Riflessioni di G.A. Borgese dal testo: GOLIA, marcia del Fascismo
LO SFONDO STORICO
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Cola Di Rienzo
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L'eroe e il poeta avevano parlato della decadenza e della rovina della repubblica romana e dei loro piani per l'avvenire. "Oh, se potesse accadere ai miei giorni! Oh se potessi prendere parte a così grande impresa, a tanta gloria!". Entrambi volevano con animo concorde la resurrezione di Roma, e la consideravano possibile; e nell'effettuare la magica operazione, sognavano che la rinata città potesse diventare più grande e più bella di quanto fosse mai stata nella sua prima esistenza. Roma, sacra ed eterna, doveva diventare la fonte non solo del potere terreno ma anche della verità eterna, la sede dell'Imperatore universale e del Papa universale, la città dell'Uomo e la città di Dio. Il popolo romano, chiamato ad una missione mistica di cui non era offerta alcuna spiegazione raziale, conservava nel sacrario del suo istituto teologico e storico il segreto dell'unità originale e finale.
Anche se non avessimo alcuna documentazione della tendenza religiosa dello spirito di Cola, potremmo facilmente desumere ch'egli subì l'attrazione di una dottrina che confinava con l'eresia. Questa dottrina, che anche Dante aveva accarezzato, era stata adombrata da un meridionale del dodicesimo secolo, l'abate Gioacchino da Fiore, calabrese. Era la profezia della terza e conclusiva età della storia, dopo l'età del Padre e l'età del Figlio. La terza età sarebbe stata sotto il segno dello Spirito Santo, e doveva portare al pieno compimento. Cola di Rienzo, nel periodo passato in religiosa solitudine, meditò la profezia e si imbeveva del suo spirito; egli agì politicamente sotto la visione combinata della nuova terra e del nuovo cielo, una perfezione imperiale e celeste sulle orme di Dante.
Nell'anno 1347 egli era Tribuno a Roma "Nicholaus severus et clemens per grazia del nostro misericordioso Signore Gesù Cristo, tribuno di libertà, pace e giustizia, liberatore della Santa Repubblica Romana". Egli regnò per conto del popolo e per il popolo, umiliando i baroni e i grandi proprietari e inspirando nella plebe il sentimento della maestà e responsabilità collettiva. Ma fallì nel tentativo di superare le opposizioni coalizzate, e solo per un capello potè salvare la vita mediante la fuga. Egli tuttavia non si arrese, e dopo anni di peregrinazioni e meditazioni riuscì a trovare la via del ritorno; risorto. Il trionfo fu straordinario, e vasto, come era stato la prima volta; ma la seconda caduta fu mortale, e insieme lamentevole. Prima d'essere preso e trucidato, Cola aveva cercato di travestirsi da contadino e di mescolarsi tra la folla infuriata, gridando come tutti gli altri "Morte al traditore!". Umiliazione e rinuncia precedettero il sacrificio che non ebbe, almeno nei costumi e nella messa in scena, la purificazione di una grandezza tragica.
L'elemento farsesco consiste nella sproporzione fra la statura dell'uomo e l'enormità dell'assunto, di natura palesemente donchisciottesca. Come Don Chisciotte che, dopo aver letto i romanzi cavallereschi, pretendeva che la vita fosse quale essi la descrivevano, Cola di Rienzo, incapace di fissare una linea di confine tra sogno e luce diurna, volle trasferire l'architettura della Divina Commedia e la musica del verso petrarchesco nelle cose di carne e di sangue.
Don Chisciotte (come Dante) morì in un comodo letto, mentre Cola periva di freddo acciaio e di fuoco ardente: ma la differenza è soltanto accidentale. Dante fu fortunato abbastanza da scegliere in definitiva la missione dello scrittore, tenendosi così lontano da ogni occasione che potesse farlo cadere nelle mani dei fiorentini. E anche Don Chisciotte, se fosse stato un vero cavaliere errante nella Spagna del re Filippo, invece della marionetta immateriale creata dalla fantasia di un romanziere, sarebbe morto probabilmente di morte assai più drammatica.
(Segue)
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