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mercoledì 14 gennaio 2015

Uomini, fatti, eventi. Come li ricordiamo oggi

14 Gennaio

In quell'anno, il 1968, il quel giorno, il 14 gennaio 1968, nella Valle del Belice c'ero. 
Era domenica ed ero tornato a Contessa Entellina qualche giorno prima da Palermo, dove frequentavo le scuole superiori. Non ricordo bene come e chi dei parenti mi avesse informato che l'11 gennaio era deceduto il mio nonno paterno. Io porto il suo nome e tornai in paese per partecipare ai funerali che si sarebbero dovuti tenere il 12 gennaio.
Il rito funebre però non si è potuto svolgere. Il 12 gennaio infatti nevicò così abbondantemente che si decise di sigillare -come d'uso- la bara e di aspettare il giorno seguente nella speranza che la neve cessasse di venire giù e si potesse poi raggiungere il cimitero che, come sappiamo noi contessioti, sta nella parte alta dell'abitato.
Il giorno successivo invece la neve continuò a venire giù ancora più abbondante del giorno 12. In questo frangente, ricordo bene, mi buscai il raffreddore ed una forte febbre. 
Si pensò allora (13 gennaio) di portare comunque la bara nella vicina Chiesa dell'Annunziata e San Nicolò, e lì -sistemata in una cappella laterale- avrebbe dovuto restar fino a quando le condizioni del tempo avessero consentito il trasporto fino a  "Giarruso".
Il 14 gennaio non nevicò più, però la neve era divenuta ghiacciata e gli zii, le zie e mio padre decisero di comunque far svolgere il rito funebre in Chiesa e poi trasportare la bara in Cimitero. 

Come ? 
La neve era divenuta ghiaccio ed era abbastanza alta da terra e l'impresa non si presentava facile. Con i responsabili del municipio, il sacerdote e quanti erano coinvolti nel compito si pensò di disporre la bara su un rimorchio da fare trainare ad un trattore. 
Io, che avevo la febbre, non ho partecipato al triste percorso di gusto prettamente siberiano.
Già alle 12,oo il rito fu concluso.

La prima scossa di terremoto arrivò alle 13,30 ed io che stavo a letto l'ho avvertita in tutta la sua portata. Altre  due scosse più lievi arrivarono alle 14.15 e alle 16.48. Tuttavia il fatto, seppure sorprendente, non indusse nè me nè i miei familiari ad assumere accorgimenti particolari. D'altronde in paese non ci fu alcun allerta da parte di nessuno. Allora non esisteva nè Bertolaso nè la Protezione Civile e la gente attese che i giornali radio, e ove possibile i telegiornali, dicessero qualcosa. Non ho memoria precisa su questo aspetto però tutto passò come se niente di significativo fosse accaduto, almeno a Contessa Entellina.

Con l'arrivo della notte in casa nessuno si mise a letto; rimanemmo vestiti, me compreso che avevo la febbre. Il comportamento era quello di chi stesse aspettando qualcosa o qualcuno; o per meglio dire come se noi stessi dovessimo partire ed aspettavamo che passasse la corriera della ditta Stassi. La mamma preparò una borsone con ciò che lei riteneva potesse essere utile.
Ci furono ulteriori scosse dalla mezzanotte, ma non tali da  creare allarme; però  il bagaglio  allestito dalla mamma da borsone divenne una valigia. 
Nessuno assumeva la decisione, nemmeno allora che piccole scosse si rincorrevano, di lasciare la casa e stare fuori all'addiaccio, anche se già per le strade si sentiva rumori e voci di chi già usciva all'aperto, al freddo che quell'anno sembrava di tipo siberiano.
Alle 2.33 di notte una scossa dell’8° (scala Mercalli) sconvolse l'intera Valle del Belice; quella fu, per noi e per la gran parte della gente del paese, la vera e terribile scossa di terremoto che ci indusse a ... scappare fuori. 
Si, solo allora pensammo, prendendoci per mano, di raggiungere la porta per poi scendere le scale; però pur volendo scappare fuori di casa ebbi la sensazione di rimanere impedito, il pavimento infatti diede la sensazione che in direzione della porta non fosse piano ma in ripida salita. 
Si sentirono allora -mentre la scossa durava una eternità- crolli di case. Con i miei genitori riuscimmo finalmente ad arrivare all'aria aperta e ci accorgemmo -allora- che era crollata la casa prossima alla nostra, quella che era stata abitata fino a giorni prima dal nonno.

Nello spiazzo Greco, dove ci dirigemmo, affluiva tanta gente, impaurita e disorientata. 
Solamente il giovane sindaco, che abitava nel quartiere, si assunse l'onere di organizzare, dare consigli e proporre improvvisate sistemazioni. Quelli, forse per fortuna, non erano i tempi dei Bertolasi e della disinvolta Protezione Civile. Non vidi in giro nè forze dell'ordine, nè altri volontari oltre al sindaco. Egli correva da un punto all'altro dello Spiazzo e chiedeva a tutti di sistemarsi lontano dai fabbricati, in mezzo alla piazza, dove la neve ghiacciata era più alta.
Ad un certo punto pure il sindaco sparì dalla piazza e capimmo tutti che corse in direzione della via Croja; da lì arrivavano grida. Qualcosa di grave doveva essere successo. Infatti !!
La notte passò nel silenzio e nello sbalordimento. Questo è quanto ricordo.
Non ci fù confusione, tutti aspettavano la luce del giorno per capire meglio cosa fosse successo al nostro paese e alle nostre case; si rincorreva comunque il sentito dire da parte di tanti che riferivano notizie provenienti dai vari quartieri.

Ricordo che all'alba, c'era ancora buio, il sindaco con un vigile urbano ed un paio di volontari racimolati fra i suoi compagni di partito iniziarono a consigliare di uscire dallo Spiazzo e di dirigerci nei punti di raccolta, nella periferia:  slargo Croce, Giarrusso, Ponte, Santa Rosalia.
I parenti tutti, compresi i miei genitori, convennero fosse opportuno raggiungere la campagna, esattamente borgo Pizzillo.
Li per giorni, forse una settimana, rimanemmo.

I soccorsi ?
A Pizzillo arrivarono forse (non ricordo bene) in serata per fornirci una grande tenda dove poter trascorrere la notte e poi poter sopravvivere nei giorni successivi.
Dopo una settimana in tanti del gruppo parentale decidemmo di tornare in paese, dove le tendopoli costituivano un riferimento.
Ricordo che la mia famiglia, zii, cugini etc. si sistemò nuovamente nello spiazzo Greco, sfruttando  -da accampati- la possibilità che offriva il garage di casa di papàs Gaspare, mio zio. 
Una decina di giorni dopo il terremoto io tornai a Palermo; erano ricominciate a funzionare, in città, le scuole.
Questo è il mio ricordo. Ricordo che diventa via via sempre più lontano.

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Per capire il perchè nella Valle del Belice, l'allarme, i soccorsi, l'attenzione tardarono ad arrivare e furono per parecchi giorni inadeguati, basta ricordare cosa scrisse Leonardo Sciascia sulla stampa isolana con riferimento a ciò che pensavano i politici di Roma e Palermo sui nostri paesi, i paesi del Belice: quelli che ancora faticano con l’aratro a chiodo e con muli; quelli che non hanno, nè scuola, nè ospedali, nè ospizi, nè strade.

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