Nei primi anni ‘60 studiavo ingegneria, a Trieste e, nel contempo, frequentavo
la facoltà di lettere nella storica sede di Via dell’Università. Direte, ma che
stravagante modo di voler diventare ingegnere. Non fraintendete.
Frequentavo “le ragazze” che frequentavano lettere. E non crediate che fosse
tempo sprecato, tutt’altro.
Si dà il caso che spesso mi trascinavano a sentire
qualche lezione. di filologia, e non so dirvi quanto affascinante sia
questa materia. Anche per un ingegnere? Ma certo, anche per un ingegnere,
specie se meridionale, come me, che scopre l’importanza dei sostrati. Un
esempio. Nel dialetto calabrese c’è un modo di dire, “catupp e catapp”,
almeno a Corigliano, che sta a significare “nè poco nè tanto”.
Ebbene, discende direttamente dall’arabo “katibbi, katabbi”. Ma rimasi
oltremodo affascinato quando il professor Pellegrini, a sua volta discepolo del
famoso filologo professor Tagliavini, affrontò il tema di una forma dialettale
catanzarese che ripete fedelmente una formula grammaticale Latina. Avrete,
chissà quante volte, sentito un catanzarese pronunciare frasi del genere:
Vaiu ma un mangiu = vado a mangiare, Vaiu ma un pisciu = vado a pisciare.
Questa forma rispetta l’esatta forma latina di“ut e il congiuntivo”. E con ciò ?
Nulla. Solo che di mio ho dovuto aggiungere che questa forma si ripete
perfettamente anche nel dialetto della vicina Rossano e nei paesi del suo
hinterland. Sin da giovane ho avuto modo di valutare la forma rossanese:
“ Va’ e dicil ’un vena “ = Va’ e digli che venga, dove quel “un” non è altro che
l’antico ut della lingua latina, che sta a significare “affinchè”.
Aggiungo che
alle stesse ragazze che ci invitavano alle lezioni di filologia, ricambiavamo la
“cortesia” affidandogli il compito di ascoltarci mentre ripetevamo una nostra
materia, come prova d’esame. E sapeste come erano severe, sulla scorta dei
nostri libri di testo, se commettevamo un qualche errore nel trascrivere una
formula di “Scienza delle Costruzioni” o di “Macchine”. Dopo questa
divagazione filologica e tecnica,che ci conferma come anche i severi studi
d’ingegneria sapessero conciliare l’utile al dilettevole (e non chiedetemi
cos’era il dilettevole), possiamo parlare di goliardia.
Alla festa delle
matricole,che si celebrava ogni anno, si poteva assistere a scenette e ad
episodi gustosi improntati, sempre, ad originalità ed intelligenza.
Uno di quegli anni, uscendo di casa per avviarci all’Università, notammo che,
alla fermata dell’autobus che, di solito, nel bel mezzo del riquadro di vernice
gialla,stampato sull’asfalto, riporta la gigantesca scritta BUS, con gli stessi
identici caratteri, era stato aggiunto “DEL CUL”. E su tutti i percorsi stradali di
Trieste che portavano all’Università, campeggiava l’impudica scritta “BUS
DEL CUL”. Si dà il caso che il Comune, probabilmente con ironico malcelato
compiacimento, fu intempestivo nel procedere alla cancellazione di
quell’aggiunta che rimase almeno fino alla fine di quei tre giorni di“baldoria”,
con grande compiacimento degli studenti e, più che altro, di tutta la città che
non si lasciò sfiorare dall’ombra di falsi moralismi ma, addirittura, apprezzò
l’intelligente vivacità di quelli che, un giorno, sarebbero stati gli esponenti
della cultura cittadina. Negli incontri con le rappresentanze studentesche
straniere (di solito ragazze austriache, tedesche e polacche),quando si
doveva intonare l’inno internazionale della Goliardia, il nostro solenne
“GAUDEAMUS IGITUR” dava luogo ad un insanabile conflitto di pronuncia
con il loro “Gaudamus igghitur” che loro sostenevano fosse la corretta
dizione “latina”, tutta gutturale, e tiravano in ballo anche il nostro “errato“
Cesar nel voler leggere Caesar che, per loro, andava pronunciato “Kaesar”,
da cui il tedesco Kayser , e lo slavo a Czar, volti ad indicare l’imperatore.
Risultato? La controversia si risolveva, sempre, con la pacificazione davanti
ad un “bicer de bianco” accoppiato ad un “rodoleto de persuto” in quelle
romantiche osterie della Trieste “anni ‘60 “. Ma la goliardate erano all’ordine
del giorno e, spesso, restavano relegate nell’ambito della quotidianità,
limitandosi alle quattro risate tra studenti, senza il veicolo divulgativo dei
media, anche se, spesso, meritevoli di palcoscenici più ampi. Uno dei
bersagli più vulnerabili delle nostre mattane era Franco Ramundo, tipico
calabrese dai capelli neri e crespi e dal colorito scuro, con l’aggiunta, però, di
occhi azzurri che suscitavano un qualche curioso interesse, specie nelle
friulane, che egli, severo rispettoso del “donne e buoi dei paesi tuoi”, finiva
sempre con lo scoraggiare. Ed essendo fratello di un sacerdote era
integerrimo cattolico praticante che non si perdeva una messa domenicale.
