I capitoli in allegato fanno parte degli "Antefatti" di un romanzo più lungo che ho in preparazione.
Zef Chiaramonte
XXIX
Un articolo, apparso sulla rivista
studentesca della Pontificia Università
Gregoriana,
portava la firma di Zef Maliqart.
Prendendo
spunto dagli interventi in Concilio del Patriarca di Antiochia dei Melchiti,
Maximos IV Saigh, l’articolo esponeva la tradizione delle Chiese orientali sul
sacerdozio coniugato.
Non si tratta
del matrimonio dei preti, come in modo sbrigativo e inappropriato si dice, ma
del fatto che le Chiese orientali affidano il sacramento del sacerdozio non
solo a uomini celibi, generalmente monaci, ma anche a sposati.
La materia è
regolata dal principio canonico che il sacerdozio fissa l’uomo nello stato in
cui l’ha trovato. Così, se si è sposati
prima dell’ordine sacro, il matrimonio rimane in piedi insieme all’esercizio
del debito coniugale. Rimasto vedovo,
non hai diritto a un nuovo matrimonio, a pena di decadenza dall’esercizio del
sacerdozio.
Tale disciplina vale per tutte le Chiese
orientali, comprese quelle in comunione con Roma e, perciò, dette
greco-cattoliche.
Solo che, su
queste ultime, la Sede Apostolica romana, ab
immemorabili faceva pressione a ché si abbandonasse quest’uso a favore del
solo sacerdozio celibatario.
Maliqart, nel
suo articolo, reagiva contro questa indebita pressione e, nel clima conciliare,
affermava che quest’aspetto della tradizione orientale era un precisa
indicazione per i Padri nel dibattito in atto sul sacerdozio nella Chiesa
universale.
Vero è che,
nella fase antepreparatoria del Concilio, un esponente della Curia romana aveva
visitato l’Eparca degli Albanesi di Sicilia, ponendo la questione e chiedendo
lumi sul come si realizzasse il connubio tra matrimonio e sacerdozio nella
stessa persona. Ma l’Eparca, in seguito definito pastor dormiens in un articolo, con foto, di Gustavo Selva, lo
mandò da papa Luci, unico prete vedovo della comunità.
Il monsignore
romano si mostrò talmente stranito e ostile alla tradizione arbëreshe, che papa
Luci, con bei modi, lo cacciò fuori di casa!
Quando in
Concilio si pose la questione, il Patriarca Maximos non solo non dormì, ma
parlando in forbito francese, difese la tradizione delle Chiese orientali e la
propose con forza alla Chiesa latina. Le
reazioni furono contraddittorie, ma il Papa, Paolo VI, avocò a sé la decisione.
XXX
L’articolo di
Maliqart, pubblicato nell’organo di stampa della più prestigiosa Università
pontificia, venne considerato assai sconveniente.
Il
responsabile editoriale venne subito sollevato dall’incarico mentre si dava la
caccia alle streghe per individuare l’autore dell’articolo incriminato e
espellerlo dalla Facoltà.
Il suo nome e
il suo cognome non figuravano, però, negli elenchi degli allievi. Si era presa la precauzione di usare uno
pseudonimo che, poi, altro non era che la traduzione in altra lingua del nome
ufficiale.
Tra gli
alunni corse voce che si trattava di un “greco” siciliano, in buona amicizia
con Michele Pennisi, poi divenuto arcivescovo di Monreale.
Sta di fatto che un bel giorno, mentre tra una lectio e l’altra i due si godevano i
giochi dell’acqua Virgo a fontana di Trevi, una folta delegazione di studenti
siciliani, a colpo sicuro si rivolse al più alto dei due chiamandolo Zef.
La coperta fu
scoperta, ma non arrecò danno a nessuno! Anzi, i siciliani vollero sapere se la
tradizione del clero uxorato in uso tra gli arbëreshë fosse uguale a quella
della chiesa siciliana durante il periodo bizantino. La risposta, ovviamente, non poté che essere
positiva.
