Eredità del primo concilio ecumenico (stralcio e sintesi di un ampio testo
di Alberto Melloni, pubblicato sul Corriere)
Il Credo niceno possiede autorevolezza e assorbe limature, ritocchi, estensioni al punto che resta definito come la «fede di Nicea» anche quando è evidente che ci si riferisce al successivo e omogeneo Simbolo niceno-costantinopolitano. Al punto che fede e formula rimarranno nel tempo non perché qualcuno l’avesse deciso nel 325, ma perché dal 325 è accaduto — ed è accaduto seguendo un percorso singolare.
Il Simbolo, dichiarato intoccabile dopo ogni ritocco, è stato ricollocato liturgicamente (fino ad oggi) anche se non entrato nel diritto canonico, dal quale si distingueva proprio per il genere letterario a cui dava dignità conciliare. Non fa nessun problema Lutero che pur soffermandosi sul «consustanziale», non vi trova null’altro che una «sintesi della Scrittura». Ha alimentato la dottrina fino alla teologia politica del Novecento: perché, come intuì Erik Peterson, la logica trinitaria impediva di plasmare la delega del potere secondo una logica discendente (da Dio al Figlio, dal Figlio all’Imperatore) di cui nell’Europa dei fascismi si coglieva la pericolosità.
E soprattutto il Simbolo è stato tradotto: da subito e sempre s’è imparato a dire Crediamo/Credo in lingue e culture lontane dalla cultura in cui era nato. Ovviamente l’organo concettuale del Simbolo niceno è tutto dentro la filosofia greca. Joseph Ratzinger ammetteva che questo dava un diritto di cittadinanza perpetuo e irrevocabile a quella filosofia nel pensiero cristiano. Di fatto però il Simbolo ha parlato perché quando è entrato in altre concezioni, lingue, ritualità senza abbracciare la sua matrice filosofica ha consentito la possibilità delle Chiese di dire la «fede-una» e di rendere i cristiani riconoscibili gli uni agli altri.
Ebraismo e cristianesimo. Il Simbolo nasce per e nella Chiesa costantiniana e apre uno iato, colmabile solo teologicamente, fra l’attesa di Israele e la fede della Chiesa. Impregna il Vangelo su Gesù e il Vangelo di Gesù è sostituito da una visione che fissa nel tempo e nello spazio la dimensione che obbliga il dialogo con l’ebraismo a misurarsi coi nodi teologici di fondo (l’alleanza, la Scrittura, la terra).
Il Concilio, ad esempio, non si ferma a spiegare cosa intenda esattamente quando dice che il Figlio è «della stessa sostanza» del Padre. Lo fa perché coglie il valore del consenso nato fra le Chiese: consenso ambivalente, inclusivo di sfumature perdute, ma che si rivela effettivo per recezione e duraturo storicamente.
C’è poi la questione «storia e dogma». Il che dice che la storia, oltre che alla dogmatica, deve mettere sotto esame il Simbolo come frutto di quel processo di reciproca immanenza.
Tutti problemi per gli studi di domani, ma anche per le Chiese di oggi che il patriarca ecumenico Bartolomeo ha invitato a celebrare insieme questo anniversario. Il Credo, infatti, nel suo lungo itinerario è diventato parte di quel desiderio cristiano di unità che ha mosso le Chiese del XIX e XX secolo e che ha posto tutte le Chiese — quelle della riforma e quelle ad est di Bisanzio, il patriarca Bartholomeos e papa Leone — davanti ad una questione: basta la fede comune a camminare in un’unità, ancorché imperfetta? O c’è qualcosa che vale più della fede comune che decide della possibilità non tanto di celebrare la Pasqua nella stessa data (un aggiustamento più difficile che utile), ma bevendo allo stesso calice nel quale il mistero espresso dalla fede nicena trova la sua espressione?
Il compito della ricerca e’ dotare quell’appuntamento non di enfasi celebrativa, ma di analisi rigorose da permettere ai capi delle Chiese di fare ciò che spetta loro, in un mondo nella cui catastrofe la divisione fratricida dei cristiani fa parte sia della cause sia delle conseguenze di questo diluvio di sangue e cinismo in cui l’umanità sembra irrimediabilmente immersa.'
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