrau: 

- «sta attentu amicu, a quantu dicu iu: 

si tu ti pintirai di li to' danni sarai 

cumpagnu miu di ccà a trent'anni». 

 Sutta un pedi di parma s'assittaru, 

Maria ddi belli frutti risguardava, 

e risguardannu ddu locu umili e caru 

quattru di chiddi frutti addisìava. 

Ascuta e senti stu mrâculu raru, 

la stissa parma li rami calava; 

li dattuli a Maria cci apprisintau 

Maria li cogghi e la parma s'arzau.

 Cristu a la parma cci parrà e cci dici: 

«Parma, ti dugnu 'a binidizioni; 

comu onurasti li me' cari amici 

sarai cumpagna a la me passioni. 

Ancora cu li toi rami filici portami 

ogn'arma a la sarvazioni; 

e ancora cu li toi pampini santi t

rasemu a Gerusalemmi triunfanti». 

 LE CANZONI 

 La Sicilia è la patria delle canzoni. 

Prima cura e primo vanto del contadino è di saper cantare, come il cuore gli dice e la sua fantasia. Està e inverno, egli non si stanca mai; e quando non ne sa più, le inventa. Cantando, il tempo gli passa e la fatica meno gli pesa, e torna più lieto al suo nido. 

C'è uno strumento apposta per accompagnare le belle canzoni, d'amore e d'ogni specie, ed è lo scaccia pensieri. 

Chi lo sa sonare è nominato fra tutti. Le fanciulle, la notte si svegliano dal sonno e sospirano sole nel bianco letto. I vecchi rimembrano i bei tempi della giovinezza, e le mamme guardano agli occhi delle figlie, lucenti come le stelle. 

Il cantare è il primo conforto del contadino. 

 PICCOLA MEDICINA

Avvelenamento per verderame 

 Non usare pentole di rame che non siano stagnate; perché cuocendovi dentro cibi preparati con aceto o frutta acide dàn luogo all'acetato di rame (sali di rame, verderame). 

Manipola con cura il solfato di rame per usi agricoli, e guarda di non incorrere in funesti errori.

 L'avvelenamento per sali di rame è generalmente acuto e pericoloso. I sintomi di esso si manifestano tardivamente, cioè molte ore dopo l'ingestione del veleno: in principio si ha un lieve malessere, perdita di forze, nausee, vomiti; seguono poi acuti dolori di ventre, sudori freddi e diarree sanguigne. In casi più gravi si hanno anche convulsioni, paralisi parziali, delirio. 

Il rimedio più efficace è il vomito provocato con le dita nelle fauci o con bianchi d'uova e magnesia calcinata sciolta in un po' d'acqua. Dopo il vomito sarà utile un forte ed energico purgante, come l'infuso di sena. 

 Funghi velenosi 

Diffida dei funghi, anche se credi di avere la magica virtù di conoscere i buoni dai malvagi. Molti velenosi hanno una grande somiglianza coi buoni, e traggono in inganno l'occhio e il palato più esperti

. Non abusare dei mangerecci: consumati in quantità o in istato di putrefazione anche poco avanzata, possono cagionare gravi avvelenamenti come gli altri. 

Sii cauto e parsimonioso. 

Se per tuo malanno hai mangiato dei funghi velenosi, dopo i primi effetti, vomito, nausea, vertigini, affanno, contrazioni nervose, sudori freddi, pensa subito al riparo. Il meglio è di vomitare quanto si è mangiato, e perciò provoca il vomito col mezzo facile e spedito delle dita nelle fauci, oppure ingoiando dell'olio o dei chiari d'uovo. Se l'ingestione dei funghi è avvenuta da molte ore sarà bene somministrare un forte purgante, olio di ricino, infuso di foglie di sena, per sbarazzare il tubo digerente delle sostanze velenose passate in esso. 

Per aiutare questi rimedi si combattano intanto gli altri effetti del veleno: la prostrazione con vino e cognac, i dolori con pezze calde sullo stomaco, la coma con spruzzi d'acqua fresca e col fiuto di aceto e di ammoniaca. 

 POLIFEMO E ACI 

Polifemo era uno dei più feroci e barbari ciclopi. 

 Egli abitava a piè dell'Etna, sulla riva del mare: aveva infiniti armenti, antri pieni di caci e di ricotte, di frutti e di vino. 

La sua testa sembrava una cima di montagna, su cui l'unico occhio folgoreggiava come il sole, e il suo corpo era così peloso che sembrava una foresta. 

Per bastone aveva un pino intero, e lo maneggiava terribilmente | contro le fiere e gli uomini. 

La mattina si buttava avanti l'armento che non finiva mai, e lo portava a pascere su pei monti e nelle valli, governandolo con un fischiettio che faceva tremare i boschi intorno come la tramontana. 

Or un giorno, mentre si lavava la faccia nel mare, emersero dalle onde numerose ninfe marine, belle come la luna, che a vederlo così brutto si risero di lui, e lo motteggiavano. Una, ch'era la più bella e la più ardita, gli si fece vicino cantando e danzando sulle mobili onde, e com'egli, abbagliato, allungò la mano per afferrarla, ella gli spruzzò dell'acqua sul volto, e con un riso sonoro s'immerse. 

Polifemo restò muto e incantato, e il cuore gli tremava come ad un fanciullo. 

D'allora non ebbe più pace, e i suoi costumi mutarono. Infisse dei pioli in un tronco di pioppo e se ne fece un pettine per la sua barba; tolse a dei pescatori due barche e se ne fece scarpini; si cucì una graziosa cintura di pelli di lupi e di volpi, e imparò a sonare l’arpa e a modulare la zampogna di canne. Non divorava più uomini per non sembrare feroce alla sua bella, e dopo ogni pasto si puliva accuratamente i denti grandi come màcine, perché splendessero. 