Ne nacque una
bella amicizia. I siciliani continuarono a chiamare il greco” Zef “, cosa che
all’interessato non dispiacque, e lo invitarono a via del Tritone, nella chiesa
di S. Maria d’Itria dei Siciliani, dove avevano un proprio sodalizio e si
riunivano ogni giovedì pomeriggio.
XXXI
Tra le tante
chiese “nazionali”, quella dell’Odigitria al Tritone fu il punto di incontro e
di cura degli interessi per i siciliani residenti o transeunti nella Città dei
papi. Con la fine del sistema feudale e
con l’adozione delle leggi napoleoniche, essa aveva perduto anche l’ultimo
degli scopi per cui era sorta: la sepoltura intra
moenia degli affiliati. Ora gli
studenti di teologia provenienti dall’Isola ne usavano i locali per occuparsi
di … economia.
Se ne stupì
assai il siciliano “greco”, soprattutto quando gli venne presentato il Prof.
Vacca della Facoltà di Economia, ospite e animatore dell’incontro. Tema: Economia e sviluppo del Mezzogiorno.
I grandi
fermenti conciliari spingevano le giovani leve di leviti, prossimi alla cura
d’anime, a occuparsi anche dei corpi, e i vescovi siciliani ne assecondavano la
sollicitudo rerum socialium, quando
addirittura non ne li spronavano. Non così, però, tra i “greci”!
Il “greco”,
infatti, si sentiva preso dai turchi! La
sua tradizione bizantina, incentrata su una ritualità disincarnata, quasi fuori
dal tempo, contemplativa ed esicasta, faceva fatica a calarsi nella realtà di
fatti concreti che avrebbero inciso nelle carni di uomini e donne in cerca del
pane quotidiano.
Il Professor
Vacca, purtroppo, spense subito le
aspettative dei convenuti, affermando che i piani di sviluppo nazionali non
prevedevano nessuno sviluppo per il Mezzogiorno. Ci sarebbero stati solo finanziamenti a
pioggia, per servizi: fognature, strade, illuminazione, … acquedotti.
Con dovizia
di cartine e di particolari illustrò le possibilità offerte a ogni Comune della
Sicilia nell’attingimento di finanze pubbliche finalizzate alla creazione o al
miglioramento di servizi. Nient’altro.
Dopo un
secondo incontro e una gita fuori porta, gli amici siciliani si salutarono
dandosi appuntamento per il nuovo anno.
Ora cominciava la sessione estiva d’esami e poi le vacanze.
XXXII
Con
scrupolosa diligenza, Zef aveva preso nota delle possibilità offerte al suo
Comune dal Piano nazionale dei servizi. Riteneva suo dovere avvisarne gli
amministratori.
Quale fu,
invece, la sua sorpresa, quando, tornato dai suoi per le vacanze, vide le ruspe
già a lavoro?!
In un solo
giorno, insieme all’antico kjankato
della strada, saltarono la fognatura costruita a proprie spese dal nonno, La
Pipinu i Karminës, alla fine dell’800 e il tubo di un pollice che Gnazzino aveva interrato per portare l’acqua
in ogni casa.
In realtà,
sia la fognatura che il tubo di un pollice risultavano oramai obsoleti e non
più rispondenti ai migliori standard. Subito dopo i lavori, però, ci si accorse che, insieme ai
nuovi allacciamenti, molti dei vecchi erano rimasti in vita, disperdendo nelle
viscere della terra il prezioso liquido.
La cosa ebbe
uno strascico tragicomico qualche anno dopo, allorquando, nel piccolo podere di
Pinuzzo Conti, a valle del paese, zampillò improvvisa in piena estate, una
bella polla d’acqua! Una vera
benedizione per Pinuzzo che teneva un bell’orto, alcune pecore e bianche vacche
“sguizzere”. Ma Pinuzzo era anche
l’operatore ecologico comunale, come si dice oggi, e addetto all’apri e chiudi
della valvola erogatrice dell’acqua pubblica: aveva preso il posto di Kuridu.