La segretaria di facoltà, ogni volta che lo vedeva, gli invidiava la “tintarella”
che immaginava avesse acquisito nelle vacanze. Franco aveva un carattere
molto docile, per cui si prestava ai nostri scherzi, è il caso di dire, ”da preti”, e
quindi sopportava le nostre, a volte esagerate, spiritose trovate. Una volta,
che abitavamo, tutti noi amici calabresi, nella stessa pensione, ci ritrovammo
nella stanza di Franco che, già in pigiama, si apprestava ad andare a letto.
Uno di noi, con intento palese di farlo imbestialire toccando il problema
dell’esistenza di Dio, affermò che Dio non esiste. E Franco, come era
prevedibile, reagì violentemente a questa asserzione. Era abituato Franco,
sparagnino com’era, a fumarsi, prima di andare a letto, una mezza sigaretta,
riservandosi l’altra metà per l’indomani, sorseggiando il caffè. Quella sera
accese e fumò una sigaretta intera. Leonardo mi fece osservare: dev’essere
veramente incazzato, stasera, e non bada a spese. Guarda con che rabbiose
boccate sta dando fondo al valore di una sigaretta intera. Costi quel che
costi.
Un caldo pomeriggio mi telefonò ed io corsi all’apparecchio telefonico a
parete, collocato all’ingresso, come si usava a Trieste nelle case che
affittavano camere a studenti. Cominciò a parlare di qualcosa ma io,
all’improvviso, emanai un rantolo, ah, ahhh, ahhhhh,e poi silenzio. E lui:
Erne’, che cè? Ed io non rispondo. Erne’, dimmi, cosa c’è? Io muto.
Erne’, non farmi preoccupare, cos’hai? A quel punto, senza attaccare, lascio
l’apparecchio pendulo. Dopo circa un quarto d’ora, giusto il tempo per farsi a
piedi il percorso da casa sua, drin drin, suona il campanello della porta.
Con
aria sorniona apro la porta e mi si presenta tutto sudato, col fiatone per
essersi fatto a piedi le scale dei tre piani. Non ha più la forza di parlare.Lo
faccio entrare e una volta seduto gli dò il tempo di riprendersi. E poi,
finalmente, mi scarica addosso una sequela di severi ammonimenti, con
invito a non fare mai più di questi scherzi. “Pensa, se un domani, veramente ti
dovesse accadere qualcosa, stai pur certo che io non ti crederò, e tu chissà
che fine farai. Promisi solennemente che non l’avrei fatto mai più. Passò un
mesetto e fui io a chiamarlo, in un torrido pomeriggio. Quando rispose aveva
un voce stentorea e, con un qualche affanno, disse: Erne’, sto male,mi sento
svenire. Ed io: ma chi vuoi prendere per fesso, se sono stato io a farti per
primo questo scherzo. Erne’, ti giuro, sto veramente male e non mi reggo in
piedi. Vai bello, vai, ed attaccai il telefono. Poi ci ripensai. Franco, cattolico
praticante qual era, non diceva mai bugie. E per non avere scrupoli, scesi giù,
inforcai la Vespa e, giunto a casa sua,che per fortuna era munita di
ascensore, suonai, e tardò ad aprire la porta e, senza parlare, si sdraiò
sul letto, mentre il sudore gli imperlava il viso. Gli applicai un fazzoletto
bagnato sulla fronte, e poi, nel tardo pomeriggio, quando ormai si era ripreso,
lo accompagnai dal dottor Omero, che era il medico messo a disposizione
degli studenti, dall’università. Con la solita bonomia che lo
contraddistingueva, il dottor Omero si fece spiegare cosa era successo e poi,
diede questa tranquillizzante spiegazione: quando squillò il telefono, lui si
vegliò di soprassalto per andare a rispondere. Non c’è cosa più sbagliata.
Quando ci si sveglia, non bisogna mai passare velocemente dalla posizione
orizzontale a quella eretta, ma bisogna sempre dar tempo all'organismo di
procedere lentamente all’assuefazione,stando un pò seduti sul letto, prima di
alzarsi .E questo vale per tutti, anche per le persone sane. Questo succedeva
negli anni ruggenti di quella splendida e meravigliosa stagione goliardica che
ci aiutò a diventare, oltre che quei professionisti che siamo diventati,anche
uomini di quella Mittel Europa a cui tanto dobbiamo. Ma erano altri tempi, ed
altri contesti,con altri gusti e ben altri interessi. Oggi, quei pochi amici che mi
restano nella città giuliana, quando rievoco quegli anni di sana e
“spregiudicata” spensieratezza, non fanno che ripetermi: “Goliardia ?
Goliardia xe morta”. Osterie e Trattorie di una volta? “Ora son tute ristoranti
de luso”.
E le mule ? “Tute vece babe che no le se pol vardar “. E,
ovviamente, il loro riferimento è inteso a “quelle mule”, di altri tempi e di altre
stagioni della vita. E sapeste la stretta al cuore.
Ernesto SCURA
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