Il Nuovo Testamento, secondo un laico: LUCIANO CANFORA
Ripreso dal Corriere della Sera
Il Nuovo Testamento
Il Nuovo Testamento è un libro di enorme rilievo, mai letto da coloro che lo venerano se non in minima parte. Ma dopotutto questo è un destino che riguarda tanti testi importanti che diventano un simbolo e un punto di riferimento al di là del contenuto. Già dal titolo di quest’opera – tramandato anche nella tradizione manoscritta – potremmo ricavare un elemento interessante: perché «nuovo»?
La tradizione cristiana, che si è espressa in greco sin dalle origini, ingloba come proprio antefatto la religione ebraica, il cui testo fondamentale è il Pentateuco, cioè i primi cinque libri dell’Antico Testamento. Gli ebrei sono comprensibilmente infastiditi dall’idea di «antico» e «nuovo» che sembra alludere ad un progresso rispetto a una fase precedente e più arretrata. Si tratta di una questione terminologica e non solo, perché allude al difficile rapporto tra due grandi monoteismi al tempo stesso connessi e distinti per tanti motivi.
Il Nuovo Testamento è un libro di enorme rilievo, mai letto da coloro che lo venerano se non in minima parte.
Due realtà diverse
Alla questione aggiungiamo solo una notazione: la tradizione cristiana ha agevolato la traduzione in lingua greca dell’Antico Testamento soprattutto nel mondo egiziano, che fu punto nevralgico della sua diffusione. Così il testo è diventato un corpus unico, «antico» e «nuovo», che anche nell’editoria moderna determina una compattezza libraria che nasconde due realtà molto diverse.
I testi che costituiscono il corpus del Nuovo Testamento raccolgono i tre Vangeli cosiddetti Sinottici – perché molto simili nel contenuto e nella forma, un quarto Vangelo di Giovanni, gli Atti degli Apostoli, le 14 Lettere dell’Apostolo Paolo, le Lettere canoniche attribuite ad altri personaggi e l’Apocalisse – un testo, quest’ultimo, che ha faticato ad entrare nel canone.
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Una riflessione di Vittorio Possenti
Già docente di Filosofia morale e politica
all’Università Ca’ Foscari di Venezia,
Filosofica e rivelazione cristiana. Se si pensa alla Revelatio come parziale disvelamento del mistero di Dio e di quello del mondo, l’intelletto umano può trovare nella sua ricerca appigli vigorosi per non considerare assurdo il discorso della fede e perfino essere invitato a intendere che la Rivelazione del cristianesimo amplia fecondamente il quadro dell’esistenza umana e le opzioni esistenziali conseguenti. Nel rapporto tra Rivelazione e Filosofia gli apporti della prima alla seconda sono numerosi e fecondi. Fondamentale mi sembra l’apporto antropologico su due nuclei: la nascita dell’idea di persona, sgorgata come dono alla ragione umana da parte della teologia trinitaria; in secondo luogo l’assunto secondo cui l’essere umano è dinamico, volto al bene e al male, e forse più al male che al bene. Un insegnamento primario per ogni pensiero politico capace di fare i conti con i fatti, e capace di smentire il fatuo progressismo per cui non esiste il negativo, ma solo la marcia in avanti. La Rivelazione può dunque fecondare la ragione. Sembra che Wittgenstein e Maritain assumano su questo punto centrale posizioni diverse. Il primo dice: “Dio non rivela sé nel mondo”, il secondo assume che la Creazione sia la prima Rivelazione.

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