Nell’accecamento totale della ragione, provocato dalla persistente mancanza d’acqua, specialmente d’estate, un
intero popolo si rivoltò contro Pinuzzo, reo d’aver lasciato aperta, di
proposito, la coda, la parte terminale dell’acquedotto! Pinuzzo rischiava la denuncia, se il
Presidente del Comitato non l’avesse salvato convincendo la maggioranza degli
aderenti che si trattava di grosse falle vergognosamente lasciate aperte dai
“marinisi” quando avevano fatto i lavori.
Lavori che
non si erano limitati a strade, fognature e a nuovi pezzi di acquedotto
cittadino. No! Erano andati oltre.
Avevano scombussolato tutti gli accessi alle abitazioni non curando di
adeguare la pendenza della strada al piano di entrata di ogni singola porta
d’ingresso. Infatti, all’orlatura dei marciapiedi, ancora in pietra Sheshi o di
Billiemi, veniva data la medesima pendenza da cima a fondo. Il primo a farne le spese fu La Pepi i Pizingrilit che stramazzò a terra
mezzo morto per essersi impigliato nella novità …
XXXIII
Con
l’occasione scomparvero alcuni angoli pittoreschi della cittadina, risalenti
all’antica bicocca degli Albanesi della prima enfiteusi(1691-1747) o forse alla successiva infeudazione ai Gela
(1747-1818).
Scomparve il
pollaio di Vo Ghatuca in largo Musacchia, un capolavoro dell’arte di
arrangiarsi tra una scala a due rampe e un trabusino
a terrazzo.
Scomparve
l’aia intra moenia di Zu Shaverio
Parli, il padre di Tanuci i Shpallinit.
Era uno spiazzo a semicerchio davanti casa, chiuso da un muro di
contenimento, quasi un torrione senza merli.
Con l’asino o a mano, Zu Shaverio vi pestava ogni sorta di granaglia e
di legume che produceva nella sua piccola chiusa.
Scomparve
anche la “casa solerata” dei Kuatroqi con la bella gradinata esterna,
diligentemente segnalata nel contratto di enfiteusi ai Gela.
Ma, terribile dictu, scomparve pure la
fontana del 1895!
Così: una ruspa la parò davanti e la sradicò dalle
fondamenta. I conci biachi di Sheshi saltarono come saltano i denti quando ti
danno un pugno sul grugno all’improvviso.
Ora il frontone di recupero senza la conca originale e montato senza
slancio ascensionale, pare lo spettro di se stesso.
Il “vezzo” di
far piazza pulita si sarebbe ripetuto in diverse altre occasioni: i lastroni
della vasca della fontana distrutta, ricomposti altrove, sparirono di notte
senza che nessuno ne rincorresse le tracce; nel restauro di Paghaci i don Nelit, Palazzo Musacchia,
dal piano nobile sparì la porta di ferro bombata e corazzata a protezione dalle
scorribande del periodo garibaldino; nell’allargamento del viale Scanderbeg,
subito dopo la Croce dei Missionari, sparì la scarpata di pietra Sheshi; nel
rifacimento della seconda parte di via Palermo, dalla strada di Gamillo al
poggio della S. Croce, sono appena spariti oltre 1.500 metri di orlatura e
cunetta sempre in pietra Sheshi che si sarebbero potuti utilizzare per il
rifacimento della piazza principale del paese.
Tutta roba di
pregio che non va a finire in discarica, ma si tramuta in soldoni per…
Si
licet parva magnis comparare, qui
come a Gerusalemme non resterà pietra su pietra! Ma rimane la “francigena”, una bella foglia
di fico a copertura delle vergogne.
Per lo scempio
della fontana, il Sindaco disse che bisognava rendere rotabile la strada!
Era l’inizio
della fine: i tempi di Pilaqi inesorabilmente tramontati, qui come
altrove.
L’Italia entrava nel tunnel del malaffare
istituzionalizzato che avrebbe lambito anche Santa Madre Chiesa.
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