Ma di lui la ninfa si prendeva gioco e dei suoi sospiri si rideva, rinfocandogli con vezzi e moine il gran fuoco nel petto. 

- Polifemo! - gli diceva - guarda come sono bella. C'è una ninfa più bella di Galatea? Vieni qui, nel mare, ch'io ti amerò! Ma prima diventa bello: sei troppo brutto! 

E come Polifemo, cieco d'amore e di rabbia, si buttava nel mare per prenderla, ella guizzava e spariva. Poi riapparendo più lungi, così continuava: 

- Ma come vuoi ch'io ti ami, o Polifemo? La tua bocca sembra una caverna: invece di baciarmi m'inghiottirebbe; il tuo unico occhio è pauroso come il cratere dell'Etna, il tuo corpo peloso è come una boscaglia in cui io certo mi smarrirei se volessi abbracciarti, pungendomi tutta. Io sono troppo bella per te. 

Il Ciclope urlava di furore, e l'Etna e il mare ne tremavano: 

- Bada, Galatea! 

Ma subito mutava tono, e piagnucolando come un bambino così le diceva: 

- Perché sei crudele con me, o Galatea? O bella come un raggio di luna, o più lucente del cristallo, più dolce dell'uva, più bianca del giglio, più lieve dell'onda, più cara del sole invernale e dell'ombra estiva, più dolce a baciarsi del latte, più leggiadra d'una colomba: perché non hai pietà di me? oh, tu sei più dura d'una quercia, più falsa delle onde, più trista d'un serpente, più superba d'un pavone, più aspra delle spine! Se invece mi amassi, saresti più incantevole d'un giardino fiorito. Perché dunque non mi ami? Non è vero ch'io sia brutto. Sono bello: sei tu la cieca che non te ne accorgi. Io sono più alto dell'Etna, la mia bocca è una casa piena di candide colonne d'avorio; ho un occhio solo, ma un occhio solo ha il sole. Sono peloso? ma l'albero senza le foglie non vale niente, e niente vale il cavallo senza criniera. Vieni dunque nel mio antro: c'è un letto di pelli di leoni, c'è latte quanto ne vuoi, ricotte, caci, agnelli. Ho anche due orsacchiotti addomesticati, e come tu entrerai essi ti baceranno i piedi di regina. Vieni, o Galatea! 

Galatea per tutta risposta rideva e danzava sulle onde: 

- Come posso amarti, o Polifemo? diventa prima bello come Aci. Sai tu chi è Aci? È il pastore più bello della Sicilia, e io l'amo più degli occhi miei! È gentile come un raggio di sole, è fine come un ramo di salice. Oh, come è bello! come è dolce! La sua bocca è come il miele, i suoi baci sono come il vino! 

- Guai! - urlava terribilmente il Ciclope, levando il pugno minaccioso - guai, o Galatea, al tuo Aci! Io lo brucerò del fuoco che mi divora. Fa' che non mi capiti sotto, ch'io te lo farò a brani e così tu lo avrai per sempre nel mare! 

Ma Aci e Galatea si ridevano delle minacce di Polifemo, e si amavano sulla riva e nei boschi, dietro gli scogli e negli antri, felici e dimentichi di tutto. 

Un giorno che Polifemo gemeva e smaniava di amore, essi dietro un macigno abbracciati lo stavano a guardare, ridendo; ma li udì Polifemo, e voltatesi, strappò uno scoglio e lo lanciò contro di essi atterriti. Galatea fu pronta a guizzare nel mare, ma Aci restò miseramente schiacciato: le sue cervella schizzarono alto nel ciclo e il sangue spicciando dal corpo in frantumi formò un ruscello che ancor oggi scorre nel mare e ha il suo nome. 

PALERMO 

Palermo, regina del mare, è la capitale, la più bella città della Sicilia. 

Dai Saraceni ai Borboni essa fu sempre dimora e desiderio di re. È la terra dei Vespri, della Gancia, dell'epopea Garibaldina. 

Ha dato all’Italia molti uomini illustri, tra cui Giovanni Meli, Michele Amari, Francesco Crispi, Giuseppe Pitrè. 

Oggi conta circa 360.000 abitanti- È ricca di agrumi, di cereali, di pesca. 

In essa han sede il Comando di Corpo d'Armata, la Corte d’Appello, la Prefettura, il Distretto Militare, la R. Università, il Provveditorato agli Studi, eccetera; è inoltre il più importante centro di emigrazione della Sicilia. 

A Palermo vi è pure l'Ufficio Regionale dell'Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d'Italia (Via Rocco Pirri, 9 - presso la Stazione), dal quale dipendono le opere delle provincie di Palermo e di Trapani, ed al quale puoi rivolgerti per consiglio e per aiuto alle varie opere di cultura del tuo paese, sicuro di trovar sempre una parola adatta, una faccia amica. 

Fra le bellezze antiche e moderne della città sono da notarsi: il Duomo, la Chiesa di San Domeníco, 1a Gancia, il Viale Libertà, il Foro Italico, il Teatro Massimo, il Politeama Garibaldí, il Museo. 

In provincia di Palermo i paesi principali sono: Bagheria, Monreale, nominato per il suo Duomo e il Crocefisso che vi si trova, Partinico per i suo vini, Termini Imerese, Cefálù, Corleone, Misilmeri patria del filosofo Cosmo Guastella, Caltavuturo e le due Petralie a più di 1000 metri sul livello del mare.
































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